Poesie
MALEBBENE
Probabilmente ho capito la differenza tra bene e male grazie a mia mamma.
Per lei tutto era bene o era male. Soprattutto le piccole cose.
Sporgersi troppo dal balcone era male. Camminare coi piedi a papera era male. Mangiare
ingobbiti era male.
Tenere i capelli lunghi fino alle spalle era da gay, e quindi male.
Ho scoperto la parola gay a sei anni. Tra i miei giocattoli si era mischiata una Barbie di mia
cugina. Ricordo ancora come era fatta: aveva dei jeans attillatissimi e una camicetta legata sotto al
seno. La pancia liscia e bianca non aveva l’ombelico. Mamma mi ha visto reggere in mano la Barbie
e mi ha detto: “che cosa sei, un gay?” Non sapevo cosa volesse dire “gay”. Volevo chiederglielo ma
mi stavo già domandando perché la Barbie non avesse i rotondini sulle tette.
Portare le lenti a contatto era male, perché erano sottili strisce di pesce crudo appallottolate dai
giapponesi. Ho portato ridicoli occhiali sopra il naso per tutte le elementari e ho avuto il
soprannome di “gigantocchi”; niente di irreparabilmente offensivo, ma una dimostrazione di
ostilità, riuscita o meno. Io non mi preoccupavo, perché portare gli occhiali era bene ed erano i miei
compagni a essere male.
Mamma non mi permetteva di attraversare la strada se prima non mi prendeva per mano, anche
quando non si vedevano macchine neanche in lontananza. Mentre mi stringeva la mano sventolava
il braccio col suo dito a uncino ed esclamava: “MALE, BENE, MALE, MALE, BENE, MALE!”
A volte usava anche la congiunzione per separare il MALE e il BENE, e otteneva il risultato di
creare un lemma dal nuovo significato: MALEBBENE, un ibrido maligno e benevolo; me lo
immaginavo vivo, MALEBBENE, teso sul filo di una ragnatela lucida, oscuro, con un occhio
mezzo aperto…
“Papààààààààààà!”
La voce di Valeria mi strappa dal telegiornale delle dodici. Inconsciamente, per i primi secondi,
cerco di ignorarla, come se stando zitto potessi cancellare la mia presenza paterna.
“Papààààààààààà!”
Ma è solo un attimo: mi alzo dalla poltrona e inseguo le vocali allungate della bambina.
Provengono dal giardino e man mano che afferro le à infinite di Valeria, la sua voce si fa sempre più
intensa.
Sono fuori. La luce è una mosca sulle ciglia. Mi stropiccio gli occhi e, con sintassi educata ma
con tono scocciato, chiedo cosa è successo.
“Paloo ha ucciso Pagheera!”
Valeria non riesce a pronunciare correttamente la b. La stupra e la tramuta in una p,
aggiungendoci uno sputacchio come firma. Forse ho chiamato i nostri cani con la b per dispetto
verso di lei, ma se ho giocato davvero un tiro così infantile devo aver sbagliato i calcoli, in quanto
sono io a sentire l’errore pronunziale di Valeria, non lei.
“Come?” rispondo, guardando il suo visino tutto arrossato. Com’è bella Valeria… Chissà quanto
ci metterà a sentirsi donna e concedersi al primo imbecille con la sigaretta sull’orecchio.
“Paloo ha ucciso Pagheera!” mi ripete, e noto le lacrime sature di luce verniciarle il viso.
“L’ha acchiappato per il collo e ‘gwaaargh!’” ringhia Fabrizio, imitando delle fauci con le dita
delle mani.
“Pagheera, pà!” dice Valeria.
“E poi ‘spruuuz’! Ha sputato tutto il sangue!” dice Fabrizio.
Pregare è bene, non pregare è male. Le preghiere sono il nostro grazie continuo a Dio. Dobbiamo
ringraziarlo ogni giorno più volte al giorno.
Una volta ho chiesto a mamma come mai dobbiamo ringraziare sempre Uno che è lontano
lontano e non vediamo mai, quando non ringraziamo quelli che ci stanno vicini. Lei mi ha dato un
veloce schiaffo sulla guancia, per poi tramutare la mano in uncino, posizionarmelo sotto il naso e
dire: “MALE, MALE!”
Una volta mamma era in piedi e guardava fuori dalla finestra. Come se sapesse che la stavo
fissando, disse: “Prego che a quel romeno gli esploda la macchina.”
E pregare è bene.
“Baloo ha fatto cosa?”
“L’ha ucciso!” dice Valeria. “L’ha ucciso!”
“Ma no” asserisco “no che non l’ha ucciso.” Penso a quante sciocchezze dicono i bambini, a
quante cose credono vere quando non esistono. Le fate. Babbo Natale. La morte.
“Gli ha strappato la giugulare!” grida, estasiato, Fabrizio.
E io: “Ma no, ma no, ma che dite”. Sventolo la mano davanti al naso, ma mi accorgo di sembrare
stupido.
Mi dirigo verso il recinto dietro casa e mi preparo a vedere da cosa i bambini hanno creato la
loro storiella. Ma prima di arrivare mi chiedo: Fabrizio dove ha imparato la parola “giugulare”?
Valeria dove ha imparato il verbo “uccidere”? E soprattutto mi chiedo perché abbiano dovuto
inventarsi una storia così raccapricciante… Il sole splende in cielo ed è una bellissima giornata. Non
potevano giocare invece di sforzarsi a inventare bugie? Questo è male.
