Un giorno qualunque

Giornata pigra
appesantita dal caldo vento
di un mare lontano
annoiato da grida
indifferenti
dal nostro vivere
qua, lontano,
sotto un sole cocente
su questa mite terra di Maremma

 

 

Svegliarsi nel mezzo della notte

Rimanere affogati nel letto
con occhi da bambino
che cercano di capire.
Scoprire di essere soli
cercando ancora una forza
per continuare a fingere
di vedere domani
un altro sole
un altro orologio che non segni il tempo.
E ricadere tra la folla
fingendo di essere uno di loro.
poi di nuovo, un’altra notte,
accorgersi di essere soli.
Quattro mura
una penna
e tanta voglia di cambiare.

 

 

In bilico

Il dottore, andato via da poco, aveva diagnosticato che, con quella febbre molto alta, doveva trattarsi senz’altro di polmonite. Aveva lasciato alcune medicine, con l’ordine che al mattino seguente, il ragazzo venisse portato d’urgenza all’ospedale. La mamma, con passo avvilito, entrò nella stanza del figlio, lo baciò sulla fronte bollente, prese il candelabro e si avviò per il lungo corridoio gelido verso la propria camera.

I tuoni echeggiavano nel salone semivuoto, rosseggiante di un focolare in cui ardeva l’ultimo ciocco d’olivo. La madre entrò in camera e alla fioca luce della candela si spogliò lentamente e lentamente scivolò sotto le lenzuola gelide; il bambino non aveva risposto al suo saluto fingendo di dormire, ascoltava i tuoni e ancor di più echeggiavano in quel pancino semivuoto da un digiuno che durava da troppo tempo. Un brivido di freddo lo percorse per tutto il corpo e si sentì risucchiare in un gelido labirinto.

Si sentiva sprofondare sempre più giù in quel labirinto ai cui lati scorreva una natura morta di un rabbrividente squallore. Di tanto in tanto appariva qualche animale, anch’esso fermo, immobile, come piantato in quell’insieme, che lo fissava con uno sguardo freddo, di ghiaccio, poi altri animali, di ogni tipo e tutti lo fissavano impietriti. Il labirinto si rimpiccioliva, diventava sempre più buio, un buio che impediva di vedere quella mano gelida che gli premeva la fronte, che lo spingeva sempre più giù, senza trovare una via d’uscita. Ad un tratto sentì delle voci in lontananza, dei sussurri, non riuscì a capirne il significato, ma quelle voci gli dettero una speranza in più, un motivo ancora per lottare. Non era una lotta fisica, era una lotta senza gravità che lo teneva sospeso in un vortice che lo risucchiava sempre più giù.

Si abbandonò sfinito, vinto da quell’abbraccio leggero, rassicurante, che lo cullava pian piano, portandolo sempre più vicino a quel calore, che man mano saliva, su dai piedi avvolgendogli le ginocchia, gli abbracciava il bacino, sempre più in su fino al petto. Gli occhi incominciarono a lacrimare…avvertì una nuova forza che lo sorreggeva sotto le ascelle e lo tirava su, s’abbandonò di nuovo a quella forza amica che gli permise di aprire gli occhi.

Capì che era un sogno, un incubo: vide sua madre che gli piangeva accanto, i parenti che la sorreggevano, s’abbracciavano e tutto questo lo vedeva dall’alto, scivolando sul soffitto, galleggiando nella stanza. Guardò sul letto circondato da teste. Un’incredibile sensazione lo prese, vedendo disteso sul letto il proprio corpo. Nessun dolore, nessun rimpianto ma soltanto un incredibile senso di leggerezza, tranquillità, in mezzo a quelle grida di dolore. Consapevole di ciò che accadeva, non riusciva a capire perché quelle persone piangessero così tanto, su quel corpo disteso, senza un lamento, senza un dolore. Sospeso nel nulla, provava i primi spostamenti e girovagando nella stanza, capì che non si poteva allontanare da quel corpo.

Sfiorando le persone si avvicinò a sua madre e vedendola soffrire provò a tranquillizzarla, ma non gli uscì una parola, nonostante lo sforzo che gli chiudeva la gola. Osò sfiorarla con una mano, dolcemente e dolcemente passò dall’altra parte. Salì di scatto sul soffitto e di scatto si gettò su i suoi amici, ma invano riuscì ad abbracciarli.

Risalì nella sua solitudine e dall’alto vedeva le persone che si davano le mani, si scambiavano abbracci e lì, nell’immenso vuoto, ebbe una specie di pianto che non era fatto di lacrime, ma soltanto di nostalgia per non aver mai abbracciato un amico dicendoli di volergli bene, di non aver stretto forte sua madre e averle detto quanto l’amava.

Non invidiava quelle persone, perché ne aveva pena, sapendo che usciti da quella stanza, non si sarebbero mai più abbracciati, non sapendosi spiegare perché l’avevano fatto adesso.

