Ameni suicidi in controluce

Piove

nell’impavida iridescenza di un doppiere

ti discerno

ameni suicidi in controluce

ed è come se tutto si annebbiasse

le frescure accondiscendessero al nulla

nel traslucido contorno

ogni alacrità serpeggia

vibra

inebetisce stentorea

caotica

apro gli occhi

fulgenti larve

e quelle asserzioni

antropofagi nelle stelle

fugate per sempre

nell’angustia di un solipsismo

nell’incapacità di amare

due sagome che si conglobano

per poco

un mielato tocco di lepidottero

pleonastica solitudine invitata

tremo

malata

debellata

in narcisistiche vedute teoriche

brandelli

abominazioni

come tempeste visive incluse nel passato

sulfamidici inetti

nella persuasa adulterazione

ultimata mondana schizoide


 

RAVENSBRUCK

Le membra scarne emanano rantoli automatici

nel piazzale dell’adunata

tiritere ossesse intonacate

dipartimenti impollinati

note dissuase dall’ ingenuità

stuccate

in un alba agghiacciante

uomini e donne

a scatti

perfezionano la propria riga

vitale

zoccoli di deceduti allineati

lorde omogenee

una compagnia uniforme

una macchia indistinta

confezionata da numeri

che accludono un codice a barre non convertibile

anime bolliate

in una vetrina stillante sangue

manichini non compiacenti

anoressici

spettri viventi farfugliano idiomi arcani

in una lotta ancestrale

assenti

come lobotomizzati

gestiscono la miseria del nulla

in mani scheletriche

nel sempiterno pigiama a righe

mentre un bimbo

accecato dall’incomprensione

cammina esanime

nell’inferno freddo

appetendo solamente

un’elemosina d’amore

tende il suo sguardo

centellina la paura

mentre liquami incontenibili

deturpano la sua decenza

mentre crampi

sventrano la ragione

la stabilità

mentre la pioggia acida

decolora il visino assente

un affresco di recente creazione

smantellato dalla barbarie

da un piano

minuziosamente strutturato

geometricamente soddisfacente

scruta con perizia le manine

le linee delle palme

irripetibili

suppurate dalla lordura

dalla ricerca di sussistenza

dalla roccia

dal legno

quelle teneri carni

avrebbero dovuto conoscere

solamente

la mollezza della tenerezza

il profumo dorato del mattino

l’ebbrezza dell’incoscienza

il perimetro assolato della madre

nel profilo di una feritoia

mentre tende con fervente armonia

le braccia

le mani

il munifico andare di un’altalena

che dissoda il cielo

per un attimo

per poi circunnavigare la terra

nello sbalzo arioso del momento

percependo il ferro

nella sua mente metallica

redentrice

presentendo la libertà nella sua ratificata costituzione

la verginità della non conoscenza

dell’immondo

del giudizio universale

scalpellato nel tangibile

i piedini scalzi solcano terre gorgoglianti d’odio

radure artefatte dal filo spinato

dormitori nauseabondi

ove non si è più uomini

solo pupazzi

manovrati da mostri corporei ed impeccabili

che denigrano appesantiti

altezzosi

i loro simili

autorevoli di un’ ideologia

superlativa

depravata

tremendamente umana


 

La tangibilità e il suo doppio

In un mesta e ignava mattina di settembre

le membra

incrinate

falcidiate

Dies irae

riedificano

sulle fondamenta

stabili fantasma

agghiaccianti lastre dell’ 800

immote

decadenti

istantanee

epitaffi

di un tempo librato

immortalato nell’agonia della decomposizione

abietto plumbeo

silenzio

saporosità di detriti

trincea metafisica

polvere

svaporano come un tizzo arso

al fuoco del falò

congiuntamente

al piano regolatore dell’ignominia

alla giunta Comunale dell’ eccidio

blasonate icone dal rigore perfetto

svettano boriose

e scorgo con maraviglia infante

il palazzo degli Strozzi in via degli Anselmi al numero 5

l’arme quattrocentesca

Il loggiato michelozziano

le foglie di loto arricciate

le orbite baluginano prillando su stesse

indugianti

come quando il sogno

avviluppa febbricitante

ti buschera come un ciurmatore

nella finitezza dei sensi

non facendoti svellere l’artifizio

la Loggia del Pesce in Piazza del Mercato Vecchio

nuovamente

inesauribilmente avviticchiata

dal clamore

delle genti

che vendono eletti

dall’oratoria popolare

le cibarie salubri

gli stridenti falsetti delle massaie

i profumi puri

pungenti

delle merci colte

introdotte dal circondario

in un fermo immagine bofonchiante

di aromi

che si incuneano fieri nelle narici vergini

di un vissuto agevolmente autentico

le ceste selettive

sfregano nella musicalità popolana

treppiedi della mensa

altalenano palleggiati

dall’armonia sincopata delle vesti

a tratti logore

a tratti ricercate

delle femminee effigi

concentriche nell’incarico dovuto

la colonna dell’Abbondanza

dispiega una variopinta concatenazione di volti

curvi

sudati

rattrappiti

poveri e nerboruti

nell’incesto esistenziale

pennellate di Telemaco Signorini

interpolano rilucenti la realtà aizzata

nell’ interposizione dei due mondi contigui

come se la Firenze perduta avesse perpetuato la sua marcia

in una realtà parallela e disperata

l’estremo baluardo del ricordo arso dall’ignoranza del profitto

come un’eruzione

l’isolato del ghetto

tra via dell’Arcivescovado

Piazza dell Olio

Via dei Naccaioli

Via della Nave

si palesa tatuato dall’ anelito

di riconsegnare

ogni palpito distruttivo

aereo

di quella vita ghigliottinata

paventata miseramente

solamente nel suo squallore

rimessa all’asettica

quadratura insulsa

in vicolo dei Teri

le dimore includenti il calidario delle Terme romane

al flusso malinconico di un fotogramma a rallentatore

sbocciano

mentre le palme cupide del vento zufolano

nelle cantonate rigenerate

mollandosi

ritmiche

all’accrescersi del passato che risorge

giganteggio

come in un carnevale improvvisato

dal trucco trucido sbavato

in via della Pellicceria

fra Piazza del Mercato e via S Miniato fra le Torri

fra le antica case dei Malegonnelle

reperisco mirando dal basso

un’implosione surrealista

la visuale prospettica

concentra

in un diagramma mentale

le argute credenziali

di una forma sobria ancestrale

rigori pirotecnici in geometrie divine

mentre i ruderi dell’eterna potenza romana

trasudano parole compresse dall’incuria

baccani tratteggiati

livree candide all’arsura del tempo

in Piazza S. Giovanni

il palazzo arcivescovile

nobilmente attiguo nel suo impianto medioevale

all’Altissimo battistero

la facciata dosiana con l’antica torre dei Visdomini

irrora un olezzo disperso

tasto socchiudendo le palpebre intermittenti

come le ali di un passerotto prossimo alle acque spumeggianti