VECCHIAIA

Manichini senza fili e privi di vita indossavano costumi di ogni genere. La città di Viareggio si stava preparando ad accogliere l’ultima sfilata dei suoi carri spiritosi e variopinti. Strade in festa, marciapiedi di coriandoli e cielo di stelle filanti.

Barchette ormeggiate lungo il molo prese d’assalto da maschere in attesa di mangiare il cartoccio caldo e profumato di pesci appena pescati. In Darsena, viareggine ben in carne, abbellite da cuffiette e grembiali bianchi, intente ad allestire lunghe file di tavoli apparecchiati alla buona, aspettavano l’arrivo degli ospiti affamati ed infreddoliti.

Da una veranda un’ anziana signora, seduta davanti ad una tazza di thè, non sembrava gradire quell’allegria, non riusciva a capirne il significato, perché ormai quel mondo non le apparteneva più da troppo tempo. Suo figlio, un uomo di mezza d’età, mentre sorseggiava un caffè le accarezzava la mano ossuta e nodosa: l’anulare dell’elegante signora era adornato da un anello antico, forse appartenuto a sua madre, che rendeva quell’arto inquietante ma nello stesso tempo aristocratico, prossimo ma non ancora pronto ad accogliere la freddezza della morte.

Lo sguardo della donna si era perso ben oltre la linea di confine che separava il mare dal cielo, era triste e rassegnato, bersaglio della sua stessa vecchiaia si sentiva quasi offesa dal profumo Chanel n° 5 che aveva indosso, tanto amato in gioventù. Non aveva voglia di condividere trucchi e maschere.

Si era fatto tardi, il sole prima di essere inghiottito dal mare aveva lasciato una scia rosso-arancione nel cielo; l’attempata signora, vittima del tempo passato, senza dire una parola prese il bastone appoggiato allo schienale della sedia e si alzò. In silenzio madre e figlio s’incamminarono verso casa ed insieme andarono incontro alla sera.


IL FABBRICANTE DI BOLLE DI SAPONE

Estate 2015

Un’ondata di caldo insopportabile aveva assediato Firenze e dintorni; quell’anno anche le località marittime e montane furono colpite da un clima torrido.

Sul lungomare di Viareggio l’effluvio di creme abbronzanti, di bagnoschiuma ed essenze profumate era inebriante, ogni tanto arricciavo il naso nel tentativo di distinguere, in un gioco tutto mio, chi, tra coloro che mi avevano sfiorato, avesse indosso l’una o l’altra fragranza.

Davanti alle gelaterie code infinite di nonni debitori dei loro nipoti di un cono gelato promesso dal giorno prima. Si prospettava una giornata all’insegna del relax; mano nella mano io e mio marito ci stavamo dirigendo verso le nostre biciclette parcheggiate in prossimità del molo, mi sentivo bene, in perfetta sintonia con l’atmosfera goliardica delle vacanze estive.

In lontananza, sul marciapiede destro della passeggiata, vidi un capannello di gente vicino ad un catino di plastica e, poco più in là, un uomo non più giovane, sporco e trasandato, con una corda lunghissima tra le mani. Dissi a mio marito di accelerare il passo perché volevo vedere cosa avesse attirato l’attenzione di quella folla. Un’enorme bolla di sapone mi venne incontro lavandomi la faccia per dissolversi immediatamente dopo in centinaia di piccole gocce d’acqua.

Quell’uomo stava ricreando l’incantesimo e la magia di un gioco semplice ed antico che avevo dimenticato, ma la cosa più incredibile era che quell’illusione dai colori iridescenti non nasceva da un soffio leggero, come quando ero piccola, ma da ampi movimenti circolari di quella lunga corda consumata immersa più volte nel catino di acqua saponata.

I bambini a suon di gomitate rincorrevano le bolle libere di volare nel cielo e prima ancora di poterle prendere esse si confondevano con l’aria ed altre ancora ne nascevano da quel catino e da quella corda, ma anche quest’ultime preferivano morire piuttosto che farsi acchiappare.

L’artista di strada aveva sedotto ed affascinato adulti e bambini e con le sue bolle aveva fatto un piccolo miracolo quel giorno, almeno per me.

Ricordai mia madre, ancora vivente, in cucina, dietro ai fornelli, avrò avuto circa 4-5 anni, quando, per farmi baloccare mi preparava in un bicchiere quell’infuso magico con una cannuccia. Trascorrevo ore ed ore sul balcone insieme alla mia bambola a fare bolle di sapone, alcune delle quali le lasciavo libere di volare, altre invece mi divertivo a scoppiarle.

Sposata e con una figlia in quelle bolle mi sono specchiata bambina.

Il giorno dopo quel frammento della mia infanzia, simile ad una bolla di sapone, si dissolse in gocce di nostalgia e di gratitudine nei confronti di colui che, senza chiedere niente, a chiunque fosse disposto ad accogliere nel proprio cuore un momento di magia, donava meravigliose illusioni dai colori iridescenti, aspettando solo una misera offerta. Per questo non finirò mai di ringraziarlo. Grazie, grazie davvero.


I MIEI DUE NOMI

Ebbene sì ho due nomi: Angela sui documenti, Angelica nella vita. Due persone ben distinte e separate, nate contemporaneamente nello stesso giorno, mese ed anno, che condividono lo stesso corpo, più unite di due gemelle siamesi , ma l’una non conosce l’altra.

