GAZA
Quando la madre vide il figlio in abiti borghesi ed una valigia accanto, con una stretta al cuore intuì subito che gli era accaduto qualcosa di grave. Gli abiti e la valigia, collegati alla lite furibonda, scoppiata tra padre e figlio, la sera prima, rappresentavano, infatti, per la donna degli indizi poco rassicuranti . “Madre…”esordì d’improvviso il giovane. “Domani parto, parto per l’America!”. “Per l’America? Così, di punto in bianco?
Ma sei pazzo figlio mio?” La madre, nonostante i suoi presentimenti, si trovò impreparata di fronte ad un simile annuncio. “Cosa farai in America?”. Nei pensieri della madre il figlio, infatti, era un valoroso soldato dell’esercito israeliano, con un onorevole carriera d’ufficiale dinanzi a sé. Ma il giovane ora le spiegava che, in America, avrebbe studiato per diventare medico. Quei cugini americani, lì a New York City, coi quali si scriveva regolarmente, lo avrebbero aiutato a trovare un lavoro per mantenersi durante i suoi studi. Figurati poi se, in America, un lavoro non lo trovava. Era da mesi che il figlio aveva maturato questa decisione, ma finora non aveva trovato il coraggio di parlarne con i suoi genitori.
“La verità, madre, è che non sono più un soldato.”confessò il figlio. “Circa un mese fa mi sono dimesso dall’Esercito. Non ha più senso per me, infatti, portare questa divisa. La mia è una decisione irrevocabile.
Sono stanco, madre. C’è solo dolore, rabbia e tanta tristezza nel mio cuore!”. La madre non riusciva però a capacitarsi. Cosa ne era stato di quel ragazzino, che sognava di diventare generale e teneva la foto di Moschè Dajan in camera sua; che, diventando adulto, trascorreva le ore libere a leggere libri e riviste di strategia militare, entusiasmandosi al racconto delle gesta dei grandi condottieri della storia…?
Dov’era finito il suo orgoglio di ebreo israeliano, custode della terra promessa loro da Dio? “Cosa ti è mai successo figlio mio..?” gli chiese infine, disorientata, col cuore straziato per l’imminente loro separazione.
“Credevo, madre, che avrei combattuto per una causa giusta.” rispose il figlio. “Per la nostra terra, per l’esistenza stessa del nostro popolo, minacciato dalla disumana e sleale strategia dei terroristi palestinesi. Credevo di combattere una guerra giusta, di difesa, non di vendetta! Perché, se loro si fanno esplodere davanti ai nostri ragazzi coi loro ordigni micidiali; noi lanciamo i nostri missili sulle loro città, per eliminare un solo terrorista. Anche noi, anche noi madre non ci preoccupiamo di risparmiare le loro donne, i loro bambini. Occhio per occhio, dente per dente. Quando non li uccidiamo, noi spegniamo per sempre la speranza di quei piccoli orfani, gettandoli tra le braccia dei terroristi. Con i morti, noi seppelliamo il nostro futuro ed ogni possibilità di dialogo…”. La madre si mise il viso tra le mani.
Ella non pensava, non pensava che i loro soldati, i figli di Israele, l’orgoglio della loro giovane Nazione, potessero fare del male a dei bambini, a delle donne. Il figlio le fece cenno di si col capo. “Si, purtroppo è così madre!”. Egli ora guardava le sue mani con orrore. “ Anch’io, anch’io mi sono macchiate queste mani del loro sangue. Che io sia maledetto, per non essermi fermato in tempo…” La madre lo abbracciò con tenerezza, come quando era bambino, cercando di rassicurarlo. “No, no, non dire questo figlio mio.” gli disse “Tu eri solo un soldato. Era tuo dovere combattere, ubbidire. Così è la guerra… ”No, no, per il figlio, non potevano esserci giustificazioni per simili crudeltà. Trovava così vigliacca ed ipocrita la guerra delle bombe intelligenti! “Un tempo, forse, si combatteva davvero: spada contro spada, petto contro petto con il tuo nemico in campo aperto, in uno scontro leale.” disse dunque, allontanandosi dalla madre. “Ora siamo solo degli assassini, si degli assassini. Basta schiacciare un bottone per sganciare ordigni di morte, che distruggono intere città. La guerra non rispetta alcun codice d’onore e non esistono “guerre giuste”, che possano legittimare gli orrori di cui siamo stati artefici a Gaza!”.
