Via Crucis

Questa lunga via, che ho percorso tante volte con mille desideri, timori, stravolgimenti nel cuore, ha le sembianze di un imponente uomo in cravatta, con larghe spalle, senza testa né volto, il giudice di un tribunale senza appello. Qui, gli antichi edifici, come in una grande tela onirica, sembrano prender vita e accartocciarsi su di me, quasi a volermi inghiottire. E’ la via crucis, che percorro ancora adesso, è un pellegrinaggio senza meta. Eccolo, l’antro della Sibilla, il Limbo dove la mia anima dannata cerca la fonte battesimale.

A quei tempi, ho lasciato che in questi luoghi mi facesse la corte Sophìa, vecchia megera, istrionica e sprezzante, e ho creduto di intravedere orizzonti di libertà e metafisiche certezze. Lussuriosa e adultera, ha barattato la mia quiete, già compromessa, con incaute promesse di pace. La vedo spuntare ad ogni angolo, prostituirsi al primo passante, tanto le sue membra sono tenere che si confondono con quelle di un infante, e, tendendo l’orecchio, mi sembra di udire il suo ghigno sdentato fondersi col vagito di un bimbo. Abile canaglia, ha carezzato con un pettine di velluto la mia schiena, ma io ho ceduto poco alle sue lusinghe, avendo la carne già arsa e la disillusione nell’anima. Allora, Titani senza gloria mi hanno sverginato il cuore e la mente, testimoni di verità scomode disvelate a tratti, dove i battiti, raggelati, sepolti sotto “strati” di pensiero, rimangono troppo spesso intrappolati. Sono gli stessi Titani che rivedo adesso, mostri sordidi, come in un dipinto del Goya, attraversare il mio cammino, mentre scorgo, dietro alle macerie dei loro volti, fragilità e inquietudini, laddove un tempo vi lessi spavalderia e disappunto.

Immagino, adesso come ieri, il cielo di piombo tingersi di viola acceso di una stradina di campagna, dove, l’incedere tumultuoso è spazzato via da quello ripetitivo e monotono di una carovana, di ritorno a casa al limitare del tramonto. Stremati, obliati da se stessi e dal resto del mondo, dopo essere stati travolti da ogni sfumatura di colore, dentro ad ogni odore: nel verde umido di un filo d’erba, nel voluttuoso tepore del sole che cala all’orizzonte, nell’odore fresco del vento che esala dalla terra brulla. Pronti ad afferrare l’arcano senza troppe pretese. A farsi cullare da esso.

Sono fuori. Ormai è inutile che perori la mia causa. Il giudizio è stato emesso. Sono stati tre mesi di mediocrità. Chissà i successivi che sapore avranno. Stordita, capisco di esserci ancora, di essere ancora qui solo negli occhi dei passanti o in qualche vetrina, dove mi specchio, distrattamente. Sono troppo presente a me stessa o troppo fuori di me? La testa è separata dal resto del corpo… tutto quel discorso sull’esserci e sulla tecnica… mi è venuto l’amaro in bocca. Avanzo a piccoli passi, vado su e giù, mi fermo, accelero, torno indietro, mi precipito nuovamente verso casa. Voglio liberarmi al più presto da questo fardello, il caos mi gravita dentro e mi attanaglia il respiro. Sorrido e tremo al pensiero che ancora una volta sono sopravvissuta, sono finalmente fuori, anche se solo per un istante, da questo Cocito infernale.


 

La Corsa

Mi capita spesso di rimuginare su delle frasi… sentite per caso o lette chissà dove. Mi ritornano in mente all’improvviso. Rimangono lì, un chiodo fisso, verità incontrovertibili che ti entrano dentro e hanno tutto il sapore di inconfutabili verità naturali. Il caos multiforme della vita, la caducità delle cose, mi spingono al rifiuto di qualsiasi certezza: cosicché, a volte, anche adottare un sol punto fermo, significherebbe tradirla. Tuttavia, tendo a far mie alcune “piccole” sensazioni, forse solo debolezze, che mi restituiscono il sapore vero, genuino, di un Intuito Primordiale.

Le Mani non mentono, ripetevo a me stessa mentre l’Autobus imboccava l’Autostrada. Le mani non mentono. L’Istinto passa attraverso loro. Ascoltano, palpitano, traducono moti del cuore, segnali tangibili di stati d’animo sopiti, che, al primo vacillare della ragione, veicolano nascoste tensioni.

