Amor è imago

Amor è imago dello mio tormento;
Mi trascina verso lidi invernali,
Ove del mar ghiacciato il suon non sento
Restando in muto orrore senza eguali.
Che mai resta d’un disio non risolto?;
Arresa non conto tra i miei finali;
Ripongo lo mio spiro su quel volto,
Ora dolce ora crudele che pare
Semplice e pure misterioso molto,
Ove conserva quel giovin sognare
Luminoso che rende il suo sorriso;
Se io potessi tra i suoi capei vagare
E posar lo mio sguardo sul suo viso.
Isto sol sarebbe il più caro dono!


Celeste terrore

Cullarsi tra i flutti nemici,
sui sentieri delle correnti,
navigar in mari felici,
salendo per foci e sorgenti…
Assurde e tenere chimere
riempiono le notti stellate.
Siam vittime da non temere
sirene di voci stregate:
incanto di sogni orribili
per naufraghi ubriachi e stanchi;
eppur scoprirsi sensibili
ai bei navigli, ai loro fianchi.


Dialogo

cuore che cuore fuggi
limita il tuo passare
più non mi tormentare
ché sempre più mi distruggi
cuore che cuore ignora
scappa e non ti voltare
più non mi disperare
dolce e crudele signora
cuore che cuore ride
lasciami navigare
quei mari da evitare
ove scoglio occhio non vide
cuore che cuore sputa
se mi vedrai affondare
più non potrai scherzare
o grazia mala vestuta
cuore che cuore piange
saperti lacrimare
mi potrà contentare
se morte infine ti tange
Epitaffio per un comico
Della gente in anni ho piagato il viso,
d’aridi fiumi ne ho rigato il volto.
Di bianche perle il mio ricordo è intriso
candide e felici, che hanno risolto
in me il mistero della felicità.
Non rimpiango certo il bene che ho fatto,
di me forse un verso si ricorderà:
«È – con affetto – parola d’un matto!»
Oggi restan soltanto l’ossa rotte
dove il corpo fu sepolto, che morì
congedandosi in «Grazie, e buonanotte!»
Il sorriso che disfida la sorte
è la maschera che ho indossato, così
se ho riso in vita, non piango la morte.


Novilunio a Manhattan

Il 1988 non fu un anno convenzionale: George H. W. Bush divenne il quarantunesimo Presidente
degli Stati Uniti d’America e Hillel Slovak lasciò per sempre i Red Hot Chili Peppers per andarsene
in un posto migliore; due fatti che singolarmente presi catturerebbero l’attenzione del lettore, se
correttamente approfonditi. Del Presidente Bush si potrebbe descrivere la storica campagna
elettorale; del povero Slovak si potrebbe giudicare la prematura scomparsa (dovuta all’abuso di
eroina); ma queste due vicende – divise o unitamente analizzate – mai potrebbero eguagliare lo
straordinario avvenimento che si ebbe un martedì dello stesso anno, precisamente il 23 febbraio: in
una strada di SoHo – a Manhattan, il signor Gabriel Zielinski invecchiò!
Il lettore dotato di logica deduttiva certamente supporrà che Zielinski quel giorno dovette
festeggiare il suo ennesimo compleanno, ma si sbaglierebbe: chiunque infatti saprebbe dire con
certezza che il signor Zielinski era nato il 15 ottobre del 1945. Lo si potrebbe chiedere alla vedova
Tweed, portinaia dello stabile in cui abitava, che cordialmente gli aveva augurato un felice avvenire
nel passato 1987; infatti la povera signora non poteva prevedere quanto sarebbe successo, meno di
un anno più tardi. Dunque sappia il lettore che il 23 febbraio 1988 Gabriel Zielinski, modesto
impiegato assicurativo, invecchiò di ben dieci anni! Dieci e non uno di meno!
Le menti più razionali riterranno che un simile episodio sia quanto meno impossibile, e per tanto
frutto di una florida fantasia; ma badate a me: non è affatto così! e come sia potuto verificarsi un
tale fenomeno sarà giustappunto oggetto di questo scritto.
