ANNE FRANK e PETER SCHIFF, una piccola, inedita storia d’amore (estate 1942; Olanda, Amsterdam)

Anne e Peter si sono dati appuntamento all’estremità nord-Anne ovest del Prinsengracht, a distanza di sicurezza dalla costruzione che, sullo stesso canale, ospita i locali della compagnia di suo padre, Otto Frank. Dall’animatissima Piazza Dam non arriva che l’eco, piacevolmente invadente, dei battiti insopprimibili che arringano di esuberanza tutta l’area circostante quel cuore ansante della città.
«Posso venire a prenderti a scuola, Peter? Dai, non fare il difficile come al solito!»
«Ok, Anne… ma mi raccomando, non proprio davanti al liceo».
«E perché?».
«Be’, tu…».
«Io cosa?».
«Hai undici anni».
«E quindi? Ti vergogni a farti vedere dai tuoi amici con me?».
«Dai, lo sai… loro se la fanno solo con quelle più grandi… non arrabbiarti».
Peter cerca di baciarla. Anne invece slarga il viso da una parte, negandosi. Non le piace essere confrontata con le altre, e soprattutto che discorsi!
“Le altre… sempre le altre… sono più grandi, più alte, più formose… e magari anche più carine! Su, abbi almeno il coraggio di buttarla sul concorso di bellezza, Peter, il presidente della giuria… Peter, lo spilungone… Peter che posa a fare il grand’uomo! Ma sono anche più vecchie, bello mio! E che conta poi l’età? A mettersi insieme sono sempre un maschio e una femmina, no? E noi che siamo, scusa? Senti poi come suona bene… Peter e Anne… Anne e Peter… ma quanto è stupido, certe volte, questo ragazzo!”.
«Insomma, ti vergogni di me… non ho speranza».
«Non dire stupidaggini».
«Credevo che tu fossi almeno un po’ orgoglioso… invece!».
«Sei una bambina, Anne, molto simpatica e graziosa. Ma i miei amici sono troppo stupidi… che ci posso fare, scusa?».
«Quindi sarebbe colpa loro, adesso?».
«No, che c’entra?».
«Appunto, di che ti preoccupi allora? Se mi volessi bene davvero, non t’importerebbe di nulla».
Anne ha un bel caratterino e lo dimostra non appena avverte un’insopportabile puzza di snobismo nei suoi riguardi. Lei si sente addosso almeno 15 anni! Lei, una bambina?
“Non farmi ridere, bambinone e… spilungone!”
A questo punto mettere il broncio al superuomo, assistere al suo strabuzzare gli occhi e al suo stravolgersi le budella dall’imbarazzo, non può che apparirle la più affascinante delle rivincite.
«Che ti prende adesso?». Peter non può vederla così afflitta, anche perché Anne, lo sa bene, è il tipo da smetterla lì se lui non trova il modo di farle recuperare il sorriso. Subito!
È mezzodì. Lo scampanio della vicina Westerkerk è insistente, e più petulante di quell’effluvio di aria calda e appiccicosa che ti mette pressione su ogni poro della pelle, in quell’estate del 1940. Lei indossa un leggerissimo vestitino smanicato, a fiori, con le piegoline al di sotto della vita che sussultano, sfarfallando al minimo movimento del corpicino scarno, assecondato dal passaggio d’un carezzevole vento che il canale gonfia d’umidità.
Anche Peter sta per accarezzarle timidamente una spallina dell’abito, spingendosi dentro lo sguardo di Anne per raccoglierne almeno un principio di riconciliazione. Alla fanciulla non sembra vero di leggere in quegli occhi un chiaro segno di ravvedimento.
«Allora posso venire a scuola?». Lo sussurra come una preghiera che accompagna uno sguardo riacceso di timida speranza.
«Dai Peter, per favore, giuro che non mi pianto lì davanti come un guardiano!»
«E ok, promesso, però…».
