Antonia. Dopo

 

Antonia, ora hai smesso di ballare

Ma nella stanza allampanata, nella luce offuscata

brillavi nel tuo foulard – col rossetto rosso

sulle labbra che sorridevano

Fra i tuoi cari che ti pregavano

Di tornare presto.

A tratti io credevo che saresti ritornata

Che dalla bara racconciata avresti fermato la litania

Avresti detto: per cortesia!, c’è stato un errore!

Con un sorriso riconoscente a quelli che ti avevano carezzata.

Ma l’errore non ci fu

e per tutta la sera ti guardai

Che splendevi incurante nella bara sistemata a festa

Coi fiori ai piedi, una rosa nella mano

come dopo uno spettacolo.

 

Ti toccavo mentre eri sdraiata.

Ho rivissuto la tua vita.

Toccandoti le guance ti ho chiesto

Cosa provavi dopo un balletto

Affacciata alle luci del palcoscenico

Le braccia aperte a raccogliere fiori.

Ora i fiori sono sotto la bara

Ma toccandoti io pensavo alle intense tue emozioni

A quella nuotata nell’Adriatico

Al tuo primo ragazzo ed il dolore che t’avesse lasciato.

Sono monili e chincaglie, Antonia, le tue emozioni.

Restano sulle guance e la terra li prenderà.

Riposa sulla tua vita, oltre lo spazio della tua vita

In un luogo brulicante solo di vita

Perché la morte non sia che vita.

 

Alessia Borriello


 

 

La strega

 

Quando la vidi per la prima volta aveva gli occhi gialli. Era bassa in modo buffo, le gambe piccole zampettavano ossesse e lasciavano appena intravvedere il loro movimento. Ma spuntavano solo con le punte delle scarpine, dopo le onde d’una gonna che sembrava un mantello. La gonna la copriva dalle spalle ai piedi, ma non si capiva dove iniziava: si vedevano solo le scarpe finali. Il vestito assumeva una forma sferica, nell’insieme. Come una palla divinatoria. Ma lei, quando si muoveva, sembrava un astuto animale della fattoria, e andava dove trovava cibo.

Mi guardava spesso.

La prima volta che parlò disse cose che non capii. Non capivo perché mai fosse sincera. Ci misi cinque anni a comprendere che, infatti, era retorica. Quella retorica fu fondata in Grecia nel V secolo a.C. Vide in Gorgia il suo esponente più convincente. Da allora nessuna arma più pericolosa fu mai sperimentata. Lei la sapeva usare divinamente, nascostamente. Come quando muoveva le scarpine.

 

Diceva cose buffe, come lei, a cui era buffo credere. Era questo il pericolo: iniziarle a crederle, per gioco; finire col convincersi che quel che diceva era bello.

Era strana.

 

“Siete ragionevolmente certi che quel che fate è completamente inutile?”

Ma che buffa retorica.

Fu così che iniziai cinque anni di liceo classico.

 

Ogni giorno mi tuffavo in una stanza piena di luci e suoni distanti. Non voglio parlarne. La ricordo con questa distanza, e mi scotta, mi scotta il cuore. Parlare del liceo classico è impossibile, sadico. Ma anche il giorno allora era vissuto come distante da sé stesso. Quella distanza era riempita continuamente dalla sua voce, che diceva cose che nessuno avrebbe mai dovuto capire veramente. Oggi la distanza che pongo rispetto a quei giorni è mediata ancora da lei, dal suo ricordo, da ciò che ho capito di quella sua misteriosa figura, che è riuscita a manovrare il mio rapporto con la realtà. Per gioco o per magia. Che sono la stessa cosa.

 

Era magica. Entrava in classe con un andamento irriproducibile, e fingeva di entrare a casa sua. Dopo mezz’ora sembrava ridestarsi, ma la sua confidenza non era cessata. Eppure, quella non era improvvisazione. Ogni sua parola era già stata decretata chissà quanti anni prima, ma sembrava sempre sibillina e nuova.

Usava schemi formulari. Ripeteva gruppi di parole. Quando ripeteva un certo gruppo, lo studente poteva etichettare la situazione in cui si trovava. Ogni avvenimento era catalogato con le parole che lei gli dava.

