Le cose che mai ti dirò

Non ti dirò mai che mi manchi
In ogni istante: l’ho già detto
Una volta.

Non dirò il giorno, l’unico,
in cui, piegata la testa,
il braccio lievemente sostenuto
da chi mi ha generato,
ho detto sì
non a chi mi stava di fianco,
ma al secondo cuore
battente nel mio corpo.

Non ti dirò che proprio quel giorno
Capii solo un istante in ritardo
Che un altro bimbo
Era al mio fianco.

Non ti dirò mai i giorni trascorsi
Nell’attesa di una carezza,
di uno sguardo, di una parola
che non fosse un insulto.

Non ti dirò il giorno
dello specchio, quando ho visto
l’assenza del sorriso
colmata da una piaga
di disprezzo.

Non ti dirò il giorno della rivolta:
fuoco sulle guance, sulla schiena …
l’unica volta che ho pronunciato
la parola
aiuto,
ma solo l’innocente
poteva sentirmi. Poi la fuga
e il ritorno, garantito da chi
solo per legge mi è fratello.
Mi feci un regalo quel giorno:
compleanno di mia mezza vita.
Promisi a me stessa
Alta sempre tener la fronte
E asciutte le gote.

 

 

 

Le cose che ti dirò sempre

Ti canterò la feconda certezza
Della solitudine, quando
A tratti è ancora possibile
Ridere di nascosto
Per una parola
Viva e sentita presente.

Ti racconterò come rinasce l’anima,
quando cessa di avere paura
e riprova a volare.

Tenterò di distrarre la tua malinconia
Soffiandoti sul viso accigliato
I baci che non sapevo di poter dare.

Giocherò a nascondino
nelle tue rughe,
soltanto per evitare che tu
ti accorga delle mie.

Ti trascinerò fuori
A passeggiare in riva al mare
La mattina presto,
– non dire di no -,
perché breve è l’istante
della Verità
ma si rinnova in perpetuo.

 

 

 

Tempio indiano

Voglio cantar la feconda certezza
Della solitudine, quando a sera
Raccolgo le ossa disperse in giardino e
Giunge l’istante improvviso d’un’altra
Vera carezza.

Vesto con l’abito a te più gradito,
con dita tremanti intreccio i capelli
scoprendo le spalle assieme all’udito.
Siedo composta, attendendo serena
Il tuo saluto.

Ah, non sempre –è vero- giunge sospinto e
Leggero: resta sospeso nell’aria …
Prendo con mano lo specchio segreto
Ed osservo arse le labbra vermiglie
Da fuoco inestinto.

Delicatamente le apro, ma vedo
Che già la lingua si muove con ritmo,
culla il viso ancora disteso; chiusi
gli occhi, ripenso a una bambina supina
lasciata di notte a

piangere nella sua stanza lo scorno
dell’esser nata. Ma che vuole ancora?
Perché non s’addormenta? Lasciaci stare.
Come dir, se non con l’unica vera
Autentica lingua

Dell’universo: non voglio mancare
Più a me stessa: è disumano. E che voi
Avreste dovuto insegnarmi a cogliere i
Primi fiori nascosti in quelle lacrime.
Tardi ormai,

sciolgo le trecce, ricopro le spalle:
stasera non sei venuto. Pazienza.
Sono stata con me e non mi dispiace.

 

 

 

Tratto da AL DI SOPRA DEL VELO

Lezioni a chi?

I

Seduto,
Laggiù, nell’ultimo banco,
mi guardi e sorridi.
Le gambe lunghe distese,
le braccia conserte,
la testa tirata all’indietro,
alto il mento,
troppo giovane – pensi –
e troppo bella,
per una scuola maschile.

Calze quaranta denari,
gonna blu sopra il ginocchio
corto lo spacco,
camicia di seta rosa,
giacca Burberry …
mica siamo al liceo classico, qui,
mi dici arrogante.

Scrivo alla lavagna:
Giacomo Leopardi (1798-1837).
Lo sento. Sento il tuo sguardo
Di approvazione:
finalmente una donna
con la gonna.
Temeraria, ecco:
un’insegnante temeraria.
Ma non lo vedi?
Qui, solo quelle sopra i cinquanta
portano la gonna, e tu,
hai appena superato i trenta,
ma ne dimostri meno …

II

Solo per te, oggi,
per i tuoi occhi neri, levantini,
circondati da lunghe ciglia.
Ti sei addormentato sul banco,
mentre leggevo un passo di Tolstoj.
Ho lavorato il fine settimana, prof.,
… ieri notte … alle tre mi sono
coricato … mi scusi …
Ti ho sorriso, ringraziandoti
per l’onore: non a tutti i docenti
è dato di cullare verso il sonno del giusto
i propri studenti.

III

Ci legga Dante, la prego:
dall’Albania vengo …
e lei … legge così bene …
Nel mezzo del cammin di nostra vita,

Oh, bello, bello prof. …..
Tu sei bello, non Dante,
vorrei non finissi in una fabbrica
qualunque …

IV

Siamo arrivati qui nel 1990,
con la nave …
è stata dura, durissima i primi tempi.
Mia madre lavorava dalla mattina
alla sera, e anche io ho cominciato presto.
Così il tuo tema d’esame. Otto.
Scrivevi meglio di molti tuoi
compagni di classe:
italiani.

 

 

 

Molestie

I

Un segno sul collo, vicino
L’orecchio, gonfio il labbro
All’interno … così non si vede …
Più alto lo zigomo …
Oggi non parlo forte.
Oggi sono un sottovoce.
A che varrebbe nascondersi?
Mica sono l’unica
A recarsi al lavoro
Con lacrime strette a mazzi
Nella gola.
Compito scritto:
compilate il foglio ragazzi …
silenzio assordante …
solo uno ha visto la macchia:
i capelli si sono spostati …

II

Giro tra i banchi.
Non sempre lo faccio:
il distacco, mia cara, il distacco
è tutto nella nostra professione …
è vero, ma oggi,
oggi li voglio incoraggiare
questi piccoli futuri operai.
Non devono diventare deboli
come lui.

III

Ti sono vicino.
Tu vuoi ritirarti, andare subito
In officina …
Mi siedo sul tuo banco.
Ti prendo la mano.
Gli altri sussultano.
Allora? Che è successo a questa piccola mano?
Ti chiedo con dolcezza.
Sorridi: sono nato così,
unite le ultime due dita,
poi, l’operazione.
Sei felice. Forse è la prima volta
Che una ti sfiora senza schifarsi.

Torno alla cattedra.
Sento il tuo amico,
il tuo protettore sussurrare
nel silenzio della sorpresa
Lei è una grande persona, prof.
Sorriso di lacrime
A stento represse: non dico nulla.
Mi siedo e penso:
penso all’impossibilità di tradurre
in parole un solo gesto;
penso all’inutilità del mio
stare qui, qualora non fossi più in grado
di riconoscere nel dolore altrui
la possibilità della cicatrice
futura.

Affacciarsi al muro
quando è necessario,
è un dovere più forte
di qualsiasi programma
o riforma ministeriale.
Affacciarmi al muro
dona sollievo alla mia anima
molestata da chi
quel muro non vede, o finge di non vedere,
per non dover ammettere
che al fondo si impara
da coloro che pensano di non
aver nulla da insegnare.