Come pietra

come pietra levigata dalle onde del mare,
come neve bianca che si posa leggiadra sui rami,
come raggi del sole che trapassano fitte boscaglie,
è la mia vita.
Con la pietra ne faccio un diamante,
con la neve disseto la mia remota arsura,
con i raggi del sole illumino il mio cammino.


Uomo di guerra

Guerra,
ma quanta guerra hai dentro?
Corri, scappi e ti dimeni,
poi scivoli negli sprechi.
Fai le lotte con i deboli,
spezzi i loro cuori e ti diverti.
Quanto povero tu sei,
arido e secco è il tuo mantello,
argilla tu sei.
Tu che tieni dal manico il coltello,
sghignazzi tutto contento,
e come un’artista sulla scena,
reciti fino in fondo la tua parte,
aspettando anche chi ti applaude.
Cos’è questa guerra,
che ti passa per la mente,
dove credi di arrivare, deficiente.
Sei ricco, sei potente,
hai sparso sangue, ingiustamente.
Se non sarà oggi, sarà domani,
un pugno di mosche in mano, tu avrai.
Il tempo passa e con lui,
le tue feste: canti, balli, cene,
sulle spalle della gente.
Uomo di guerra,
devi sapere
che sulla faccia della terra,
ci sono uomini, come te,
di pace, e non di guerra.
Si alzano ogni mattino,
per portare con sudore della fronte
il pane al proprio bambino.
Mentre tu, povero ingordo e cieco,
uomo di guerra,
pensi di averla fatta franca,
ma non ti accorgi che sei già nella melma.
Certamente dirai:
embè? sì! Adesso io vivo,
alla faccia tua, e mi fai da zerbino.
Tanto si muore, che sto a pensare,
io sono potente, e tu stai a guardare.
E mentre tu dirai queste parole,
hai già la mano sulla fronte,
del nostro Signore.
Ti farà contento, non temere,
magari morirai beato e sereno.
Hai soddisfatto tutte le tue voglie,
hai cibato bene le tue amare spoglie.
Uomo di guerra,
non cantare vittoria,
io nella vita ho preferito la gloria,
quella di Dio, nostro Signore,
nutrendomi di amore, di gioie,
e di giuste parole.
Porgo la mano all’uomo che piange,
son senza denaro, mi dispiace.
Offro il mio cuore, la cosa più bella,
la ricchezza a te, uomo di guerra.
Tu, dirai ancora: non sono mai morto,
chi me lo dice, se ci sarà un ritorno.
Mi godo la vita, facendo del torto,
chi se ne importa, io sono un mostro,
in questo pugno io tengo il mondo.
Stupido uomo, come fai a non capire,
neanche io son morto, eppure ti dico:
non ti accorgi quanto sia perfetto
il nostro mondo, il nostro firmamento.
Anche tu, saresti perfetto
se usassi di più quel tuo povero cervello.
Svegliati! Uomo di guerra,
Dio ti ha creato e tu hai fatto una scelta,
hai preferito il male, alla bellezza.
Metti un punto a questa tua vita,
perché domani non sarà finita.
Quando la morte in faccia ti grida,
è proprio lì che incomincia la vita.


In ricordo di Candida

Dieci minuti alle quattro del mattino. Non riesco a dormire. Mi sono svegliata di soprassalto da un rumore, il mio cuore scalpita come un cavallo infuriato, mia figlia Carolina, nella stanza accanto, rimette a posto qualcosa. Mi giro e mi rigiro nel mio letto scomodo, la mia cervicale si fa sentire, non riesco a trovare la posizione giusta per il riposo.
Mi alzo, vado in cucina, mi preparo una tisana e me ne ritorno a letto con questo bicchierone tra le mani. Sono un po’ arrabbiata, non mi piace essere svegliata di soprassalto.
Non ho ancora ripreso sonno, esco nel corridoio, apro l’armadione bianco latte, prendo il cuscino che è messo lì pronto come se mi aspettasse, richiudo l’armadio e ritorno dentro la mia stanza.
Scorgo un vecchio quaderno di scuola dei miei figli, mai usato, messo lì da parte e conservato all’occorrenza. Prendo la penna che ho sul comodino, mi posiziono col cuscino dietro la schiena dolorante e comincio a scrivere.
