Una finestra sulle mura

Sono passata dietro le mura dopo tanto tempo, dopo tante strade.

La finestra è ancora là.

Sembra più piccola, goffa, scrostata eppure é stata tanto larga da bere l’orizzonte;tanto ambiziosa da affacciarsi su mille mondi.

Da quella finestra si respira un panorama che sa di eterno, che pare legare passato e futuro, paura e speranza.

Le mura separano la strada dagli scavi del Teatro Romano, con le sue colonne solenni risvegliate dal sonno del tempi da mani amorose.

Più in là, all’orizzonte, la vecchia Badia, ormai sola con il vento che ogni giorno di più disperde le voci delle sue pietre e la strada asfaltata, turgida di traffico.

Intorno il verde dei cipressi, cupo, vibrante, dorato nel giorni di sole.

E’ la finestra di una camera, la mia.

All’interno, presso i vetri, a destra e a sinistra ci sono dei sedili di pietra grigia, venata, fredda che forse trattengono ancora, in qualche atomo, il calore del mio corpo, perché tante volte mi sono acciambellata, come una bestiola, su di essi.

Acciambellata a piangere, a ridere, ad inventare e raccontare storie di speranza e di pena, di passati e di futuri.

Esplodono dentro di me immagini e risate.

Mi trovo a sorridere da sola, ammiccante, con i capelli in disordine, gli occhi gonfi.

Devo apparire strana, con la schiena appoggiata alle mura e gli occhi rivolti alla facciata di una vecchia casa con tante finestre, tutte chiuse.

Alcuni turisti di passaggio si voltano a guardarmi incuriositi.

<<Nonna, raccontami la novella dello stento.>>

<<Vediamo, birbante, ti racconto la novella dello stento che dura tanto tempo e non finisce mai. Te la dico o te la racconto?>>

<<Dimmela.>>

<<Allora ti dico la novella dello stento che………….>>

Sono voci di un passato appassito che affonda nelle origini, nel caldo grembo materno.

Solo io e quelle pietre le ricordiamo.

La bimba dalle gambe così magre da sembrare un “chiurlo”, che credeva al “Ceppo” e tirava i baffi al gatto non c’é più e neanche la vecchia vestita di nero, con la crocchia di treccia ed il rosario sempre tra le dita.

Sono lontani quei giorni eppure vivi come un alito di vento che non puoi afferrare ma di cui avverti la presenza trascinante: alchimia di linfa, di misteriosi passati e di fragranti presenti.

Da quella finestra ho costruito e distrutto, ho conquistato e perso, immaginato, cancellato, condannato, assolto, rinnegato la vita, Dio, il mondo.

Ho pianto quando hanno tagliato i miei alberi complici di giochi e di fughe.

Erano sotto le mura ed impedivano la vista degli scavi del Teatro Romano.

Una mattina mi sono svegliata e non c’erano più.

E’ stato come se una parte della mia infanzia fosse stata tagliata via, sradicata dalla sua naturale andatura, scagliata nel nulla e calpestata.

Per giorni non ho avuto il coraggio di affacciarmi, evitavo di guardare i vetri perché il nodo che mi legava agli alberi era ancora dentro di me e non si voleva sciogliere, rifiutava di annullarsi.

Pensavo a quanti anni i miei alberi avevano lottato contro il vento, il freddo, le malattie.

Pensavo al loro idiomi fruscianti, tesori di sotttintesi, d’incanto, fecondi di turbamenti.

Erano come fanciulli inermi, fiduciosi e zac, erano caduti con le chiome immalinconite nella polvere, spazzati via come rifiuti, spaventapasseri della natura inutile, impotente sacrificata al gorgo della vita.

I miei passi risuonano moltiplicati sull’acciottolato grigio, logoro, sterile di verde.

Non c’é sole di benvenuto.

Cade una pioggia leggera, sottile, impalpabile, quasi. timida.

Riconosco ogni rumore, ogni odore, fanno parte delle mie radici che suscitano ritmi, pause, stralci di emozioni, di appartenenze.

In qualunque parte del mondo mi trovassi potrei chiudere gli occhi e ascoltare il vibrare della sega sulla pietra d’alabastro, lo scalpellinare degli scultori, il battito d’ali impaziente dei piccioni, l’odore del coloranti e dei mastici.

Sono rumori antichi, fermi nel tempo da secoli.

I gesti di cento anni fa vengono ripetuti all’infinito in un gioco rotondo di creatività e di scoperta, un continuo ritorno alle fonti.

Vedere liberate le figurine bianche dalla pietra che le tiene prigioniere é un’esperienza che mi ha sempre fatta tremare d’attesa e di godimento.

E’ come aprire la gabbia di un uccello e vederlo conquistare l’orizzonte a cui é sempre appartenuto.

La figura è nella pietra bianca e opaca ma gli occhi non la percepiscono se non dopo la liberazione, la purificazione che lo scalpello compie guidato da mani callose, da occhi acuti che non saranno mai vecchi, che per anni hanno evocato miti attraverso la polvere bianca che fa tossire e logora i polmoni.

Non ci sono mai state tende a quella finestra.

L’orizzonte doveva essere bucato appena lo cercavo, niente ostacoli tra me e lo spazio.

Sento improvviso il desiderio di toccarla, di rinnovare un accordo, di tornare in simbiosi.

Gli unici contatti possibili sono ormai quello visivo e quello dell’anima.

La finestra non è più mia.

Un giorno, per motivi oscuri a bambini, non fu più mia e le mie dita grottescamente piccole e tremanti non ebbero il coraggio di una carezza d’addio, ancora fiduciose nel domani.

Eccolo il domani.

La finestra é là ed io la guardo e le parlo come se anche lei potesse rammentare i miei occhi insicuri e ansiosi sulle sue venature, sulle screpolature del suo vecchio legno vulnerabile, e il dolore che cercavo di parteciparle quando il mio passerotto, nella sua gabbietta appesa all’aria con un chiodo, morì.

Rapidamente cerco quel chiodo come per verificare che tutto ciò che ricordo é vero.

E’ ancora lì, anche lui, arrugginito, curvo, inutile ed escluso.

Non c’è appesa una gabbia di legno trillante di vita e di colore, presenza prodigiosa di vibrante calore.

Non c’é nulla, più nulla da vedere né da ascoltare.

La novella dello stento che sembrava interminabile è finita e la mia fronte si é corrugata nell’ansia dei ricordi.

Tutte le voci tacciono ora, è tardi, la sera sparge le sue ceneri.

Accarezzo le vecchie mura di pietra, gli anfratti colmi di ragni e di escrementi di piccioni e all’improvviso mi metto a correre lungo la stradina arcuata, ventosa, lontano da quell’orizzonte indifferente e da quei mondi accarezzati in cui ho vissuto affacciandomi, stupita, dalla mia finestra sulle mura.