Ma cos’era accaduto a Gaza di così terribile, per giustificare, dinanzi agli occhi di quella madre attonita, un cambiamento così radicale nella vita del figlio..? La verità era che, Gaza, aveva rappresentato per il giovane un’esperienza scioccante. In quei giorni d’assedio, infatti, egli era diventato un altro uomo, era diventato un ‘carnefice’, come tanti altri bravi ragazzi del suo corso. “ Non so perché. Forse perché ci facevano dormire poco e pativamo la fame ed i nostri nervi erano a pezzi…” tentò di spiegare. “Ma saranno poi queste, davvero, le ragioni per cui, a Gaza, abbiamo fatto una strage? ”. “Addirittura, una strage! Cosa erano diventati dunque gli ebrei? si chiese la madre. Era possibile che il ritorno alla terra promessa, avesse tramutato in pietre i loro cuori: tanto da non provare quella pietà che, ai tempi della shoah, avevano invocato dal mondo; così da trasformarli da perseguitati in aguzzini? “Purtroppo è proprio così, madre!” disse il figlio. Le sue mani ora tremavano. “Ho ancora nelle orecchie il pianto disperato di quei bambini, dei bambini di Gaza. Essi cercavano le loro madri. Ma la madri non potevano rispondere; perché le madri, il più delle volte, erano dei cadaveri, dei cadaveri tra tutte quelle macerie, accanto a loro in un bagno di sangue. Allora, poverini, quei bimbi speravano nei loro padri. Ma noi uccidevamo i padri sotto i loro occhi innocenti; e quando non li uccidevamo, li trattavamo in modo disumano, peggio delle bestie”. Perché, perché, continuava a ripetere la madre; anche nel nome di tutte le madri del mondo, private dell’innocenza dei loro figli. Perché gli uomini di Hamas – tentava di spiegare allora il figlio con la voce rotta dalla commozione – sparavano addosso agli israeliani e questi rispondevano, uccidendo altri uomini. I loro nemici! Ma tra quei cadaveri nemici martoriati, c’erano più civili inermi, più donne, più bambini, che militari palestinesi.
“La notte mi sveglio madre,” confessò tra le lacrime il figlio, “e non mi posso più riaddormentare. Nel buio vedo, vedo ancora i loro occhi terrorizzati…” Allora la madre prese il viso del figlio tra le mani. “No, figlio, no! I bambini no,” urlò. “Anche io e tuo padre, ai tempi della shoah, eravamo solo dei bambini terrorizzati…”
Il figlio però non capiva. “Ma che colpa hanno questi bambini?” si chiedeva addolorato. “Orfani segnati per la vita! E perché noi giovani di belle speranze, il popolo prediletto, siamo diventati dei criminali? Se vedessi madre, le strade di Gaza, pieni di morti innocenti senza sepoltura. Perché, perché tutto questo odio? Perché non potremo dividerci in pace questa terra? E dov’è, madre, il nostro Dio? Dov’era al tempo della Shoah?”. “No figlio, non parlare così. Non nominare il nome di Dio invano,” lo rimproverò la madre.
Perché – ella spiegò al figlio – sono gli uomini a fare la storia, nel bene e nel male. “Sembra, tuttavia, che gli abitanti di questo pianeta non facciano mai tesoro delle esperienze passate,” ricordò il giovane.
“Secolo dopo secolo, guerre, stragi, orrori sembrano ripetersi, rinnegando i giuramenti di pace e concordia, uccidendo la speranza. La verità è, madre, che i popoli, tutti i popoli, in ogni tempo, sono solo vittime delle decisioni scellerate di una minoranza, dei falchi che reggono le sorti del mondo. Così noi ebrei, così i nostri vicini palestinesi”.
“Sei un utopista, un sognatore se credi che possa venire un tempo di pace universale; un tempo in cui non ci saranno più guerre! Dovrebbe estinguersi la razza umana perché finiscano la violenza e le guerre…”sbottò il padre, entrando nella stanza, mentre la madre, abbracciando il suo ragazzo, lo supplicava con gli occhi di lasciarlo stare quel figliolo. No, con suo padre non c’era proprio modo di ragionare, pensò il giovane, che andò via amareggiato con gli occhi tristi della madre conficcati nel cuore.