..Si distrasse da quei pensieri alla vista di un ragazzo, in un angolo, solo solo, con il corpo e la testa appoggiati al muro. Si avvicinò piano piano, assaporando quella strana leggerezza e riconobbe il suo migliore amico. In silenzio, senza un’espressione ma con una lacrima che gli scendeva piano piano sul viso, dolcemente, come una goccia di rugiada. Sentiva che c’era una terribile sofferenza nascosta in quel corpo: sembrava il ritratto del dolore, al confronto delle altre persone. Avrebbe voluto abbracciarlo, per le volte che non l’aveva fatto, ma rimaneva li nei rimorsi dei ricordi passati con quell’amico ancora in vita.

Le volte che tra loro parlavano di morte, si ricordava che gli diceva che avrebbe preferito morire, anziché continuare quella vita di miseria, ma il suo amico, sorridendo ribatteva che “finché c’è vita c’è speranza” e lo consolava sempre in un modo o nell’altro. Adesso si sentiva un vigliacco, si sentiva tremendamente in colpa per non aver lottato a sufficienza contro la morte e di non aver ascoltato i suoi consigli. Gli andò vicino vicino: gli chiese di non piangere, di non soffrire, perché c’erano stati anche momenti in cui si erano divertiti e aggiunse: – Adesso ti chiedo di ricordare quei momenti, perché se riuscirai a tenermi vivo nei tuoi ricordi, io continuerò ad esserti amico ed esserti sempre vicino, non ci sarà nessun muro che ci potrà dividere, nessun ostacolo che ci fermerà e nell’immensa fantasia nessuna distanza ci separerà.-

Il viavai di persone si era calmato già da un pezzo e mentre non riusciva a dare valore al tempo, vide spuntare il sole dalla finestra. La tempesta si era placata e il mattino si faceva limpido, con il sole che riflettendosi nelle pozze d’acqua accecava orgoglioso del proprio splendore. Queste erano le giornate che preferiva, quando nell’aria fresca del mattino passeggiava per la campagna rimanendo a fissare i semi di grano, che come per magia, dall’oggi al domani si trasformavano in germogli che sempre più rubavano raggi di sole.

Intanto la camera si stava riempiendo, ed ogni persona sembrava assegnata ad un punto preciso, che ordinatamente occupava. Ad un certo punto il bisbiglio si placò tramutato in gomitate per l’entrata di un uomo alto, dalle spalle larghe con una barba trascurata da alcuni giorni, la faccia solcata dal tempo: in mezzo portava una cicca di sigaretta che sembrava iniziata cinquant’anni fa. Il ragazzo fissò quell’uomo, avendo tutta la certezza che fosse suo padre. La mamma gli aveva sempre detto, fin da piccolo, che suo padre era morto e si sentì tradito, mentre lo seguiva con lo sguardo; lo vide avvicinarsi a sua madre, le bacio le guance e, chinandosi su di lei, le sussurrò qualcosa, dopodiché insieme ad altri tre uomini, presero la bara sulle spalle e, usciti di casa, si incamminarono verso il cimitero.

Il ragazzo, sostenuto da quella misteriosa forza, stava seduto sulla cassa, guardando tutte quelle persone che lo seguivano incuranti della strada fangosa. Per la via c’era molta gente che aspettava, lungo le banchine, sulle porte di casa, unendosi tutte al funerale. Arrivarono al cimitero ed entrarono lentamente dentro le mura, circondate da altissimi cipressi. il ragazzo si lanciò sulla porta d’ingresso, rendendosi conto di non poter assistere al suo funerale: pensò che sarebbe stato troppo triste!.

Le persone si fermarono per un po’, piano piano si girarono verso di lui, additandolo e gridandogli di ritornare dentro la cassa. Un brivido di paura gli scosse tutto il corpo e non riusciva a capire come facessero adesso a vederlo, ma non ebbe il tempo di pensarci, perché quelle persone continuavano a gridargli e, avvicinandosi, gli gettavano contro ogni tipo di cosa che capitava loro tra le mani. Non ce la faceva a muoversi, mentre quel gruppo di persone continuava ad avvicinarsi minacciosa. Si sentiva le gambe pesantissime nel muoverle, mentre tutto il resto del corpo era bloccato da un qualcosa che lo premeva; l’unica liberazione fu quella di gridare e questa volta gli uscì un tale grido che fece svanire tutte le persone compreso il cimitero con il suo muro e tutti i cipressi. Intravide una mano che gli levò quel gran peso di dosso…

– Sì, pensava
– Era il coltrone che mi pesava sul corpo…
Sua madre gli sussurrò:
– te l’ho messo io, tesoro, questa notte, sei stato così male!…
Il ragazzo si alzò dal letto e abbracciò sua madre stretto stretto; le sussurrò:
– Mamma mammina, cos’è la morte?
La madre rimase perplessa a quella domanda, ma rispose:
– Bambino mio, la morte…la morte è quella cosa che senza di essa, la vita non avrebbe senso!
– Ma allora, mammina, la vita cos’è?
– La vita, figlio, è quella cosa che qualcuno ci ha regalato e come tutti i regali bisogna prenderla e amarla com’è.

Autunno 1996

Al mio amico Paolo