“Siete ragionevolmente certi che…?” significava che stava per dire una cosa non del tutto ovvia; ma che lo poteva sembrare. Che poteva essere resa semplice. Bisognava seguire il suo ragionamento. Mi immaginavo sopra la sua testa un filo. Lei era così bassa perché aveva bisogno dello spazio anche per quel filo. C’era qualcuno a manovrarla. C’era qualcosa. Un segreto, un mistero.

 

Sapeva quando stava per piovere. Lo sentiva nelle ossa. Sapeva quali autori sarebbero stati sorteggiati per la versione scritta alla maturità. Sentiva anche loro nelle ossa.

Immaginavo le sue ossa come lunghi e tortuosi canali, pieni di buchi, annunciatori metereologici, autori latini, che si aggrovigliavano sotto il suo vestito.

Era una strega. Fumava sempre, e si muoveva nella nube del suo fumo. Fumava come una turca e si vedeva dai denti, ma la voce, profonda, saliva dalla pancia, e non era roca. Era morbida, stregata.


 

La bambina

 

La prima volta che mi dissero che ero strana avevo sette anni. Prima me lo avranno detto, di certo. Ma non me lo ricordo. Oppure, usarono parole diverse.

 

Il parco della mia scuola elementare era diviso a zone. Un grande abete troneggiava alla fine d’un cono d’erba. Era furbo rintanarsi lì, a nascondino, tra gli alberi. Il bambino che cercava i compagni si ritrovava stretto in una morsa. Era bloccato davanti al Grande Abete. E, con una mossa a tenaglia, i nascosti sarebbero usciti. Sarebbero sgusciati agli agili lati, si sarebbero lasciati il cercatore alle spalle. Lui inerme di fronte al Grande Albero. E il cercatore, in quel cono, si sarebbe ritrovato costretto a contare ancora, al turno dopo: non era stato capace di tanare gli altri. Quel cono di prato e alberi e abete era il nostro girone dantesco del nascondino. Era fatto per bambini di sette anni. Quando contavo io, non ci entravo mai. Lasciavo che i nascosti, da quella zona, s’annoiassero. Che uscissero da soli. Che si sparpagliassero per il prato, che fossero loro a pedinarmi, guardinghi.

 

Alle bambine vengono a noia queste strategie. Sono più stimolate dal gioco mamma figlia. Il gioco si installa sul muretto davanti ad un cespuglio. La mamma strappa foglie secche e vi fa sedere la figlia. La mamma cava terra bagnata, dopo la pioggia, e la modella come un vaso. Da lì, la figlia deve mangiare le bacche. Comunque, quelle del cespuglio erano avvelenate, diceva il maestro. Quindi lo si faceva per finta. I giochi delle bambine raggiungevano una perizia tecnica che i maschietti non conoscevano, mentre giocavano a pallone. Elisa aveva sviluppato una collezione manifatturiera di vasellame, fatto di terra bagnata ed infine rappresa, decorata con le tempere, che di nascosto si portava da casa. Ai genitori, diceva che era il maestro Gennaro a dirigere i lavori. Così, riceveva il permesso a rincasare con quella terra che lasciava briciole.

Ma io non frequentavo sempre quei giochi. Qualche volta mi mandavano delegazioni.

- Blu, Elisa ti manda a dire che, se vuoi, puoi giocare con noi a mamma e figlia.

- Dite grazie ad Elisa, ma devo fare delle altre cose.

- Che cosa? E’ ricreazione.

- Eh. Delle cose.

Mi ritiravo allora in un cerchio di polvere. Mi sedevo sopra il mio cippo d’albero. E leggevo: avida, ubriacata, fremente.

Mi piaceva leggere. Ma la mia strategia era più malefica di così: volevo che il maestro Gennaro mi vedesse leggere. Gennaro gestiva il quadernone dei prestiti bibliotecari. Volevo che mi vedesse leggere. Che poi, in classe, mi guardasse avvicinare, mentre restituivo il libro. Che fosse curioso di me. Di quale libro avrei preso, in seguito, a prestito. Avevo voglia di essere vista da lui non come una discreta cercatrice a nascondino; non come una renitente figlia che rifiuta di mangiare le bacche della mamma, ma volevo essere guardata negli occhi come una lettrice. Mi piaceva giocare quei panni. Conservavano una certa magia, attorno alle cose che facevo. Volevo godere di questa magia, ubriacarmene, lasciare che lievitasse sulla mia voce e sulle mie scoperte. Mi piacevano i libri sulle streghe. Ed io, assieme a loro, volevo essere considerata come un mistero.