Il lunedì precedente al fatto (il 22 febbraio per l’appunto) il signor Zielinski si alzò alle sei, come
di consueto; dalla sua spoglia camera da letto si diresse verso il bagno con gli occhi cisposi,
tentennando leggermente ancora insonnolito, e qui – liberatosi degli umori notturni – si avvicinò
allo specchio per ricercare con estrema cura la somma dei suoi quarant’anni tra i capelli. Negli
ultimi mesi poté notare come la sua calvizie fosse avanzata inesorabilmente, mietendo quelle rade
ciocche che avevano avuto il coraggio di battersi e affrontare gli oltraggi del tempo, coprendo fino
alla fine dei loro giorni il cranio pallido e umidiccio; eroicamente cadute queste, gli restava solo
un’aureola castana a contornare la sua testa – limitata perfettamente al perimetro d’appoggio del suo
cappello a falde larghe, forse l’unico vero responsabile della prematura scomparsa della sua chioma.
Vide poi che sulla sua fronte correva netto un lungo solco, il primo di un predestinato percorso di
decadimento fisico a cui non sapeva come sottrarsi. Con lo sguardo navigò lungo il suo volto,
prestando attenzione ad ogni scoglio che incontrava lungo la rotta: un naso tozzo, una ruga a lato
dell’occhio, un’altra sul mento, un’altra ancora al limite delle labbra… e volle quindi concludere
rapidamente la consueta cerimonia del bagno, un poco spaventato dall’aumento progressivo e quasi
esponenziale dei tratti che segnavano il suo viso, come a formare un libro in cui pagina dopo pagina
si leggevano le tappe della sua ripetitiva esistenza. Prese una buona scodella d’acqua con le mani e
se la gettò in faccia, tentando di rianimarsi; una sciacquata non avrebbe certo cancellato le ingiurie
degli anni, ma sicuramente lo avrebbe distratto.
Tornò allora nella camera da letto dove, alla maniglia del grande armadio a muro, trovò pendente
un attaccapanni a cui era appoggiata la sua tenuta da lavoro: un completo grigio (un poco stinto a
causa di un maldestro tentativo di lavaggio a secco), una cravatta nera e una camicia bianca; nulla
avrebbe potuto definirsi più anonimo di quel misero completo, e fu certo per questa sua disarmante
semplicità che attrasse lo sguardo spento di un uomo privo di volontà. Posando il pigiama sotto il
cuscino gli occhi del signor Zielinski si fermarono sull’unica fotografia che si azzardava a decorare
il pietoso comodino che teneva alla destra del letto: uno scatto sbiadito dalla prepotente luce del
sole, che si intrufolava ogni mattina in quella stanza e vi si posava sopra come a schernirlo.
Un ritratto di famiglia: una madre amorevole, un padre distratto e un figlio al centro – seduto su
una sedia come un trofeo su una mensola del camino – che fissano con allegria mescolata a mal
celata mestizia un punto distante. A Zielinski piaceva raccontare che il padre, Eliasz Zielinski, fosse
un ebreo polacco immigrato fortunosamente in America per scampare alla guerra e alla sorte che
toccò purtroppo ai suoi connazionali; invece la triste verità era che Elijah David Zielinski (questo di
fatto il suo vero nome) era statunitense di nascita, e in Polonia non ci aveva mai messo piede – tanto
meno durante la Seconda Guerra mondiale.
Quindi si diresse velocemente verso la cucina da cui, poscia un orrido caffè gli ebbe arso la gola,
si volse verso la porta d’entrata e uscì correndo per la scala che lo condusse all’atrio del pianterreno,
a otto passi dal cancello e trenta o trentacinque passi dal grande cartello giallo segnalante la fermata
dell’autobus della linea 10. Postosi sotto di questo notò per caso che dall’altro lato della strada, quasi
dirimpetto, s’era aperto un nuovo negozio: le ampie vetrine erano coperte da pesanti teli violacei,
facenti risaltare la porta bianca ove era dipinto di nero un occhio mistico contornato da simboliche
linee a raggiera; sopra la porta stava una scritta luminosa, che a grandi caratteri tondi diceva:
MADAME MADENA MANTICA
CARTOMANZIA & CLEROMANZIA
Insolita insegna, almeno per quel quartiere; tuttavia il signor Zielinski non era certo tipo da dare
credito a truffatori, indovini e chiromanti. Volse di nuovo lo sguardo alla strada, dalla quale si
proiettò la figura dell’autobus che stava aspettando – l’amico che lo avrebbe condotto al lavoro.
