Le ore del pane
di Chiara Leone

Il pane ci metteva ore e ore a lievitare. Eveline sapeva che non doveva alzare il panno che lo copriva per non bloccare la lievitazione, anche se avrebbe tanto voluto affondare le piccole dita in quell’impasto soffice e elastico. Quando poi il pane era cotto Eveline stentava a credere che quella crosta croccante e spaccata fosse la stessa superficie appiccicosa che lei e la mamma avevano impastato. Era così bello fare delle cose insieme a lei, le rare volte che era a casa. Da un po’ la mamma era così assente. Da quel giorno terribile dell’ambulanza. Il giorno in cui avevano portato via Daniel col viso insanguinato.
Eveline scrutava il volto della madre: coglieva la preoccupazione nei lineamenti tesi, ma la dolcezza che leggeva nei suoi occhi era la prova che le voleva bene. Eppure ogni volta che la mamma ripartiva per quel maledetto ospedale l’assaliva la paura che la odiasse per quello che era successo.
Eveline non aveva mai osato chiedere come stesse Daniel. Aveva paura di saperlo. Ma un giorno da un discorso tra i grandi le era sembrato di capire che c’erano buone speranze. Non avrebbe perso l’occhio. Sarebbe stato operato e avrebbe potuto vedere, magari portando degli occhiali spessi.
Il sollievo di quella notizia aveva spazzato via la cappa di angoscia che incombeva da giorni su di lei e le aveva riportato una ventata di buonumore. La mamma rideva mentre le legava i capelli con gli elastici nuovi, quelli coi pupazzetti, prima di accompagnarla allo scuolabus. E perfino il papà, sempre così serio, quel giorno faceva battute.
Ma nel cuore di Eveline c’era un’ombra scura che non voleva andarsene. Per trent’anni avrebbe custodito quel segreto. Le cose erano andate un po’ diversamente da come le aveva raccontate: era stata lei a ferire suo fratello con la stecca dell’ombrello, mentre giocavano ai Tre Moschettieri. Non un altro e non un caso. Lei.


Due Madri
di Chiara Leone

Leah pensa al suo Ytzhak. Non le ha mai dato un problema quel ragazzo. E’ stato un bambino ubbidiente, uno scolaro modello, un figlio affettuoso. Non l’ha mai fatta sgolare per rientrare dai suoi giochi; non si è mai tirato indietro se serviva una mano; non l’ha mai messa in imbarazzo di fronte ai professori che per lui hanno sempre avuto solo parole belle. Se ne era andato in divisa, capelli a zero. Se ne era andato senza rimpianto, senza dubbi, senza domande. Era il suo turno, la Patria chiamava.
Pensa anche a come l’hanno portato al fronte, buttato in fondo al camion come un pacco senza indirizzo. Sa ingoiare le umiliazioni Ytzhak. Sarà un buon soldato.
Il cuore di Leah si dibatte tra orgoglio e paura. Sa che la forza interiore di questo figlio generoso scaturisce dall’amore con cui l’ha nutrito, senza riserve. Ma teme anche i rischi che corre, consapevole che non è nella sua indole tirarsi indietro.
Ma cosa le lacererà l’anima Leah non l’immagina ancora.

Checkpoint 56. I militari sono tesi. Dal mattino i raccoglitori di olive hanno inscenato proteste. C’è stato chi ha lanciato qualche sasso. Un ragazzo. E’ stato arrestato. Il posto di blocco è stato chiuso. Come le altre volte gli insegnanti di Tel Rumeida cui è stato vietato il passaggio hanno svolto le lezioni in strada. C’è fermento, rabbia.
Perché quel ragazzo non si ferma? E cos’ha in mano?
Il soldato Ytzhak è lì per compiere il suo dovere, mantenere l’ordine.
Maledizione cos’ha in mano quel pezzo di merda? E’ a duecento metri, sta camminando a passo svelto lungo Shuhada Street, viene verso il posto di blocco. Cosa cazzo ha in mano?
Il soldato Ytzhak ha sangue freddo. Valuta, ragiona prima di sparare, non si fa prendere dal panico. Cosa cazzo ha in mano quel ragazzo? E dove corre?
Spara il soldato Ytzhak, è il suo dovere. Un colpo solo. Ha buona mira.
Un pesce. Quello stronzo aveva in mano un pesce, avvolto in un cartoccio. Merda. Diremo che aveva una pistola giocattolo.