Si perché egli aveva deciso: sarebbe stato un operatore di pace; sarebbe diventato un medico, avrebbe combattuto disarmato la battaglia della vita e dell’amore, a fianco dei più deboli, delle donne oltraggiate, dei bambini feriti, violati. Con un sorriso – il primo di quel giorno difficile – pensò che avrebbe raccontato del suo progetto a Maria, la ragazza palestinese di cui si era innamorato il giorno in cui avevano nascosto una preghiera tra le fenditure del Santo Muro; perché era da lì che l’unico Dio aveva iniziato a creare il mondo. Con questa intento il giovane entrò in un negozio di fiori e comprò delle rose per la sua ragazza. Fantasticava già di quando, lei, lo avrebbe raggiunto in America e l’avrebbe sposata lontano dai pregiudizi e dall’intolleranza di quella sua piccola striscia di terra. Furono lo sguardo smarrito di un bambino e gli occhi disperati di una donna incinta sulla soglia a strapparlo a quelle sue fantasie, ad inchiodarlo, ammaliato, in quella trappola celata tra i fiori. Erano così familiari quei visi… Dov’è che li aveva visti, sporchi di fango e sangue? Dove li aveva visti? Si, a Gaza, a Gaza, quel maledetto giorno. Ma il giovane ebbe appena il tempo di realizzare l’odio, ancora una volta l’odio negli occhi di quella donna, che uno scoppio terribile distrusse ogni cosa…
(Sogni e Racconti)
Lettera ad un Amore Proibito
Unica è la mia colomba, la mia perfetta. (Ct 6, 9). Con le ali dell’amore sono volato sopra quei muri: confini di pietra non sanno escludere l’amore, e quel che amore non può fare, amore osa. (W.Shakespeare) Tu, amore mio segreto, abiti al di là di tutti i muri che esistono sulla terra e che, in questa vita, mi separano da te. Non c’è speranza per il mio folle sentimento: tu sei come una nuvola cangiante, dalle multiformi seducenti sembianze, che il vento del Monte Nebo, in questa stagione calda e profumata, sospinge lontano da me… Appartieni infatti all’avventurosa esperienza del tuo popolo nomade e ribelle; mentre io vivo sommerso dai sensi di colpa verso il sangue amato, legato mani e piedi da vincoli di dovere e di rispetto verso la mia beth’ab.
Anche la religione dei padri condanna il mio amore per te. Ma come può un amore che ha risvegliato la mia anima, portato in alto la mia mente e reso più generoso il mio cuore essere colpevole..? Sono disperato e, solo in parte, mi consolano la eco delle tue canzoni, che la ruah porta da questa parte della città; così come i racconti dei viaggiatori che ti hanno visto danzare, laggiù nel deserto vicino a Gerico, accanto ai fuochi delle carovane. Ma danzerai mai per me, tenero fiore della notte, profumando di te il pudore del silenzio..? Così l’altra sera tentai di arrampicarmi sino in cima: volevo prendere le tue mani e portarle alla bocca e poi al mio cuore, per sentire la musica delle tue dita, come il vento di Tiberiade, sulle labbra arse e sul viso triste. Ma ho solo rischiato di essere ucciso dalla mia stessa gente. Oh, non vorrei mai che accadesse qualcosa a te mio tesoro prezioso, mia amica. Preferisco, piuttosto “morire” di malinconia, immaginando, solo immaginando, la grazia, l’eleganza del tuo incedere, coi neri capelli annodati sulla nuca, come alla festa della “Pace in Palestina” – ricordi..? -, quando mi innamorai di te…
Non è forse immaginando ancora i tuoi occhi dolci e ridenti, che ora ti sto scrivendo, principessa d’una città proibita al mio cuore..? Stati e generazioni sono gli artefici di queste mura altissime che mi opprimono e mi sgomentano.
Sono stato così al Muro del Pianto ed ho messo un biglietto in una delle tante fessure del muro. Ho chiesto al Dio dell’Amore di donarmi le ali d’un angelo per volare, stanotte, più in alto di quelle mura. Solo per una volta, solo per rivederti un’ultima volta ancora. Così, nel sonno, potresti udire la mia voce che ti chiama dal giardino, mia colomba “unica, perfetta”, “mia gazzella dorata”, e scendere a danzare soltanto per me…
Cosicché, domani, prima dell’aurora, citando Shakespeare, io possa rassicurare gli increduli, i delusi, i pessimisti che i “…confini di pietra non sanno escludere l’amore, e quel che amore non può fare, amore osa”.
(Sogni e Racconti)