Il calice

Null’altro s’aspettava
se non tassel mancante
che da tempo acclamava.

La vide e poi gli parve
di esser giunto a conoscenza
che l’amor che in lui ferveva
rievocasse arborescenza.

Corpo a corpo in un abbraccio
in un battezzo d’effusioni
in un sostegno d’avambraccio

E quella mano tesa
d’allora, poi per sempre
a ricordare che il sangue
perdona anche l’offesa.

Come l’ultima inflitta
che nel perder terreno,
chinato alla sconfitta
non tornasse più sereno.

In mente tante pagine,
ma una sol copertina:
levata come un calice
la sua chiara bambina.


Racconto di una notte

Respiro a fondo per non impazzire,
per tender trappola a quella quiete
che sfuggente non si lascia inibire.

Come quando il corpo insorge d’improvviso,
come un brusco singhiozzo
che non ti lascerà, né con un colpo deciso
né con l’acqua al gargarozzo.

Come quando il tempo porta via la tua bellezza
e di fronte allo specchio, il più critico degli esegeti,
ti riempie d’amarezza.

Gli occhi neri come il buio che fronteggia:
quei due lumi che non vogliono serrarsi
neanche quando a mezzodì il ciel biancheggia.

I polmoni, pesanti, come di gesso coperti
come se ci fosse un calco che t’impedisca il respiro;
prendi fiato, ma in realtà, in te sono già morti;

come fossero i tuoi sogni più vitali
e li avessero scolpiti per renderli corporei:
puoi toccarli ma non sono poi reali.

E tu che per assurdo
ti chiedi perché vegli.

Come se il tuo domani fosse già dietro l’angolo
e tu vivi l’apprensione che ti colga sprovveduto.
Ma sarà orgoglio altrui quel temibile crepuscolo:
celerà tale follia che ti ha sempre dominato.

Come quando ami qualcuno: gli offriresti le tue ossa,
vorresti lo sapesse
ma lui è troppo lontano,
non sente i tuoi pensieri
figurarsi il tuo respiro.


Ali di colomba spezzate

Eppur nessun sapeva,
eppur nessun capiva,
eppur nessun chiedeva.

Come se lei gioisse,
ma dentro logorava:
le aveva crocifisse
con china, sangue e bava.

Quelle sue sensazioni
e l’istinto passionale
amor trascendentale
saturo d’abrasioni.

Un male ormai diffuso:
suo perché lo sentiva,
suo perché rifrangeva
su chi ferito era,
su chi ferito aveva.

La testa suggeriva:
“è un baule inumato”.
Il cuore ribatteva:
“sei tu che l’hai bramato”.

E poi tra le sue carni
come fosse sul suo grembo,
a dimenticar gli inverni,
a rispolverarne il legno.

Ma tra le buie stagioni,
primavere ed estati
e il legno ormai era marcio
e il baule non più il suo.

Restituirlo alla terra,
sperare che lo inghiotta
e con la sua chitarra
cantar che più ci sbatta.

All’improvviso s’apre:
colombe a ali spezzate.

E la man che la guida
alla penna del silenzio,
lanciandole una sfida:
mai più sarò piegata.