Non ha esitato la mia mano a far scorrere la penna su quei fogli bianchi un po’ ingialliti dal tempo per scrivere la mia vita. Forse era un po’ che ci pensavo e adesso sono qui a fare i conti col mio passato, quel passato che giunge da molto lontano fino ad arrivare a me, di generazione in generazione, un intreccio di vite vissute che si attraggono come calamite.
Parlo di Candida, la mia cara nonna paterna.
Era candida come il nome che la rappresentava; viveva in un paesino della Sicilia, non lontano da Palermo; la sua era una famiglia di commercianti che se la passavano discretamente, un negozio di tessuti a quei tempi era il massimo. Non le mancavano momenti di svago, come la passione di andare a cavallo, suonare il pianoforte, e le belle passeggiate che si faceva in compagnia dei suoi genitori e delle sue sorelle, tenendo in una mano il suo ombrellino per ripararsi dal sole caldo dell’estate e con l’altra, il guinzaglio del suo bel cagnolino bianco.
Doveva essere una gran donna mia nonna. La guardo spesso in quell’unica foto in bianco e nero, col suo viso tondo e il suo bel cappellino in testa. Non l’ho mai conosciuta, se non attraverso voci di gente che la conosceva, e le parole che sentivo sempre trapelare da quelle bocche erano: “Candida era una gran signora per i suoi modi eleganti di porsi con tutti, discreta, gentile e signorile come il suo animo. Povera donna, non meritava quella fine! Morta prematuramente all’età di 52 anni.”
Queste erano le parole che fin da piccola mi trascinavo nella mente e posso dire che senza averla conosciuta, io le volevo già bene. In fondo, era mia nonna e quel legame di sangue che ci legava lo testimoniava.
Ero sempre curiosa e non appena sentivo parlare di lei, come un cane segugio le mie orecchie si aguzzavano per ascoltare, per capire chi era veramente Candida, quella donna che lasciò tutti nella più grande desolazione.
Candida stava poco in negozio, a volte ci passava per caso. I suoi genitori non le permettevano di trattenersi a lungo in mezzo a tanti occhi curiosi.
Ma quel giorno maledetto Candida si trovò dietro il bancone del negozio, quando un giovane dall’aspetto elegante entrò e volle essere servito. Candida lo scorse e guardò incuriosita quel giovane dai modi gentili e cordiali.
Era Antonio, mio nonno. I due si innamorarono e contro il volere dei genitori di lei, fuggirono insieme e cominciarono così la loro vita a due.
Per Candida cominciava il suo calvario.
Ebbe cinque figli da Antonio, avuti tra un vai e vieni di lunghi periodi di permanenza all’estero per motivi di lavoro.
Antonio era un abile commerciante di tessuti, si faceva rispettare dalla gente, ma in casa era un’altra persona. Fin da subito si era rivelato il classico uomo autoritario, padre padrone, dai toni aspri e nevrotici. Non era la persona che Candida pensava di aver sposato, l’uomo che aveva sempre sognato, dolce e amorevole, ma lei lo amava perdutamente, quello era l’uomo della sua vita, il suo primo uomo, quello che l’aveva resa madre e donna.
Antonio aveva un grande difetto: si faceva manipolare dalla sua famiglia di origine, e per Candida e i suoi figli fu il disastro completo.
Il primogenito di Candida fu Carletto: occhi grandi e a mandorla, ciglia lunghe, alto e snello e cantava come un usignolo. Chissà, forse sarebbe diventato un tenore se le cose fossero andate diversamente.
Dopo qualche anno nacque Armandino, il mansueto di casa, sempre sorridente, malgrado i disagi che sopraggiungevano in famiglia.
Candida era sempre sola con questi bambini da accudire e da sfamare, Antonio non è che mandasse un granché di soldi a casa e lei non sapeva più cosa fare.
Un giorno, colta dalla rabbia, prese un pezzo di stoffa, la unse d’olio e la bruciò. Dalla finestra, si sprigionò un odore d’olio bruciato, che simulava l’odore di carne alla brace; quel giorno, per le malelingue del vicinato, Candida e i suoi figli mangiarono bene. Era forte l’amore per Antonio, e tanto il suo orgoglio.
Era stanca, avvilita e anche debole, e le voci che le giungevano all’orecchio dei tradimenti del marito la ferivano nel cuore e nell’anima.