Arrivo davanti al recinto di legno e già prima di toccarlo vedo tutta la scena nella sua interezza.
Ma non l’accetto. No, non l’accetto. Allora parto dal basso: supero il fango, le zolle di terra dalle
forme vagamente simili a pistole, arrivo all’erba, all’erbaccia, proseguo per l’infinito fiumiciattolo
verde solido fino ad arrivare al blu oltremare di un piattino di plastica. È la ciotola di Baloo, perché
quella di Bagheera è arancione. Nella ciotola c’è qualcosa. Qualcosa di liquido. Ma non è acqua. È
rosso. E non è statico. È come se una fossa venisse riempita di terra tramite uno scivolo. Dalla
pozza rossa si erge un tubicino rosso, liquido ma più compatto, che termina in uno squarcio
accerchiato da peli bianchi e marroncini.
Metto a fuoco la scena e scopro Bagheera che perde sangue dal collo. Scopro il corpo di
Bagheera rannicchiato su se stesso, col muso accanto alla ciotola, che si muove come se stesse
sognando. Che si muove come un uomo crede che si muova un cane quando sogna, facendo tremare
le zampette anteriori e stiracchiando quelle posteriori.
Bagheera ha la bocca spalancata in una pozzanghera schiumosa e muove le zampette come se
volesse dire qualcosa. Come se volesse incidere sul terreno un messaggio con le unghie. Come se
volesse lasciare la sua ultima testimonianza e scrivere: “Qui giace Bagheera. Brutalmente ucciso da
suo fratello Baloo”.
E Baloo guarda morire suo fratello dall’alto. Lo fissa come si fissa una lumaca: cercando di
capire se si sta muovendo.
Poi mi vede. Mi vede e fa: “Woff, woff!” Inizia a scodinzolare e sgambetta verso di me,
probabilmente alla ricerca di qualche carezza.
La morte di Bagheera non mi ha lasciato niente. Non sento quel brivido di repulsione che dovrei
sentire. Ma forse non l’ho ancora recepita. Non ho ancora interpretato la morte di quel cane, non gli
ho ancora dato un significato.
Però appena Baloo arriva mi sblocco. Come se avessi capito che l’assassino si sta dirigendo
verso di me col coltello in mano.
Faccio due passi indietro, anche tre. Lui sembra sorridere e quella coda ad elica ne è la conferma.
Ma il suo sorriso ha qualcosa di sbagliato. Solo dopo qualche istante mi accorgo che è per via del
sangue. Il sangue tutto appiccicato sul muso che a piccole gocce cola sulle sue zampette.
Ma non rimango scioccato per il sangue. Rimango scioccato dall’aver capito in ritardo che si
trattava di sangue. Dall’aver immaginato un bambino. Un bambino con in mano una grossa e
succosa ciliegia.
Un bambino che la divora e si imbratta il muso di rosso. E sorride, mentre le guance si gonfiano
e la saliva rossastra fa le bollicine tra i denti.
E invece no, Baloo non è un bambino innocente. È un assassino. Un fratricida. È male, male,
male! Perché Dio e la mamma dicevano che uccidere è male.
Ma perché Baloo ha fatto una cosa del genere? Mi ci vuole poco per capirlo: il muso di Bagheera
è accanto alla ciotola di Baloo e quindi, probabilmente, Bagheera aveva mangiato il cibo di Baloo e
per questo Baloo lo aveva punito.
E perché? Perché, mamma? Perché, Dio? Perché Baloo l’ha punito? Perché, eh, perché?
Perché rubare è peccato. Perché rubare è male, male, male, male. Come uccidere. Ma chi è il
primo che ha peccato? Chi, chi? Bagheera.
Ignorando i pensieri che mitragliano il cervello, calo una mano sul capo di Baloo e inizio a
strofinare come per dire: “Bravo, il mio ragazzo, bravo.”
Però mi chiedo quando ho imparato la parola “giugulare” e il verbo “uccidere”.
Forse le ho imparate dai miei figli.
MALEBBENE mi guarda.
Strizza l’occhio in un arco bianco.
Sorride.
Nelle notti argentate
Nelle notti argentate
dalle lame affilate,
sotto lune illuminate
dai fari arancioni
delle prove evitate,
per le donne che hanno troppo amato
è ricominciato il brusio delle falene impazzite,
degli elicotteri a raccogliere il vento
in cerchi impalliditi per le estati mancate,
per gli orgasmi ceduti al dolore,
per gli zigomi appena timbrati
prima di andare al lavoro;
eravate belle assai,
quando la giovinezza vi portava regali
da scartare prima di compiere gli anni;
eravate belle assai,
nella promessa variopinta di scegliere il silenzio,
nella crudeltà delle unghie soffocate
sotto i cuscinetti delle mani
celanti segreti di vita, morte, amore
che non verranno mai letti
se non nelle carezze cedute per rassettarvi
quel che basta per portare con attenzione
un caffè nero,
rovesciarlo a terra
e chinarvi ancora una volta
senza avere il mal di schiena,
solo una spinta
e un anello che gira ,
senza sporcarsi,
attorno alla macchia
nello splendore dorato
del suo cerchio appariscente.
Già di notte si lamentano
Già di notte si lamentano
i gufi degli animi sapienti,
capricciosi, intolleranti,
inerti di fronte all’ultima
nota del grillo.