Mille Anni

La guardò.
Erano passati mille anni dall’ultima volta che quegli occhi color del mare avevano incontrato i suoi. Mille anni, eppure erano proprio gli occhi l’unica cosa cambiata nel suo corpo immortale. In essi ora si leggeva una saggezza e una consapevolezza più profonda di quanto ricordasse. Erano gli occhi di chi ha vissuto troppo.
L’espressione che aveva lo colpì nel profondo: di dolore, di infinita tristezza. Lo guardava, ma pareva soffrire nel farlo. Rimaneva lì, le braccia inerti lungo i fianchi.
Fu questo a trattenerlo dal correrle incontro, dal parlarle, dal dirle quanto gli fosse mancata, dal prendere la sua mano tra le proprie, dal baciarle dolcemente le labbra.
Il viso di lei si fece più cupo, vedendolo indugiare. Mosse le labbra, ma non ne uscì alcun suono.
Capì, anche lui capì.
Se la donna avesse potuto piangere, lui lo sapeva, calde lacrime avrebbero rigato le sue guance mentre protendeva la candida mano verso di lui, nel disperato bisogno di saperlo reale, di sentire il suo calore.
Lui, tremante, allungò la sua, dura e forte, per poterla anche solo sfiorare.
Le dita tese toccarono l’aria e ricaddero attraverso l’immagine di lei.
Non era lì. Non c’era mai stata.
Lui vide l’espressione di lei farsi sempre più disperata, mentre gli occhi profondi cercavano qualcosa che non potevano più vedere. Si rese conto che non poteva più vederlo.
Sgomento vide la donna, che mai aveva perduto la forza, cadere in ginocchio, sopraffatta dal peso del proprio dolore, le mani coprivano il volto in un disperato pianto senza lacrime.
Se lui avesse ancora avuto un cuore mortale, questo si sarebbe fermato nel guardarla così, mentre anche l’immagine di lei sbiadiva lentamente.


Vorrei chiamarti per nome, soldato.

Silenzio. Silenzio che assorda i soldati.
Il mondo pare essersi fermato: nessun leggero refolo di vento muove le giovani foglie sui rami degli alberi; il sole, che pochi istanti prima pareva essere sul punto di levarsi da dietro al monte, ancora spruzzato di neve, tarda a comparire, come se si rifiutasse di sorgere su quel luogo, come se avvertisse ciò che, da un momento all’altro, succederà in quel luogo. Persino i respiri dei soldati, affannati o calmi, paiono essersi spenti, facendo assomigliare gli uomini a tante statue di ferro e sangue.
Le gelide dita dei soldati sono immobili sui grilletti dei fucili, carichi e impazienti di privare gli uomini del diritto più grande. Le braccia dei generali, però, sono alzate, e impediscono alle pallottole smaniose di conquistare il sangue del nemico, di schizzare nella fredda aria mattutina; non danno cenno di volersi abbassare.
I tumultuosi pensieri che avevano tormentato la notte dei soldati, la paura, l’indecisione, il desiderio, il rimorso, si sono tutti spenti, come se nelle menti dei soldati non esistesse più nulla all’infuori di quel dito teso sul grilletto, come se non fossero più in grado di pensare, come se si fossero trasformati in macchine nella notte assassina: non sono altro che vittime sacrificali, offerte a un dio che, in questo momento, sta sicuramente guardando da un’altra parte.
I due eserciti si fronteggiano: ogni soldato squadra il suo nemico, che gli pare così distante, lo odia, lo crede inumano, folle e assassino. Non immagina che, dall’altra parte della scacchiera, agli occhi del suo nemico è visto nello stesso modo.
Nessuno, tuttavia, pensa che il nemico sia uguale a lui, nella mente di nessuno si è formato un pensiero di solidarietà, di pena, poiché in questa pianura, preparata per la battaglia, non ci sono più menti! Ci sono solo macchine programmate a uccidere. È stato spiegato loro che devono solo sparare, uccidere. Nessun pensiero, nessuna paura, nessuna pena.

Due eserciti. Ottomila soldati.
Così scriveranno nei libri di storia. Ottomila soldati. Ottomila macchine. Nessuno racconterà mai che erano ottomila persone. Ottomila vite! Ottomila nomi! Ottomila storie! Nessuno vi parlerà mai di ottomila uomini, poiché non ce n’è alcuno in questa pianura, solo freddi involucri pronti a uccidere. Che cosa sono? Sono solo dei numeri. Non esistono.
Sono morti che uccideranno morti.