Nel frattempo nacque Edoardo, il terremoto di casa, una ne faceva e cento ne pensava. Candida era combattuta, mille pensieri le passavano nella mente e quel susseguirsi di amarezze e delusioni non faceva altro che peggiorare le sue condizioni di salute.
Quando Antonio non c’era, Candida doveva fare i conti con tre iene, le sorelle di Antonio, abili a manipolare quell’unico fratello maschio, con la scusa del legame di sangue che li univa. Cercavano di allontanare a tutti i costi Candida dai pensieri di Antonio perché lei era solamente un’estranea.
Candida si faceva il sangue più amaro del fiele. Troppa invidia, troppa malvagità intorno a quella povera donna la cui unica colpa era quella di amare un uomo sbagliato.
Era così bella quando si scioglieva i lunghi capelli neri e dopo averli pettinati, con elegante maestria, li avvolgeva sulla testa facendo da cornice al suo viso da bambola. Candida rimase nuovamente in attesa di un altro figlio e questa volta nacque una bella bambina, mora e vivace, col nome di Francesca.
Ma la vita continuava con le solite incomprensioni e Candida, sempre più amareggiata, sempre più sola e indebolita, non ce la faceva più a sopportare quel grosso fardello che la sorte le aveva assegnato, e quelle iene delle cognate che si intromettevano puntualmente tra lei e il marito.
Si sentiva morire di rabbia. Quelle iene erano state anche capaci di sottrarle il denaro che Antonio guadagnava nei suoi viaggi di lavoro, persuadendolo che in mano loro sarebbe stato più al sicuro. In fondo, chi meglio di loro poteva badare agli interessi di questo amato fratello?
Antonio, raggirato da queste vipere, non riusciva più a capire chi fosse Candida per lui, chi fossero i suoi figli. Forse non l’aveva capito o forse non gli interessava proprio capirlo.
E intanto le tre sorelle si accaparravano con l’inganno i soldi di Antonio, per cercare di aumentare la dote alle proprie figlie.
Candida non si rassegnava e si chiedeva sempre perché il suo uomo la facesse tanto soffrire. Non era stupida Candida, ma vittima di un amore malato.
In quel clima di lotte e sofferenze, la bella Francesca cresceva, sempre aggrappata alla gonna della sua cara mamma e sempre pronta a difenderla dalle zie cattive che suscitavano nel suo cuoricino ansia e malinconia.
Un giorno una delle zie, la più perfida, Elisabetta, prese Francesca e la spinse giù dalle scale, perché difendeva la sua cara mamma. Stringeva e teneva tra le mani i capelli di Candida che cercava disperatamente di liberarsi.
Candida cercava di difendere i suoi diritti di madre e di moglie, ma non ci riuscì, e fu cacciata dalla propria casa con i figli. Francesca si dovette portare un segno sulla fronte che l’ultimo scalino, cadendo, le aveva lasciato.
Così furono costretti a dormire in una casa diroccata. Ogni qualvolta pioveva, l’acqua si infiltrava dal tetto attraverso le fenditure delle tegole rotte, fino a gocciolare dentro. Passavano i giorni e anche i mesi e Candida ricadde nell’ennesima illusione: pensava che Antonio si ravvedesse.
Un altro bambino cresceva nel suo grembo, ma questa volta Candida si trovava in una condizione molto precaria di salute.
Prima dell’attesa del suo ultimo figlio, un giorno si svegliò non sentendosi più la gamba, una paresi l’aveva costretta a rimanere inferma su una sedia, ma lei decise ugualmente di portare avanti la gravidanza.
Nacque finalmente Domy, Candida temeva per la vita del suo bambino, per lo stato precario di salute che l’affliggeva. Il bimbo era bello come il sole, aveva per occhi due stelline e due fossette sulle guanciotte che gli aggraziavano il viso. Candida se lo guardava stupita, non credeva ai suoi occhi d’aver portato alla luce e in quelle condizioni un bambino così sano e così bello, tanto che nel paese lo chiamavano con il nome del bimbo disegnato sulla scatola di un famoso formaggino.
Candida teneva tanto a Domy. Cosa poteva offrire a quel bambino una donna quasi paralizzata, se non esclusivamente il suo cuore?
Antonio non dava mai segni di cambiamenti, era sempre più nevrotico.
I figli si erano fatti più grandi e presi dalla disperazione e dallo sconforto, decisero di partire in cerca di fortuna.