E così è stato anche per mia nonna, la madre di mio padre, Angela C. ma, Angelica per i figli, per suo marito, per i suoi alunni e per la vita, la stessa che hanno voluto dare a me, proprio come il titolo del dramma di Pirandello: “La Vita che ti diedi. “

Angela firma, Angelica si presenta ad amici e nemici, nessuna delle due sbaglia: non è mai successo che Angelica stringesse la mano dicendo: “Piacere Angela oppure che Angela firmasse Angelica.

Paradossale è che anche i miei stessi genitori, coloro che hanno scelto il nome al momento della nascita, non mi hanno mai chiamato Angela ma sempre e solo Angelica e se dovessi scegliere tra le due Angelica è senz’altro la più simpatica.

Angelica è quella che ride, piange, ama, odia e sbaglia. Angela invece è la sua perfetta controfigura: a scuola era Angela che veniva chiamata alla cattedra, ma chi subiva l’interrogazione, chi prendeva un brutto o un bel voto era Angelica.

Mio marito ha sposato Angela ma vive da circa 27 anni con Angelica; fisicamente è stata Angela a portare in grembo per nove mesi la loro figlia, Serena, poi, però è Angelica che è diventata mamma.

Una sera mentre eravamo a tavola, davanti ad un buon bicchiere di vino e disquisivamo sull’assurdità di avere un nome fantasma, mio marito fece un’osservazione meravigliosa, non so se fu dettata dai fumi dell’alcool, ma dentro di me suonò come una dichiarazione di eterno amore: “ Ricorda, disse, Angela un giorno morirà, Angelica no”.

Non ci avevo mai pensato, mio marito in quel momento mi aveva reso immortale, almeno per lui, lo abbracciai forte e lo baciai: nessuna donna avrebbe potuto desiderare di più.

Grazie Angela, ora so chi sono veramente: IO MI CHIAMO ANGELICA, il mio vero ed unico nome da sempre.


IO E IL MIO BAMBI

Sfinita mi addormentai singhiozzando e singhiozzando mi risvegliai: decisi che da quel giorno non avrei mai più giocato con il mio Bambi, un cerbiatto a dondolo bellissimo, mi aveva tradito e per colpa sua ne buscai da mia madre. Ancora sudata e rossa come un peperone per aver pianto a dirotto mi alzai e senza degnare di uno sguardo il mio compagno di giochi feci merenda con una fetta di pane e pomodoro sul balcone di cucina, da sola.

Ero arrabbiatissima. Mi sarei vendicata.

***

Bambi mi fu regalato dai miei genitori in occasione della Befana; era un’esatta riproduzione dell’originale del film “Bambi “ di Walt Disney, con il manto dello stesso colore, alto quasi più di me. Quel lontano pomeriggio d’estate del 1964 mentre mi cullavo dolcemente sulla sua groppa mi venne in mente di fare un gioco nuovo: volevo condividere con lui il giardino fiorito della signora che abitava al piano di sotto, quindi lo portai sul balcone di cucina, presi Bambi e tentai di far entrare il muso tra le due colonne di ferro della ringhiera per farlo affacciare. Nonostante i miei sforzi la testa era troppa grande, provai a comprimerla, a sbatacchiarla a destra e a sinistra, niente e tanto dissi e tanto feci che gli staccai metà della coda.

Tra pianti e rimproveri a Bambi stavo facendo un gran baccano, ( alle due del pomeriggio, in piena estate, la gente, voleva riposare ) mia madre accorse immediatamente cercando di spiegarmi che quello che intendevo fare non era possibile e per accontentarmi sollevò Bambi, facendolo sporgere dalla ringhiera.

Volto rigato dalle lacrime, disperata, non sentivo ragioni, la testa di Bambi doveva entrare tra la fessura della ringhiera, una bizza assurda. Mia madre perse la pazienza, prese me e Bambi, chiuse la finestra e me ne dette di santa ragione.

E fu così che non ci giocai più, tant’è che venne donato all’ Istituto San Gregorio, dove io frequentavo la scuola materna.

***

Un giorno, a distanza di 30 anni, passando per puro caso davanti al cancello dell’Istituito San Gregorio, in lontananza mi sembrò di vedere in giardino il mio Bambi. Pensai : “Non è possibile, non può essere lui”.

Mi feci coraggio e suonai il campanello. Mi venne ad aprire una suora, che si presentò come Madre Superiore, imbarazzata le spiegai il motivo della mia visita e gentilmente mi fece entrare. Mi guardai intono: niente era cambiato da l’ultima volta che avevo oltrepassato quella soglia, solo l’imbiancatura era fresca, l’inconfondibile odore di mensa, le sedie, i banchi erano gli stessi. La Madre Superiora mi spalancò le porte dell’Eden e LUI era lì, con la coda che ciondolava dal 1964: bambini in fila stavano aspettando il turno per cavalcare Bambi, impegnato con un loro coetaneo che, improvvisandosi cowboy, si dondolava aizzando l’animale.

Impotente non ebbi la forza di avvicinarmi, mi sentivo come un’indiana senza frecce alla quale, tanti e tanti anni fa, un capriccio le aveva rubato il suo destriero e niente e nessuno glielo avrebbe più ridato.