Distese di prati disegnavano davanti ai miei occhi paradisi bucolici di infinita bellezza. Forse è proprio questo, pensai, quello cui Kant alludeva quando parlava del suo “Sublime”. Un sole languido, con la sua struggente malinconia, avvolgeva tiepidi paesaggi di un pomeriggio di fine luglio. A pochi chilometri dalla corsa i passeggeri cominciarono a tirar le tendine per ripararsi dal bagliore. Fu così che anch’io sentii forte l’impulso di seguirli, di seguire gli altri, ma, stentavo e rimanevo immobile, come se ripararsi in quel momento significasse compiere chissà quale atroce delitto.

Mi girai e guardai intorno a me. Una signora distinta, dall’aspetto austero, era intenta ad aggiustarsi il sediolino; dopo inutili tentativi, decisi di aiutarla. Lei proruppe: << Era più facile di quanto credessi!>>. Poco dopo, aprì lo sportellino del cellulare con un lieve movimento del mento, e, con una certa affettazione nella voce, rassicurò la figlia del suo arrivo e della buona riuscita della missione lavorativa. Dietro una ragazza sembrava assorta nei suoi pensieri. C’erano poche persone che prendevano l’autobus a quell’ora. Davanti due tipi parlottavano animatamente. Infine, il conducente. Tarchiato, con aria arcigna, guidava con l’aria di chi sa il fatto suo, di chi ha percorso quei chilometri migliaia di volte. All’improvviso, una voce: <<Sicignano! Sicignano! Non ha fermato!>>; il conducente, infastidito, sbottò: <<MI sono dimenticato!>> Una mossa ardita sull’Autostrada lo convinse che era l’unica strategia attuabile in quel momento. Arrivati alla fermata il passeggero scese. Il conducente bofonchiò imprecazioni. Tutti tacquero. Dopo un po’ anch’egli estrasse il telefonino; il suo Bel Telefonino. Con aria boriosa e altisonante lo sentii parlare ai propri colleghi di turni e di tutta una serie di questioni perniciose che aveva dovuto affrontare nel corso della giornata. Ricordo che lo tirò fuori svariate volte dal taschino, componendo numeri, mentre con l’altra mano guidava, portandomi sull’orlo di una crisi di nervi per la sua condotta irresponsabile. Mi trincerai anch’io dietro le tende color cremisi; ma, con la mano, ogni tanto le spostavo e facevo capolino.

Come strideva quell’ampio panorama con l’agglomerato di case informi lasciate poco prima! Immaginai che anche laggiù, un tempo remoto, fosse stato il teatro di una natura incontaminata, aliena dalla furia distruttiva della mano dell’uomo. Allora vi erano stati pastori che pascolavano il proprio gregge, e, ovunque, si udiva risuonare l’eco di antichi misteri eleusini; sacerdoti praticavano l’arte dell’aruspicina, vittime sacrificali venivano immolate sugli altari odorosi di nettare d’ambrosia, e, si interpretava il volo degli uccelli per dedurne vaticini. Quando il Cielo sembrava avere un’altra densità, un’altra dimensione, e la Terra partecipava ai suoi moti. Quando strani esseri dalle sembianze caprine abitavano mondi sconosciuti e pur tuttavia comunicanti col nostro. Quando agli uomini venivan tributati onori cingendone il capo con corone d’alloro. Quando Eros scagliava dardi infuocati e i Lari erano consacrati a custodia dell’inviolabile focolare domestico. Quando a proteggere il raccolto presiedeva Cerere, coi suoi occulti artifizi, e la si invocava con orazioni per ottenere laute messi. Quando da lassù si udivano scagliar fulmini e saette, Adesso, che non si odono più!

La calura estiva e mille sensazioni si addensarono come caligine avvolgendo nella nebbia la mia mente, simile allo stordimento provocato dai fumi dell’oppio.

Eravamo quasi arrivati. Mi voltai e vidi la ragazza che prima giaceva immobile, assorta nei pensieri, cospargersi il viso con copiose pennellate di phard. Estrasse dalla borsetta mille trucchi e pailettes. Con la matita accingersi al rituale trattamento degli occhi. Ad un tratto diede un violento strattone alla tenda con la mano sinistra affinchè potesse penetrar meglio la luce ed illuminarle il viso riflesso nello specchio. Si scoprì il decolletè, sciolse i capelli, li spazzolò con cura, si rinfrescò le mani e il collo.

Eravamo in città. Pochi minuti e saremmo scesi tutti. Mi voltai un’ultima volta dalla sua parte; la vidi togliersi il giacchettino e indossare una piccola stola elegante intessuta di sottili rifiniture d’argento. Era finalmente pronta. Mi sembrò di intravedere un lieve sorriso di compiacimento dipingersi sul suo volto mentre si aggiustava la stoletta e rimediava agli ultimi accorgimenti.

Corsa terminata. Finalmente a casa. Prendo le poche cose che ho e mi accingo a scendere. Dò un ultimo sguardo al conducente mentre i miei occhi incontrano le sue Mani. Tremano.