CARNEVALE 2004

Febbraio. Non capisco perché ci siamo separati dopo trent’anni di matrimonio. Alti e bassi, come nella maggior parte delle unioni. Proprio non capisco.
Mi mancano otto mesi alla pensione, avremmo potuto viaggiare come piaceva a lei, andare al mare in inverno come piace a me, le figlie sono grandi, fuori di casa, con la loro vita, i loro compagni.
Mi pare che lei non abbia un’altra persona e tanto meno io. Non è un problema di corna.
E’ assurdo dire stanchezza e banale dire litigiosità.
E gli altri allora, perché non si separano: Berto, Giulia, Rino e Mauro con quella vita dissoluta che fa, perché la moglie non gli da una pedata nel culo? Bella donna, tra l’altro.
Non ho risposte da darmi, solo dubbi, cercare delle colpe nel passato, capire questa escalation di dissapori, disaccordi, incomprensioni, mi è impossibile.
In ufficio non faccio più nulla, sono a disposizione della Direzione Affari, senza incarichi, un soft mobbing forse dovuto al fatto che mi rifiuto di collocare alla clientela quei prodotti che considero merda o più propriamente furti legalizzati.
Oppure un trasferimento dovuto agli appoggi del mio sostituto, appoggi, dicono, dell’Opus Dei o comunque del Clero Nero.
Forse al fatto che mi manca poco per andare in pensione.
Forse tali cause si sono combinate.
Comunque una gran botta nei denti senza anestesia.
Sto sclerando perché penso sempre più al mio fallimento, sia nella vita affettiva, che nella vita professionale oramai giunta alla fine.
E’ duro far passare le giornate sempre con questi assilli ed è triste tornare a casa e non trovare nessuno.
Dormire da solo in un grande letto.
Mangiare da solo come un randagio. Per fortuna una pasta me la so fare.
Non so cosa potrei fare in pensione.
Amici? Quattro sfigati di cui tre di estrema destra, gente che non legge, laureati, dottori ma ignoranti come una sardina.
Addirittura uno di questi, dottore commercialista, non sa chi sia Eco, ” lo credi un suono sparso nell’aria? Per forza poi voti il Mona!”
Ho deciso di prendermi una giornata di ferie per vedere i carri del carnevale.
Quanto tempo! Ricordo che portavo le bimbe piccoli mascherate da damina e da indiana, io avevo il cappotto militare verde ed il colbacco nero con lo stemma CCCP e i baffoni finti alla Stalin.
Sono in Corso Portoni Borsari e aspetto di veder passare la sfilata delle prime maschere e i primi carri allegorici.
Fa un freddo boia malgrado il cappottone regalatomi da mia madre dieci anni prima, il berretto, i guanti e i doppi calzettoni di lana di cui uno bucato, ma non penso che il freddo passi da lì e sicuramente non dovrò togliermeli per ipotetiche sveltine. Magari!
Ma la sfilata è in ritardo. Come al solito.
Penso di tornarmene a casa e comodamente vederla in tv in uno dei canali locali che chiamo con dileggio Telarina e Televecio.
Ho chiesto un giorno di ferie proprio per vedere le maschere.
Resistere, resistere , resistere! Come dice Saverio.
Finalmente le majorettes. Sono delle bimbette piccole, assomigliano più a delle minorettes. Devono aver un freddo boia quando si fermano, con le loro gambettine magre e qualche stoffa intorno.
Poi passano quelle più grandi, alcune salvabili, comunque minorenni.
Ecco il Duca della Pignata e la sua corte. Lo conosco ed infatti mi saluta. Urlo: “Franco, voti sempre a manca?”. Un sorriso e mi tira una caramella. Presa al volo, sento che è gommosa e la regalo ad una bimba vicino a me con la sua splendida mamma.
Il corteo avanza ma, tra un gruppo di maschere e l’altro, mi impressiona il fisico stratosferico della mamma della bimba e, mentre pecco e ripecco sognando ad occhi aperti, arriva un gruppo di maschere sfuse, non rappresentano gruppi particolari, paesi o borghi o rioni.