Candida soffrì tanto il loro distacco, così rimase da sola con il piccolo Domy e Francesca.
Ben presto il primogenito incontrò una brava ragazza del sud Italia e si sposò. Dalla loro unione nacquero tre figli, ma non riuscì mai a colmare quel senso di vuoto che lo rendeva schiavo di se stesso. I ricordi tristi del passato lo perseguitavano sempre, e l’alcool divenne il suo rifugio.
Gli altri due fratelli si sposarono anch’essi e anche loro portarono addosso il bagaglio della propria sventura.
La vita non fu clemente neanche con Francesca . Un giorno fu sorpresa a parlare con un conoscente del padre. Si era soffermata per salutarlo. Fu costretta a sposarlo, troppe male lingue. In quei tempi, se una ragazza veniva vista parlare da sola con un giovane, perdeva la propria reputazione. Quindi dovette sposarlo, contro il suo volere.
Candida rimase sola con Domy, l’affetto tra madre e figlio si fortificava sempre più. Quando il padre era a casa, Domy si nascondeva sempre, aveva paura di lui, le cinghiate che prendeva gli bruciavano forte sulla pelle. Antonio pretendeva l’obbedienza. Domy era un bambino vivace, scappava sempre, perché voleva giocare insieme agli altri bambini, ma Antonio non digeriva il comportamento del figlio, così, per educarlo, lo puniva spesso.
Domy si legava sempre più alla madre. Un giorno, seduto sulle ginocchia di Candida, aggrappato al suo collo, le diede tanti baci, arrivò a contarne cento, che faceva schioccare ad uno ad uno sulla sua guancia ormai scavata dalla sofferenza.
Domy si trovava sempre solo a curare la sua povera mamma, Francesca non poteva andare spesso ad aiutarli, doveva badare anche alla sua famiglia che nel frattempo si era ingrandita con l’arrivo di una bella bambina, e così Domy era costretto a curare la sua mamma come una piccola infermiera. Ma tutte le volte che poteva, scappava dagli amichetti a giocare, e la povera Candida, disperata, lo faceva cercare dalla figlia per terra e per mare. Aveva paura che si facesse male, e non si dava pace finché non glielo avessero ritrovato. Francesca lo ritrovava sempre, con una bretellina che gli penzolava giù dalla cinta dei pantaloni, il nasino che gli colava, e il faccino sporco di terra.
Era l’unica libertà che Domy si prendeva, sarebbe rimasto lì a giocare per ore, chissà quando sarebbe stata la prossima occasione di divertimento. Era troppo piccolo e ignaro della situazione che gravava sulle sue piccole spalle, ma ogni volta che poteva, quel momento di libertà se lo godeva appieno.
Il tempo trascorreva e Domy, già quattordicenne, era lì accanto alla sua mamma che peggiorava ogni giorno di più, facendo i conti con una cruda realtà.
I dolori e i lamenti di Candida si facevano sempre più forti e più frequenti. Le pezzuole calde che Domy riscaldava per appoggiarle sul corpo della povera mamma e darle sollievo erano ormai innumerevoli. Si rannicchiava in un angolo di quella stanza fredda e con le mani si stringeva forte le orecchie, per non sentirla più lamentarsi. Si sentiva trafiggere il cuore ogni volta che le grida di Candida tuonavano nella stanza gelida e nuda.
Il dolore che Domy provava dentro di sé, per non potere aiutare la madre, gli toglieva il fiato, e dentro la sua mente un pensiero fisso non lo lasciava: quello di perderla per sempre.
Poco più tardi Candida morì, all’età di 52 anni, lasciando in Domy un vuoto che lo accompagnerà per il resto della sua vita.
Oggi Domy è un uomo maturo, i suoi anni se li porta bene, ha messo su famiglia ed è stato un grande lavoratore. Non ha fatto mai mancare nulla alla famiglia, ma la cosa che non ha saputo mai trasmettere è stata la serenità, quella che è mancata a lui, quella pace interiore che gli era stata negata nel fiore della sua fanciullezza.
Il primo segno di quella sua sofferenza sono stata io a coglierlo, la sua figlia maggiore.
Un uomo cresciuto troppo in fretta, rimasto chiuso in se stesso, turbato da pregiudizi e complessi, e con cambiamenti d’umore continui, per quei mostri del passato che gli riaffioravano alla mente come bestie inferocite, e inconsapevole dei suoi comportamenti, distruggeva a parole ciò che aveva attorno: sua figlia.