 

Le ambasciatrici non si dimenticarono del mio rifiuto. Le vedevo, di sottecchi, se cambiavano settore del parco. Il cespuglio e il vasellame si faceva, talvolta, ripetitivo. O, se aveva troppo piovuto, la terra era fradicia, e non si faceva lavorare. Così, loro si traslavano verso le Grande Sabbiera. Grande, quanto una normale sabbiera è grande. Ma, assieme ai Grandi Alberi, i luoghi di raccolta dei bambini assumono una portata simbolica, che si slarga oltre quella fisica. E con la coda dell’occhio, fra le marachelle delle mie streghe, osservavo la perizia di quelle bambine. Elisa dirigeva i lavori. Le due operaie erano Lucia e Federica. Elisa troneggiava sui cumuli di sabbia, che faceva raccogliere alle sue schiave. Forse, le aveva acquistate da chissà quale contrabbandiere, ripescate da una retata dei pirati dell’Illiria, durante le antiche guerre di conquista romane, nel II sec. a.C. Fantasticherie. Eppure, anche nell’ossessione certosina dei loro cumuli di sabbia c’era un disegno fantastico di grazia e abnegazione. Un comando, una bambina e due schiave.

Lucia e Federica non tardarono a portarmi la risposta della loro signora, capo cantiere.

  • Elisa ci manda a dire che non vede l’ora che tu te ne torni nella città da dove ti sei trasferita.
  • Lo farò al più presto. Così la vostra Elisa sarà felice, che passa la sua vita a pensare a me.

Usavo un’ironia furbesca. Era il modo per fronteggiare quelle bambine monotone. Volevano mi trasferissi di nuovo nella città da dove ero venuta. Ma come un coltello ambiguo, la mia risposta segava un pochino anche me, in un profondo un poco superficiale che tuttavia, cadendo nel più profondo del mio cuore, imprimeva questi momenti nella mia memoria per sempre. Lucia e Federica non seppero mai cosa rispondermi. Non erano pronte, non erano taglienti. Il loro sguardo era opaco e declinante come le loro schiene abbronzate intente alla sabbiera. Ma neppure io dimenticai mai quegli occhi declinanti, i loro figurini magri. La corsa che fecero, soddisfatte, per dire alla padrona la risposta della nemica. Con il sedere all’infuori, perché una delle due schiave aveva una postura sbagliata, e se correva sembrava un tacchino in punta di piedi.

 

Ma Gennaro, a sua volta, mi osservava. Era bieco e alto. Ci guardava tutti da quel metro di troppo, mentre noi eravamo raso terra. Dove finivano i nostri capelli cominciava il suo busto eretto. Sognavo di arrampicarmi su quelle altezze e vedere, di fronte a Gennaro, che cosa sarebbero diventati i discorsi e le parole che dalla sua bocca profondevano in classe, fra le occhiate dei bambini distratti, perché affamati della prossima merenda; ed il mio sguardo, attentissimo, perché vorace di quelle parole. Desideravo che Gennaro comprendesse che ero un’avida lettrice. E mi portasse in trionfo, come un generale romano. Ed io mi dimenticassi di quei tacchini spennati delle altre bambine, che non presi mai davvero sul serio.

 

Tornarono.

- Sei strana.

- Ve lo manda a dire Elisa?

- Sì.

- Sono contenta che Elisa, fra di voi, sia l’unica in grado di pensare. Così devo rispondere a meno persone.

Il tacchino gonfiò il petto in fuori, venendo ad assomigliare ad un piccione. Ma Federica, un poco, se possibile, adombrò lo sguardo. Ed io vidi quell’ombra. E, nelle mie guance, si scavò una fossetta. Come anche la mia strega sorrideva, quando volava sulla scopa, fra le pagine d’un libro, ed io vedevo solo lei, e nient’altro.