Peter ha solo voglia di fare la pace. E poi non ha proprio scelta: mica facile perdersi l’incontro-scontro delle labbra che si pressano da vicino, come desiderose soltanto di assottigliare al massimo il piccolo ingombro d’aria che le divide, superando l’impercettibile fossato dell’imbarazzo reciproco che un attimo prima, all’ultimo momento, le aveva stupidamente allontanate.
Il bacio è un lieve sigillo, appena un preludio di sfregamento che, mentre aspira a un approccio più profondo, si arresta sul brivido di carne… e il sereno si distende sui visi adolescenti che si sorridono e si prendono per mano, delegando alle dita intrecciate un contatto ormai irrinunciabile.
In quel buco di mondo in cui si sono appena ritirati, incamminandosi spalla a spalla verso il chiassoso Dam, esplode dentro di loro il clamore muto ma confidenziale d’un fascio di sensazioni pirotecniche, finché non avvertono all’improvviso lo sgarbo, inspiegabile e sempre più vicino, d’un brusio confuso di voci e di urla scomposte. Si voltano contemporaneamente, di scatto, ma non riescono ancora a individuarne la provenienza. Un profondo senso di fastidio, insieme a una crescente irrequietezza che non sanno spiegarsi, sta sequestrando il sapore zuccherino della più dolce e agognata delle intimità.
«Raus! Raus! Schnell! Schnelll!!!».
Le labbra di Anne balbettano un lieve tremolio. Neanche un suono, anche perché si sta mordendo il labbro superiore per non urlare a gran voce il rumore della riflessione che la sta agitando.
“Amsterdam 1940… Francoforte sul Meno 1933, quando siamo dovuti scappare dalla Germania per colpa del suo capo, Hitler… chissà che faccia ha! – sta pensando preoccupata Anne – Ma davvero quelli che dal 15 maggio hanno occupato Amsterdam sono gli stessi nazi che hanno reso mio padre così intrattabile, ultimamente? E si tratta proprio di quei prepotenti che ci hanno costretto a venire qui nel 1933? Lui e mia madre se lo ricordano come una specie d’inferno, anche se Hitler non s’era ancora dimostrato il diavolo che è. Non si stancano mai di ricordarlo, a me e a Margot. Non si tratterà di uno di quei soliti pregiudizi di cui i grandi, anche quelli che si sforzano di non lasciarsene condizionare, si trascinano dentro la testa fino all’eternità perché non riescono proprio a liberarsene? È una categoria, questa, di cui fanno parte anche i miei?… Be’, tutto può essere!
Non sarà che papà comincia ad essere afflitto, come tanti anziani, da quella sensazione devastante che va sotto il nome di mania di persecuzione? Maaah…
Saranno proprio loro? Gli stessi, dopo tanti anni? Certo, pare che siano quelli che hanno invaso la Polonia, e prima ancora non so quanta Europa! Però, a stare a sentire mio padre, ce l’hanno sempre e soltanto con noi ebrei!
Un momento… se è per questo ce l’hanno con mezza Europa… e secondo me hanno intenzione di mangiarsi anche l’altra mezza. Non siamo mica noi ebrei l’Europa!
Certo che papà un po’ fissato lo è di sicuro!”.
«A che stai pensando, Anne? Non hai sentito quelle urla in tedesco? Cessate di colpo! Chissà di chi si trattava…».
«Qualcuno… qualche ladruncolo l’avrà combinata grossa».
«Chissà chi c’è andato di mezzo…».
«Se è un ladro gli sta bene. Però poverino… forse aveva bisogno».
«Di rubare? Ma dai, Anne!».
«Be’, noi ce la passiamo bene… ci vuole poco perciò a fregarsene!».
Lo sguardo di Anne tocca il fondo della sua stessa sensibilità.
«Non volevo dire questo…», cerca di giustificarsi Peter.
«Lo so, non sei il tipo. Vuoi… vuoi darmi…? Sai, in questo momento ne ho davvero bisogno…».
«Cosa, Anne?…».