Descrivere minuziosamente le dieci ore che Zielinski trascorse attivamente all’agenzia
assicurativa Sanders risulterebbe al lettore indubbiamente noioso, e dilungarsi sulle sue incombenze
non potrebbe far meglio emergere la sua figura più di quanto non sia già evidente. Basti sapere che
nessuno ebbe di che lamentarsi del suo operato: l’umiltà e la sobrietà del signor Zielinski erano
grandemente apprezzate da Simon Morgan Sanders Jr. – proprietario e figlio del fondatore – che
mai mancava l’occasione di dare una benevola pacca sulla spalla al suo abile “Gabby” e
congratularsi con lui per l’impeccabile abilità con cui era solito archiviare le polizze.
Dopo aver sistemato i documenti relativi ai contratti Carter, Caspersen e Cassaday, Zielinski si
recò come sua abitudine al Bill Diner, prospiciente la fermata della linea 10, per consumare il suo
solito pasto: un bicchiere d’acqua e un cheeseburger con poca maionese, accompagnato da un piatto
di patate speziate. Finito che ebbe di desinare e pagato il conto della cena dovette aspettare fuori,
sotto la piccola tettoia della fermata, circa quindici minuti – prima che l’autobus arrivasse per
riaccompagnarlo a casa; quindici significativi minuti in cui ebbe agio di dedicarsi a una paziente
elucubrazione sulla propria esistenza. Quarantatré anni erano passati in un battito di ciglia, e davanti
ai suoi occhi ne scorsero rapidi fotogrammi come in un vecchio film degli anni Venti; quasi la metà
degli anni che sperava di vivere se ne erano andati, correndo lestamente in una proiezione di scarsa
qualità, e il suo futuro non presentava altre certezze che un impiego da archivista in un’agenzia.
Fu proprio con questo pensiero che il signor Zielinski scese dall’autobus, pronto a rincasare –
come dimostrava il mazzo di chiavi che teneva saldamente in mano, mentre cercava con le dita
quella che apriva il cancelletto dello stabile; ma venne stranamente rapito dalla luminosa frase
intermittente, quella stessa “Madame Madena mantica” che undici ore prima lo aveva lasciato quasi
inorridito. Con un futuro dalla nera prospettiva come il suo, forse soltanto una bugia convincente
avrebbe potuto rincuorarlo e concedergli un sonno tranquillo. Dapprima fu alquanto combattuto,
tanto da non saper neppure da che parte dirigere i piedi! ma infine riuscì a trovare il coraggio di
opporsi alle proprie ferree convinzioni, e da buon ateo cercò conforto in una religione che gli
offrisse maggiore speranza.
Con titubanza Zielinski varcò la soglia di quello strano locale: sul corridoio che dava alla saletta
dove era solita predire la sorte, l’oracolo teneva di buon augurio le immagini della Vergine della
Regola e della Madonna della Mercede – gli spiriti da lei favoriti nei riti della Santeria; poco più in
là, sul ripiano di un mobile di fattura africana, stava una piccola statua di Isis, a sua volta vicina ad
un’icona russa raffigurante Santa Maria Egiziaca. A conti fatti madame Madena non era forse una
donna coerente, ma evidentemente una risoluta femminista.
Il signor Zielinski, imbarazzato come un peccatore in chiesa, era sul punto di girarsi e uscire da
quel tugurio ricco di religiosa paccottiglia, quando madame Madena in persona affondò le unghie
sul malcapitato invitandolo a sedersi. Allora il pover’uomo avvertì un tremendo odore d’incenso che
invase ogni spazio, fin quasi a entrargli nelle ossa; e un poco stordito dall’olezzo penetrante
Zielinski non seppe resistere alla prepotente cortesia della veggente, che lo mise a sedere difronte a
un tavolo coperto da un elegante ed etnico drappo d’organza istoriata, su cui cominciò a porre
ordinatamente i tarocchi.