Mio padre allo stesso tempo si faceva volere bene, era premuroso, paziente davanti alla sofferenza, ma poi tornava ad essere quel tipo di persona che neanche lui voleva essere. Sembrava volesse castigare sempre qualcuno e inveire senza una ragione ben precisa, quel qualcuno che gli aveva tolto la cosa più cara al mondo, la sua mamma.
Né la moglie né i figli erano riusciti a colmare quel vuoto senza fine. Forse solo la morte un giorno potrà dare pace e serenità all’animo di Domy. È forte il senso di colpa che vive dentro di sé per aver tradito la povera madre nel continuare a vivere e godersi la vita nonostante la sua morte.
Inconsciamente blocca la sua voglia di vivere e tutto quello che c’è intorno a lui si affievolisce lentamente.
In una frase sfuggitagli un giorno per caso, in un momento di malinconia, con le lacrime agli occhi, esclamò: “io nella mia vita non ho goduto mai”.
Quelle parole sapevano di consapevolezza, ma il suo comportamento lo faceva apparire una persona egoista, possessiva e forse anche un po’ invidiosa della gioia e della spensieratezza altrui.
Domy era due persone in una, docile e irritante allo stesso tempo. Per tanti anni anch’io ho risentito dei segni di quei turbamenti che avevano segnato parte della mia fanciullezza. E la cosa più strana era che sembrava mi portassi dietro un pezzo di vita che non mi apparteneva, il vissuto di Candida, mia nonna, che non mi poteva sfiorare più di tanto, ma che mi ritrovavo addosso inspiegabilmente.
E come un destino beffardo, mi son trovata anch’io come Candida a soffrire per un amore dai comportamenti anomali e poco amorevoli.
Mi sono sempre intravista per tanti anni nei panni di Candida, e questo mi faceva tanto pensare.
Tante furono le volte in cui mi trovai nella disperazione più assoluta. Le forze mi venivano a mancare e io mi deperivo sempre più, senza poter mai prendere decisioni di salvezza.
Ero come in un precipizio profondo senza appiglio, i miei figli il mio solo punto di forza.
Mi riprendevo più volte e più volte ricadevo.
Credetti di morire, ero al limite delle mie forze e a stento trascinavo il mio corpo e la mia mente stanca. E come fanno i bambini quando nel gioco dicono: “testa o croce”, anch’io dentro di me dissi “vita o morte” e, consapevole e disperata, decisi di andare in ospedale.
Non volevo morire, non avevo alcuna intenzione di lasciare le cose più care a cui tenevo al mondo, la mia vita e i miei figli.
E come se ci fosse stato un angelo a prendermi dai capelli, pian piano tornai alla luce, uscendo da quel fosso in cui ero intrappolata da anni.
A differenza di Candida, io sono viva, ho cercato di lottare per il vero senso della vita e della giustizia.
Forse anche Candida mi ha dato la forza di lottare, mi ha trasmesso quell’amore grande e combattuto che lei aveva dentro e che non ha saputo gestire fino in fondo se non con la morte.
Candida per me oggi è diventata il mio punto di riferimento, la mia forza. Quando ripenso alla sua vita, qualcosa dentro di me esplode e mi sento un guerriero che lotta, che cade, si rialza e ricade, ma che alla fine riesce ad alzare la sua bandiera di vittoria, schiacciando il male.
Mi accorgo che, senza rendermene conto, si è fatta quasi l’alba e ancora nel mio bicchierone intravedo un altro goccio di tisana. La bevo anche fredda, metto un punto al mio racconto e mi distendo. Cerco di riposare solo un po’, tra poco mi devo alzare e continuare la mia battaglia, ma con la consapevolezza che la nostra vita non è altro che un concatenarsi di eventi che si attraggono, negativi o positivi che siano, di generazione in generazione; gioie su gioie, dolori su dolori, sventure su sventure, che vanno ad affievolirsi col tempo nelle generazioni a venire. Mi accorgo che le palpebre cominciano a chiudersi dal sonno; l’ultimo pensiero va a mia figlia Carolina, che ringrazio, perché, se non fosse stato per lei, alle prese con una zanzara, chissà quando avrei dato adito a questo mio sfogo, in ricordo di Candida, la mia cara nonna.

Concetta Famà