Peter ha capito benissimo. Lei con un rapido scarto della testa s’è come affacciata sul suo viso, quasi a contatto di labbra. Lo sguardo di Anne non è supplichevole, ma tanto serio quanto infantile. Peter lo trova insolitamente intenso e volitivo. E… irresistibile, come l’essenza stessa del desiderio! Armeggiano labbro a labbro, esitando qualche istante sull’estremo brivido in cui la fa ancora da padrone il pudore. Sono del tutto consapevoli d’essere ormai sul punto di trasfondersi una parte di cuore, quindi la fetta più toccante e più sensibile del loro sentimento nascente. Non è più un problema, per i due ragazzi, lasciarsi corrompere dalla dolcissima trasgressione del piacere fisico. Allora le labbra si scoprono del tutto e si spandono da un angolo all’altro in una bruciante ricerca del capriccio d’amore, soprattutto dove, un attimo prima, non credevano mai di arrivare, cioè all’interno, più intimo e più estremo. Non conoscono una profondità maggiore e perciò spingono soltanto le labbra a forzarsi in una specie di abbraccio isterico. I loro sguardi sono rimasti imprigionati per un incantevole istante e, appena le labbra si sono serrate, le pupille palpitanti hanno scelto di rinchiudersi, pudicamente, isolandosi in una maggiore percezione del piacere per lasciarsi affondare in un abisso di beatitudine.
Altre urla più forti, più disumane… ordini perentori senza il contrappunto di qualche replica piagnucolosa che ti saresti aspettato… e, invece, solo qualche flebile lamento, più irritante che ansimante… ma… allora sta avvenendo proprio lì, a un passo da quel gigante d’argilla del loro primo approccio, che sembrava tenere in piedi, da solo, tutto il loro mondo con la più fenomenale e soverchiante delle attese: la passione d’amore.
Un solco da brivido sottopelle li spinge a trattenersi, anche più forte, l’uno nelle braccia dell’altro. Per provare a isolarsi da quell’inferno Peter e Anne si scambiano un secondo bacio, anche più intenso perché, si sa, il sacro è amico del profano. L’uno non potrebbe sopravvivere senza l’altro. Così una qualunque sensazione piacevole sarà tanto più profonda quanto più è in bilico sulla percezione, quasi tangibile, della paura che la sovrasta.
«Ebrei, porci! Maledetti porci! Raus, Schweine!».
“Ebrei? Porci?… Nooo!”
Anne, spaventatissima, spinge freneticamente Peter verso una stradina interna, perché un paio di giganti con stivaloni ed elmetto, la cui divisa nera non ha mai notato prima, si stanno muovendo quasi in punta di piedi nella loro direzione. È chiaro il loro intento di coglierli di sorpresa.
Anne rivede l’ombra ingigantita del fantasma che sembra avere già seminato il terrore in famiglia.
“Papà dice che non sono cambiati per niente. Anzi, che si sono incattiviti peggio di prima contro gli ebrei. E perché proprio noi? Abbiamo due braccia, due gambe e una testa come tutti gli esseri umani. Secondo me, se le cose stanno così, sono dei pazzi davvero pericolosi, pazzi patentati al mille per mille! Oddio, si stanno avvicinando! Ce l’hanno proprio con noi allora!
«Scappiamo, Peter! Peter, scappa! Scappaaa!… Non girarti a guardare… non perdere tempo, per carità!
1° luglio 1942

Non ho più rivisto Peter, il mio piccolo Peter… dove sei finito, amor mio? Perché sei svanito dentro una specie di nuvola nera in cui non posso nemmeno spiare, come una lucertolina che si cerca, ansiosa, il buco più sicuro?… Mica puoi esserti infilato dentro la pancia del cielo, scusa! Ma che ti è successo, angelo mio? Siamo scappati insieme quel giorno, e poi… tu sei scappato definitivamente… da me. Ma mi pensi almeno?
Sono trascorsi già due anni. Ti hanno preso i nazi? Oh no, no… non voglio neanche immaginarlo.
Ti racconto cosa sta succedendo in questo momento: i miei sono a caccia d’un rifugio sottoterra e per questo stanno setacciando ogni angolo della città. A me, veramente, basterebbe una soffitta sotto il cielo. Non voglio mica dimenticarmi di stare al mondo come tutti gli esseri umani che accettano soltanto quel tetto sopra le loro teste! E poi mi piace lanciare, con lo sguardo, una specie di esca fra le nuvole più tempestose, per cercare di pescare il punto esatto in cui sta per fare capolino la prima riga d’azzurro!