Sono mascherate tutte in modo diverso, probabilmente una masnada di buontemponi unitisi abusivamente alla sfilata.
Sfilata? E’ talmente scarsa e mal organizzata che mi sembra più una sfigata.
Dal gruppo chiassoso che avanza si stacca una maschera vestita da streghetta, si avvicina, mi guarda e sorride.
Piano si avvicina ancora e, con un veloce scatto, mi bacia castamente sulla bocca lasciandomi però lo stampo del rossetto, probabilmente uguale al colore del mio volto per l’imbarazzo e la sorpresa.
“Ehi, chi sei?” ed ancora mentre lei si allontana e rientra nel gruppo mascherato “Ehi, bellissima maschera ….” Quella si volta e sorridendo mi manda un bacio senza dire una parola.
Assurdo rincorrerla anche perché la mamma della bimba mi guarda: “Bella fortuna, ma davvero non la conosce?” “Forse il profumo non mi è nuovo” e poi inventando spudoratamente “Assomiglia al suo”.
Vecchio cretino d’un pappagallo di infimo ordine.
Mi sento rispondere: “Non uso profumi di sorta!”. Servito! Nessuna chance.
Figura di merda , peggio di quella che vogliono farmi vendere.
Avvilito per una serie di motivi saluto la bimba, faccio un cenno alla sua mamma che contraccambia con un sorriso stereotipato, rien a faire, e cambio posto.
La sfilata procede lenta come il tempo che mi rimane alla pensione. Tempo che non serve a nulla, solo ad accumulare amarezza.
Ma chi è quella maschera che mi ha baciato? Aveva degli occhi bellissimi. Chi avrebbe potuto essere? In questi tempi di magra assoluta a maggior ragione continuo a pensarci, malgrado il volume alto della televisione.
Con questi dubbi esistenziali mi addormento sul divano alle nove e mezzo di sera dopo aver mangiato un toast bruciacchiato con l’odiato, antico prosciutto cotto, una fettina talmente fine che se l’avessi lanciata in aria avrebbe sfidato la legge di gravità e sarebbe scesa svolazzando dopo un quarto d’ora.
Squillo del telefono. Mi sveglio e al terzo rispondo “Casa di Cura Villa Monga”, scherzo che faccio spesso quando mi girano i cabasizi, direbbe Montalbano.
Dopo un attimo di silenzio dall’altra parte del filo una risata e poi “Che bello che eri alla sfilata e chi era quella donna che ti guardava e aveva accanto una bimba bionda? Magari è tua. Sei sempre il solito dongiovanni! Sono la zia Anna.”
Un trapano che buca i sogni, un ciclone che spazza le speranze, una pastasciutta con il ragù di anguria.
No, non può essere!
La streghetta era lei.
Mi suicido.
E’ giunta l’ora, anche perché in televisione fanno un film con Jerry Calà.
Come farlo? Mi butto dalla finestra? Sono al piano rialzato, probabilmente mi rompo solo una gamba, neanche, forse qualche sbucciatura.
Bevo l’acido che la donna delle pulizie usa per i water? Pensa alle risate che ci fanno domani i miei amici tra i quali passo per un raffinato intenditore di vini.
Inghiottisco tutti i farmaci che ci sono nell’armadietto! Penso al tubo della lavanda gastrica infilato in gola che mi salva e i giornali del giorno e poi i commenti impietosi delle colleghe d’ufficio.
Allora, che fare? Si chiederebbe Lenin o Mao, no Mao sapeva sempre cosa fare.
Dopo un minuto scarso, prevale il grande, l’impareggiabile, lo stimato l’inconfondibile spirito di conservazione.
Mi apro un prosecchino, spaghettoni aglio, olio, peperoncino, prezzemolo e pangrattato, spolveratona di grana, in assenza del pecorino, metto un dvd e guardo per la quarta volta della mia vita “Balla coi lupi”.
Che film! I nostri si salvano!
Allora anch’io!
Ci penso domani a quella roba là!