Fu una breve consultazione, in cui la cartomante sollevò solo gli arcani maggiori; la Temperanza
e la Ruota della Fortuna descrissero Zielinski come un uomo mite e di scarso successo, così come il
Diavolo dichiarò una vita sentimentale deludente; ma dopo aver girato poche carte, la sibilla con
somma disperazione dovette rivelare al signor Zielinski il triste presagio. «Che Dio assista l’uomo
timorato!» disse Madame Madena in una lacrimevole confessione, svelando il mistero di un fato
infelice: al misero omino restavano solo dieci anni di vita, un quinto degli anni che Zielinski
credeva di meritare e un decimo del compenso che richiese l’indovina. Una catastrofe su tutta la
linea!
Dopo aver pagato il salato onorario alla divinatrice, il signor Zielinski si affrettò ad uscire da
quel locale – divenuto improvvisamente troppo stretto e soffocante; gli sguardi benevoli delle
vergini non bastarono a tranquillizzarlo; e così superò l’uscio nervosamente e finalmente in strada
respirò con avidità quell’aria cittadina ricca di lezzi e miasmi, che mai prima avevano avuto per lui
un sapore così dolce. Non riuscì a riflettere lucidamente su quella sconvolgente notizia: le sue
gambe tremavano, dalla sua fronte grondavano gelidi rivoli di sudore, il suo cuore ritmava con
crescente furia il battito, pronto ad esplodere!
In preda all’ansietà non seppe misurarsi e corse forsennatamente verso la sua dimora in preda al
terrore; solo quando fu a casa Zielinski tentò di recuperare quel poco di lucidità che gli avrebbe
restituito la calma necessaria per ragionare su quella sconcertante novità, che ancora pulsava
nervosa nel suo cervello; persino lo stomaco cadde vittima di quella inquietudine e si mise a
tremare. La raggelante novella aveva ghiacciato l’impiegato sullo stipite della porta d’ingresso al
locale: scrutò turbato il suo appartamento scuro, illuminato a tratti per le finestre dai neon dei
negozi, non meno quello di madame Madena.
Accese la luce, e i suoi occhi abituati al buio – inaspettatamente abbagliati – si strinsero
componendo sul suo viso una smorfia di fastidio che miracolosamente restituì il signor Zielinski
alla realtà. La consueta visione del suo soggiorno lo fece rinsavire, riportandolo alla sua solita vita,
in cui il futuro era oscuro e il presente ricco di polvere che ricopriva in un velo la mobilia; ma la sua
angoscia mutò ogni lato e ogni angolo di quella casa in una potenziale arma: Zielinski infatti
credette che la profezia di madame Madena, se da considerarsi veridica, fosse giustificata da
elementi od oggetti micidiali presenti in casa o in ufficio, ovverosia i due posti che frequentava per
il più del suo tempo.
La sua buona salute costituiva infatti un assioma, per cui ipotizzava che la causa della sua
prossima e prematura morte dovesse collocarsi in un ambiente esterno al suo corpo, in un luogo che
fosse solito frequentare; avendo fatto ritorno al suo appartamento dopo la sconfortante predizione
quest’ultimo divenne nel suo immaginario un’arma mortale, pronta a colpirlo quand’egli meno se lo
sarebbe aspettato. Non fu rilevante supporre che tale arma avrebbe agito non prima di dieci anni, se
realmente fosse stata la causa della sua ingiustificata dipartita; di certo Zielinski non avrebbe
pazientato per aspettarsi un tale tiro mancino. Così prese ad analizzare con cura e dedizione
scientifica le stanze e le camere della sua casa, alla ricerca disperata dell’origine della sua fine.
Felice di ritrovare ogni cosa a suo posto si diresse alla camera da letto, e qui giunto si gettò
supino e disperato nel letto – rivolgendo lo sguardo al soffitto e pensando alle terribili parole della
chiaroveggente. Furono proprio quelle parole ad animare la sua fantasia, dapprima dormiente e
atrofizzata dalla monotonia della sua esistenza, reiterata in quelle azioni abituali che la
organizzavano. D’un tratto il mondo che lo circondava perse la patina grigia che lo ammantava e
acquistò colori meravigliosi e sinistri, e prese a nuotare in nuovi pensieri, in nuove congetture che
mai prima aveva avuto il tempo o il desiderio di esprimere. Provò l’intimo volontà di cambiare, di
innovarsi e migliorare, forse persino di acquisire una personalità; ma seppe subito che era troppo
tardi: dieci anni sono pochi, meno di quanti ne servano per imparare a correggere i propri errori – o
così credette.