Finora però, nonostante abbiano messo in moto tutte le loro conoscenze, mamma e papà non sono venuti a capo di nulla… ah, ecco… ma che strano! Mentre ti penso, piccolo mio, sono finita proprio davanti alla nostra libreria Blankevoort… te la ricordi, vero? Ah, Peter… Peter… avrei preferito incontrare un libro col tuo nome, invece che un Peter in carne e ossa… un libro come quelli che sto osservando adesso nella vetrina della nostra libreria! Almeno non ti avrei perso di vista nemmeno un secondo!… Stanno uscendo due ragazzini… uno forse… ma chi è?… Il solito abbaglio, capito! Amsterdam mica è un deserto, dove saltano fuori miraggi come funghi e magari dove meno te li aspetti!… È lui!!! Non è quel profilo che può confondermi, perché è proprio il suo stesso naso a punta!… Dove guardi, spilungone?… Ma sei proprio tu?… Certo che ti credi proprio chissà chi! Hai aggiunto appena qualche centimetro, forse, mica un metro!… Ma quella mano che si gira a salutarmi!?… Mi guarda?… Non mi guarda!… Sì, mi guarda!… Non sei cambiato per niente, Peter il vecchio!… Sedici anni… ti piaccio ancora?… Ma che me lo chiedo a fare? Se un lampo fosse caduto dal cielo con i tuoi occhi castani, si sarebbe soffermato di sicuro più di te a illuminarmi!… Gli ricambio il saluto… da scema!… Ma no, c’è ancora il rumore del cuore a farmi compagnia, perciò è il nostro momento, così carino, di noi due soli! Nostro perché, in questo istante comune, non puoi lasciarmi sola!… Oh, Peter, come sei cresciuto! Più che altro nella fretta di sentirti più grande di allora… ecco, te ne stai andando per la tua strada senza voltarti più indietro… cattivo!… Adoro il vento che sta accompagnando, coi miei occhi, la stessa parte di noi due: il respiro!
7 gennaio 1944
Maledetta, maledetta soffitta! Non ne posso proprio più di starci rinchiusa come un topolino nella tana, mentre il gatto nazista sta lì fuori, in agguato. Lo immagino con le quattro zampe alzate nell’attimo in cui sta per scagliarsi contro lo scaffale della libreria che fa da chiusura mimetica del nascondiglio. E mi sembra di sentirli urlare i nazi, più che con le orecchie con tutti i pori della pelle che si raggrinziscono dalla paura, specie mentre ferve l’ennesimo litigio fra questo o quello degli ospiti del rifugio che pure ce la mettono tutta a non alzare la voce. Finora credo che ci abbia protetto soltanto il nostro istinto di vita, che ci fa vigilare su ogni movimento e su ogni tentativo di approfondire, con troppa convinzione da parte di ciascuno (ma chi è che non vuole avere ragione?), le infinite dispute verbali che s’accendono, in particolare fra i miei e i signori Van Daan. Col signor Van Daan poi, la sottoscritta, per prima, ci bisticcia sempre! Ma mica possiamo sopprimere anche le parole! Ci sono momenti della giornata che ognuno di noi li ritiene altrettanto vitali del nostro respiro! E poi non può essere davvero il modesto e inaffidabile scaffale di una libreria a metterci al sicuro da eventuali irruzioni e ispezioni che i nazi, a sentire mio padre che ci ha sbattuto il naso con certi vicini ebrei, sanno condurre mettendo a soqquadro la mobilia e tutte le suppellettili, senza dimenticarsi di soppesare perfino pavimenti e pareti. E poi buttano fuori a calci la gente, urlando come selvaggi. Brrr!
Questa mattina, quando papà mi ha dato un bacetto, avrei voluto gridare: «Oh se tu fossi Peter!».
Chissà perché, mi è venuto in mente il ragazzino che avevo continuato a sognare dopo quella breve estate… troppo breve in effetti.