Nessuno sa cosa sia successo, ma all’improvviso le braccia dei generali si sono abbassate e i grilletti sono stati premuti.
Ma perché c’è ancora tanto silenzio? Urla! Scoppi! Tonfi! Boati! O forse è solo il rumore del vento che soffia tra le foglie?
Il soldato spara, carica e spara ancora, sordo. Corre, si abbassa, schifa e spara. Sordo. Si guarda intorno, cercando un compagno o un nemico? Che cosa cerchi, soldato? Stringi con forza il tuo fucile.
Forza, soldato, uccidi e conquista la gloria di cui ti hanno parlato! Non sai che sarai ricordato come un numero, sei solo una macchina, l’agnello nel giorno di Pasqua.
Ti fermi. Lo vedi. Quello che stavi cercando senza saperlo. Anche lui ti vede. Vi guardate negli occhi per un infinito istante. Sai cosa devi fare, come lo sa lui. Il Destino vi ha condotti qui, in questo momento. Sai che devi compiere ciò che è stato scritto.
Un colpo.
Un colpo che squarcia il silenzio. Per la prima volta senti qualcosa in questo silenzio di fuoco e metallo. Chi ha sparato? Tu, o il tuo nemico? Non ti importa, poiché ti accorgi di essere a terra. Quando ci sei arrivato? Non ti importa nemmeno questo.
Le tue dita tremanti sfiorano il petto e le guardi stupito, macchiate di rosso. Perché non senti dolore?
Non senti più niente. Sei solo.
Qual è il tuo nome, soldato? La tua storia? Cosa ti ha portato qui in questo momento? Vorrei chiamarti per nome, soldato, mentre esali i tuoi ultimi respiri, mentre il tuo cuore pompa ancora una volta il sangue, stancamente, ma non hai più un nome. Hai solo un ordine, un fucile e una pallottola nel petto. Un nome no, non ci stava tra i tuoi effetti personali quando hai deciso di partire. Lo hai lasciato là, in quella patria lontana, lo hai dimenticato. Tu ti chiami “soldato”.
Sdraiato tra il fango e il sangue, il morto si ricorda di essere vivo, di essere un uomo, di poter pensare, ma ormai è troppo tardi per trarne vantaggio, perché hai una pallottola nel petto e sei stanco.
Lo hai visto, soldato, che il sole è sorto? Lo senti, ora, il vento che soffia tra gli alberi?
Ascolti gli ultimi respiri dell’uomo accanto a te e ti senti uguale a lui, eppure non vedi il colore della sua divisa.
Muori, soldato, la guerra è finita!
Chiudi i tuoi occhi stanchi, svegliati da questo incubo.
Riposa, vittima senza nome e senza storia di una guerra degli dei, perché gli dei combatteranno ancora, ma per te la guerra è finita. Hai vinto.


Amante di carta

Un sussurro, un richiamo.

Un eco che porta lontano,
Che ti chiama a se, dolcemente.

Non puoi resistere a lungo:
Il richiamo s’arresta e riparte,
Più forte, più chiaro.

È insistente la voce d’inchiostro,
Crudele il padrone di carta,
Son schiava delle parole,
Serva di carta stampata.

Cedi e il sussurro s’arresta.
E riparte più dolce, più lieve.
Un amante, un amico.

Il libro, amante volubile, padrone
Crudele, ti chiama a se con voce
Suadente. Non puoi contrastare il volere
Dell’anima ormai dipendente.

E ti chiama il leggero fruscio
Della carta, t’incanta il nero
Nel bianco abbagliante.

Quante promesse l’odore invitante,
Odore inebriante.

È più dell’odore di carta.
È più dell’odore d’inchiostro.
È l’odore del languido amante
E della sua muta promessa.

Promessa di un mondo diverso,
Di un altro universo.

Un luogo di carta e parole,
Di guerra, di pace, di amore.
Un luogo dove l’inchiostro è la
Voce, la carta è la pelle,
Il libro è reale, tu inesistente.

Padrone di carta e d’inchiostro,
Son schiava di carne e di sangue
E attendo da te un conforto, un aiuto.

Son schiava per mia volontà,
rinnegata dalla realtà.

Oh, amante crudele di carta!
Ridammi la mia libertà,
la mia volontà, rivoglio
la vera realtà!

Liberatemi catene invisibili,
lasciatemi stare parole,
rivoglio la vita, rivoglio la luce del sole!

Rinnego la carta e l’inchiostro,
amante, amico, mostro,
innocente colpevole della mia
devozione: ossessione.

Rinnego l’amore, l’aiuto
Rinnego ciò che mi hai dato, insegnato.
Inconscio mi hai intrappolato
E liberarmi non puoi, maledetto.

Oh libro, dolce diletto
Sto urlando di disperazione,
imprigionata dalla mia stessa passione
che rinnego, sì, la rinnego!

Eppure altre mille volte cadrei
Ancora nella tua rete di parole,
A niente servirebbe ricominciare da capo
A dimenticare il tuo amore:

Mille volte rifarei il primo errore!

Non ripetere oltre il richiamo,
Non posso resistere ancora.
Taci amante d’inchiostro.

Vincete parole una volta ancora
Sulla mia ragione, la mia rivolta.
Mi arrendo al quel flebile sole
Che sboccia nella mia mente.

Ritorno da te, amico,
Amante, fratello.
Son pronta, riprendo il fardello
Di questo amore profondo.

Sarò sola in tua compagnia,
Riprendo la mia follia,
Cedo come mille prima di me,
Cedo e torno da te.

Chiara Di Napoli