E’ strano il suo Ytzhak questa sera al telefono, un po’ più evasivo. E’ nei buchi tra le parole che una madre capisce.
Il tigì riporta le notizie. Ragazzo di quattordici anni ucciso al Checkpoint 56, correva con una pistola giocattolo in mano.
La telecamera indugia sul viso della madre, stravolto in una smorfia di dolore. Leah non può sbagliarsi, quel viso è quello della pescivendola di Shuhada Street. Il dolore di quella donna è il suo dolore. Deve andare.

Non ha più lacrime Farida. Il cuore è un grumo nero. Si sono stretti in tanti intorno a lei. Chi bussa ancora alla sua porta? Una donna? Elegante, capo scoperto, capelli sciolti. Non è araba. E’ ebrea.
Le due donne rimangono in silenzio. E si consegnano a un’intesa profonda, in un muto dialogo di madri.


Foto
di Chiara Leone

La prima volta che sono scappato di casa non pensavo che mi venissero a cercare. Non so perché mia madre abbia chiamato la Polizia, dato che non gliene è mai fregato un cazzo di me. Comunque mi hanno trovato due poliziotte. Non è che ci volesse un genio, non ero neanche nascosto bene. Ero lì, in riva al lago, coi piedi penzoloni. Dalla strada non mi si vedeva, ma bastava affacciarsi sul vecchio ricovero delle barche. Poteva almeno venire lei a cercarmi, anziché mandare quelle fottute poliziotte.
A casa, poi, me ne ha date un sacco: doveva essersi presa una bella paura. Che soddisfazione! Che poi non è servita a niente perché la sera stessa hanno ricominciato a litigare. Non so perché i miei si fossero rimessi insieme. Si erano già separati quando ero piccolo, ma a quell’epoca erano tornati insieme. Forse solo per litigare.
Mia sorella, per non sentirli, si chiudeva in camera sua con la musica a palla.
Io a casa non ci resistevo, così ho cominciato a scappare. E dopo un po’ hanno smesso di venirmi a cercare. È stato lì che ho cominciato a rubacchiare.
Sembrerà scemo ma è una figata. Prima sudi, sei teso, hai paura. Poi, quando ce l’hai fatta, ti senti un grande. Certa roba si vendeva anche bene, ma non era quello il motivo per cui rubavo. Rubavo per l’eccitazione. Prendevo un motorino, andavo fin dove mi portava il carburante e poi l’abbandonavo. Tornavo in autostop e mi sentivo meglio.
Rubare era diventata una droga, una sfida con me stesso. Entrare in un supermercato, nascondere un oggetto qualunque nel giubbotto, far suonare l’allarme e darmela a gambe. La merce l’abbandonavo appena fuori dal negozio.
Quante volte mi hanno preso, malmenato, portato in caserma. Faceva parte del gioco. Una volta la fai franca; una volta vieni beccato.
La droga, quella vera, l’ho conosciuta poco più tardi. All’inizio è la risposta a tutti i tuoi problemi, poi vivi per lei e non sai più qual è il problema e quale la soluzione.
Ho perso il conto di quante volte sono entrato e uscito dal carcere. Quando sei recidivo, ti sbattono dentro anche per la minima cazzata.
Mi manca mia madre.
I secondini sono bastardi.
Quando hai il colloquio, ti fanno perder tempo con delle scuse e ti lasciano andare solo quando il tempo sta per scadere. E quel tempo serve solo a sentirti dire cosa ho fatto di male per meritarmi un figlio di merda come te. Come me.
Mia madre.
E pensare che non ho neanche una sua foto, in cella.