Ma detto, fatto! Ed ecco che stanotte me lo sono sognato per davvero, come in carne e ossa, il fantasma a cui ho restituito una forma umana quasi tangibile, orecchie a sventola comprese!
No, non si trattava davvero del classico fantasma delle favole più terribili, avvolto nel lenzuolo e con due buchi al posto degli occhi.
Sedevo su una sedia e davanti a me c’era Peter… sfogliavamo un libro con disegni di Mary Bos… d’un tratto il suo sguardo ha incontrato il mio, e sono rimasta a lungo a guardare i suoi begli occhi castani vellutati… tutto era così dolce… così dolce… arrivata a questo punto mi sono svegliata che sentivo ancora la sua guancia contro la mia, e avvertivo i suoi occhi che mi guardavano in fondo al cuore, così in fondo che vi aveva sicuramente letto quanto lo avessi amato e quanto lo amassi ancora.


BULLISMO A SCUOLA

Ragazzo 15enne secchione, morto suicida (fatto vero)

Kalòs kai agathòs.
Bravo, buono gentile.
Il mio epitaffio.
Avevo la pagella infarcita di nove,
dieci in lettere greche.
Mi chiamo Diego Gargiulo,
una sola settimana allo scoccare
del mio quindicesimo compleanno.
Ero il primo della classe, signori morti.
Iscritto, in terra, alla quinta ginnasiale…
liceo Classico Scotti, Ischia-Lacco Ameno.
E ormai qui, sotterra,
iscritto d’ufficio al…quarto funerale.
Conoscete ormai le storie.
Altri tre studenti di quell’Istituto di gran nome
m’han preceduto qui.
Kalos kai agathòs.
Bravo buono gentile…
troppe virtù…tardive.
No, non m’entusiasma affatto
questo riconoscimento postumo, vile
che ha l’aria spudorata, menzognera
d’un motivetto antico, ritmato.
Mia madre se ne lamentò con i giornali:
“La scuola non s’è fatta né vedere, né sentire.
Non ho ricevuto da loro
né un telegramma di condoglianze né un fiore”.
Un’insensibilità che non ha eguali!
Solo quell’ipocrita rimpianto corrugato.
Mi dispiace, signora preside.
Mi dispiace signori professori.
Mi dispiace per voi compagni persecutori…
non posso accettare le vostre scuse di marmo.
Bravo, buono, gentile.
Da morto…e in vita?
Hanno assai più cuore e più fantasia
nei cimiteri di mafia:
ogni lapide di vera gratitudine infarcita.
Le scritte?
Quasi un lieto de profundis in rima, in poesia.
Dovevano scrivere:
“Se l’è cercata, da vero somaro
in ogni materia del vivere quotidiano.
Non poteva che essere bocciato
al test definitivo verso l’età adulta.
Non piangete dunque per la sua morte prematura.
L’ha avuta la sua apoteosi in vita…moritura!”.
Mia madre si ripetè con i giornali:
gli adulti? I responsabili dell’istituto?
“Formavano un indistinto cerchio muto
al funerale…
Qualche parola sola, ad onor della scuola.
E se fosse stato un figlio loro?”.
Ma no, mammina,
mai sentito che il silenzio è d’oro?
Sai, sono già cresciuto dal momento del trapasso…
quando qualcosa va storta,
se accade un qualsivoglia sconquasso,
al signor intruso che vuol saperne di più
sbattono in faccia la porta
e le colpe rimosse che stavano in agguato
vanno sempre più giù,
van più lontano dove non c’è sfiato.
“E i ragazzi, signora?
I compagni di classe del suo figliolo?
Pare che la colpa sia stata soprattutto
dei più grandi, i ripetenti,
dicono che lo prendevano in giro…
troppo bravo, un gigante appetto a loro…
Come si sono comportati al funerale?”.
La verità, mammina cara…stringi i denti.
Posso solo ascoltarti da quaggiù,
non preoccuparti, non posso sentir male!
Una risposta coraggiosa, su, tirati su!
“Che debbo dirle, signore?