Sentì d’essere nuovamente costretto, incatenato ai suoi doveri e alle sue noie quotidiane,
condannato ad una vita malinconica fino alla fine dei suoi giorni. Se solo ci fosse un posto comodo
dove sedersi e aspettare la fine del mondo Zielinski allora l’avrebbe occupato, e fremente avrebbe
atteso che il colpo fatale atterrasse sulla sua schiena.
In uno stato di spossatezza che preludiava il sonno, il signor Zielinski si concentrò su un punto
della sua camera da letto, attratto da una figura che prima di allora non aveva scorto: una chiazza,
un’informe macchia verdognola che occupava un angolo della stanza in un diametro di circa sei
pollici – in corrispondenza (cosa che a Zielinski non era nota) di un lato del bagno
dell’appartamento soprastante; una muffa causata dall’umidità o forse da una continua perdita
d’acqua di cui i coniugi Gustafson, inquilini del suddetto alloggio, non tennero in giusta
considerazione.
Certo la loro incuria permise la formazione di quella macchia, ma non si può accusarli di quanto
avvenne successivamente, ovvero ciò che accadde al signor Zielinski il 23 febbraio – giorno iniziato
da almeno tre ore quando questi si accorse di quell’alone.
Quell’ombra verdastra apparve davanti ai suoi occhi come una rivelazione, o più propriamente
come un presagio; la sua fine era ora più chiara: era ovviamente quella muffa la causa della sua
prossima morte! La sua forma e la sua estensione presagivano una crescita; del resto Zielinski si
rese conto solo allora di quell’imminente pericolo, e ben presto avrebbe potuto allargarsi a
dimensioni sempre maggiori fino ad invadere tutti gli angoli e tutte le stanze. Tutta la sua casa
sarebbe stata ineluttabilmente invasa dal sortilegio che lo avrebbe portato all’estinzione.
Davanti ai suoi occhi le pareti divennero verdi, e tutt’intorno i lati della camera si strinsero, quasi
volessero stritolarlo; avvertì un odore insopportabile, l’aria si arricchì di polvere e più inspirava più
sentiva mancargli il fiato. Mai avrebbe potuto restare dieci anni ancora in quella stanza malsana ad
aspettare la morte! Non prese neppure il soprabito: uscì di corsa da quella stanza e altrettanto
frettolosamente se ne scappò da quella casa, deciso a non soccombere.
Se avesse riflettuto con maggiore calma forse avrebbe intuito come i suoi vicini Gustafson
fossero i veri colpevoli di quella muffa, e facilmente avrebbe potuto sia eliminarla (con adeguati
prodotti igienici) che scongiurarne la ricomparsa – avvisando cioè i signori Gustafson della
disfunzione proveniente dal loro bagno; ma tant’è che il terrore ebbe il sopravvento e il signor
Zielinski non seppe ragionare: corse fuori di casa come impazzito!
Scese le scale e si gettò in strada a rotta di collo, incurante della nuovissima Eagle Vista station
wagon grigio metallizzata che stava appunto correndo per il SoHo – quando Zielinski le si parò
davanti e fece stridere i suoi freni appena registrati. Inutile dire che quei freni non potevano
minimamente aspettarsi un ostacolo simile; e il proprietario, tale Gary Thorne, non poté fare più di
quanto fece.
Sotto quattro ruote, in un momento più lungo di un attimo e meno di un secondo, un povero
impiegato spaventato smise di preoccuparsi. Il signor Thorne a stento comprese la situazione, ma
non tardò a soccorrere Zielinski o quanto di lui rimaneva: un corpo ormai inanimato giaceva a terra,
schiacciato dal peso di un pensiero ossessivo; l’ultimo istante di un uomo. Sul suo volto si conservò
in una plastica smorfia il ritratto di un’emozione vera, di quelle poche che in vita provò l’impiegato
assicurativo, forse uno fra i pochi ad accorgersi realmente di quanto previsioni e presagi non siano
che mere beffe.
Gabriel Zielinski comprese solo quel giorno, in quel momento, di quanto brevi possano essere
dieci anni…