Alcuni piangevano, altri sembravano pentiti.
Non mi chieda di più.
Tutti gli adulti a dire e ridire:
sono ragazzi, che volete? Van capiti.
Che posso dirle, signore?
Scusate, non ne posso più.
Anche il mio era un ragazzo…
il mio Diego, mio figlio, chi me lo riporta su?”.
“Non vogliamo secchioni in questa classe!”,
trovai scritto una mattina sul mio banco.
Crudele come un’intimazione di sfratto!
L’avevo già capito che per questo motivo,
ero segnato a dito.
Non la smettevano più.
E cominciavo a sentirmi come nato stanco.
Ne avevo già avvertito le avvisaglie
da sguardi ingiuriosi, accigliati, indispettiti
pigli severi, occhiatacce, battutacce
luridi sottintesi, esplicite o larvate minacce.
“Dacci il compito, secchione, se no ti aspettiamo fuori”.
Non glielo davo, almeno non intero.
La prof se ne sarebbe accorta.
Sbirciava, per tutti, il mio compagno di banco.
A momenti fingevo di non farci caso
e gli lasciavo libero il campo
visivo.
Diversamente non avrei avuto scampo.
E fui più che mai da tutti irriso.
Qui ebbe inizio lo strazio, l’agonia.
“Visto, stronzetto, qua non ti vede nessuno”,
m’apostrofò, fra i banchi, il diciottenne ripetente.
“L’hai capita finalmente? Qui sei meno di niente”.
Sentii che l’altro Diego, disperato,
m’incitava a mollar tutto, ad andar via.
L’avvertivo, assillante, come un turbine molesto:
“Va via, fa presto”.
Kalos kai agathos…
bravo buono gentile.
Timido, vile, fragile, introverso.
Attenzione in classe, buoni voti, troppa sapienza.
Senza saperlo, ero diventato
la loro cattiva coscienza.
Il mio profitto smisurato?
Per i bulli ignavi giovinetti, un’ esagerazione,
– per il loro mediocre standard insufficiente –
per davvero un’eccessiva
insopportabile…comprensibile provocazione.
Come un’istigazione a delinquere!
Essere bravi a scuola era dunque una colpa?
Amici miei, che terribile equivoco
che ignobile, spaventosa mistificazione.
Quel mattino cessai di spigolare
ero in classe ma come alla deriva
in mezzo…anzi, nel fondo del mare.
Con grande ansia nel mio cuor raccolta
Non riuscivo più neanche a respirare.
Sentii com’io morissi già la prima volta.
Sguardo smarrito, pianto sincero
O freddo diaccio come il crpo mio?
Come faccio a perdonarti, mio signore Iddio?
Era di casa il paradiso
nel giardino di mia villa fronte mare.
L’Isola di Procida, il Vesuvio, la lontana Gaeta,
la vetta luminosa del cielo,
insomma più che di natura un sacro altare.
E nell’adorato, incontaminato silenzio,
tutto dei sensi e dei pensieri
il meraviglioso navigare.
Era l’autunno giallo,
ma quel dì piovoso e nero.
Osservai le cime degli alberi più alti.
M’apparvero come cipressi,
ansiosi di penetrare il cielo.
Non eran come l’umor mio, lacrimosi…
anzi, un sollievo davvero le vette prodigiose,
lontane da ogni umana, disgustosa bassezza.
Un pensiero felice attraversò
consolò, carezzò la mia tristezza.
E mi sentii scorrere il licor dell’allegrezza.
Presi una fune…o lei mi corse incontro?
C’era una sedia, mi ci arrampicai,
l’umido m’ubriacò di verde odore…
raffazzonai un nodo sufficiente…
un calcio al mondo rovesciò la sedia
e restrinse la corda intorno al collo.
Non m’accorsi di niente…
forse svenni di gioia, forse smaltii l’umore
e…in pochi istanti soffocai il dolore!
Chi m’avrebbe scoperto a un dì presso
fra il verde e i lampi, i tuoni e le fiammelle
non poteva saper ch’ero già in volo, felice,
appeso al cielo e alle più belle stelle.