“PIEDI”

Sto osservando i miei piedi. Mi sono sempre piaciuti i miei piedi. Sono salvi i miei piedi, troppo lontani, periferia ignorata dalla furia. Beati loro che riescono a non farsi notare….

Io ci provo. Cerco di non parlare forte, cerco di non parlare proprio. Tengo gli occhi bassi, non mostro segni vitali. Faccio come gli opossum, mi fingo morta per salvarmi. Ma non basta.

È l’imprevedibilità che mi angoscia. Un pericolo, se lo puoi prevedere, è meno spaventoso; ma non c’è logica, non c’è senso in quelle esplosioni.

Ecco le lacrime, cadono una a una come pioggia triste sul mio grembo. Le guardo, le raccolgo nella mano. Le mie mani. Oddio le mie mani… loro non hanno mai scampo, sono in prima linea, sono la fanteria che viene mandata contro il nemico, nella consapevolezza che qualcuno deve essere sacrificato per un bene superiore: il viso. Cerco sempre di salvare il mio viso. Mi sorprende la lucidità banale dei miei pensieri in quei momenti drammatici. Riesco solo a preoccuparmi di salvare il viso, che non me lo rovini, che non lasci segni indelebili dell’orrore a cui mi sottopongo e di cui mi sento parte.

Perché è proprio questo il punto. Non è il nemico a farmi orrore, ma io stessa. Non sono arrabbiata con lui ma schifata di me. Non mi sento vittima, mi sento sporca, sbagliata.

Quale mostruosità si cela dentro di me per spingermi a sopportare, forse cercare questa furia?

Guardo le mani, loro sono le vere vittime, loro si battono per proteggere il volto che invece è il codardo che vuole vivere nella menzogna. Le mani pagano il prezzo della mia follia. Guardo le gambe e scendo fino ai piedi, salvi. Grazie a loro riesco ancora a stare dritta, a non crollare, come se rappresentassero quella parte di me che fugge, che ha saputo salvarsi, sono la speranza.

Per la speranza ci vuole il coraggio di cambiare, di andare oltre se stessi. Non è lui che non voglio lasciare, è me stessa, quell’idea di me che rende utili anche le botte.

Io prendo botte. Urlo, soffro, sono umiliata, distrutta ma ormai mi è chiaro che ne sono schiava.

MUSICA INIZIA: PRELUDIO TRAVIATA ATTO TERZO

L’ho capito pochi giorni fa che, guardando i miei piedi, ho visto i miei sogni. Mi sono ricordata delle speranze, ho ricordato la bellezza. Quelle unghie laccate, curate, quelle dita affusolate, la pianta liscia e snella, la mia giovinezza, la mia gioia, la vita che si era rifugiata in quelle estremità lontane dalla mente, tanto lontane da farmela dimenticare. Allora ho ricordato. Ho ricordato che io sognavo, che immaginavo futuri sempre nuovi, in evoluzione, una vita che muta e procede. Il sapore della vita è balzato in bocca, ha riempito il palato e da lì ha invaso la mente di immagini, storie, colori. Un mondo dimenticato.

Come sono arrivata fino qui?

Forse quell’ammirazione?

Una ammirazione totale, senza ma, senza se. Ero affascinata da quella certezza che mi faceva sentire finalmente tutta, io che mi ero sempre sentita incompleta, incerta sul mio valore. Percepii il pericolo, sapevo che c’era qualcosa di folle in quell’assoluto irreale, in quella totalità impossibile, ora posso dire mortale. Ma quel pieno, quell’universo senza dubbi né sfumature mi rassicurava e mi spinse all’abbandono. Abbandono di me stessa, della mia libertà di giudizio, della mia indipendenza di pensiero. Lui sapeva. Potevo esonerarmi dal peso della mia affermazione, della mia esistenza. Mi sono venduta al modico prezzo della irresponsabilità.

Non sono più padrona di me stessa. Non lo sono mai stata ma credevo di doverlo essere, è questo che mi ha fatto abdicare a un padrone più sicuro, che mi offriva un mondo fatto di certezze.

Ero stata cresciuta con il mito dell’efficienza, della forza, della padronanza. Credo che siano i germi del mio masochismo.

La mia umanità che pulsava instabile, incerta, che esprimeva tutta la sua inevitabile  imperfezione, venne relegata nel fondo dell’anima, carcerata nelle oscure del mio essere perché fonte di grande imbarazzo. L’esistenza non fu altro che uno stare a guardia di quelle porte affinchè rimanessero chiuse.

Quell’uomo mi liberò dal lavoro estenuante di carceriere. Ma non mi stava guarendo dalla mia umanità, stava solo prendendo il mio posto di secondino ed io lo autorizzavo a farlo.

Sono in prigione. La mia gabbia si chiama paura. Paura di affrontare me stessa. Il problema non è perché lui mi picchia, sono affari suoi, ma perché io lo permetto. A cosa mi serve? A non rinunciare alla speranza che io sia come lui mi aveva descritta, ammirata? A cancellare, guarire, eliminare quell’orrore che nascondo in cantina? Non è avvenuto tutto subito. Potevo andarmene prima. Ma le vere ferite erano già fatte, nella mia mente. Era la sudditanza psicologica quella che io avevo permesso, in cui trovavo un sollievo malato, una cura alla mia battaglia interiore con gravi effetti collaterali.

Poi, i miei piedi mi hanno parlato.

La finestra è aperta, sono qui seduta sul tavolo. L’ho avvicinato, così riuscirò a saltare meglio. Sono le tre, lui dorme. Per fortuna ha il sonno molto pesante. La notte, in questi anni, è sempre stata un sollievo, pace.

Sono pronta. Dal momento che ho capito tutto, che ho visto l’orrore in cui sono vissuta da troppo tempo, da quando l’ho visto con gli occhi della bambina che ancora sognava, con i piedi di quella bambina, sono stata travolta da una disperazione insopportabile. La solitudine evitata al prezzo della violenza, era riaffiorata in tutta la sua durezza.

Il prezzo da pagare per la propria singolarità è la solitudine, quella che non si cura con la compagnia, quella che rimane per sempre, quella che tiene aperto un vuoto incolmabile ma vitale, perché fa spazio, permette il mutare delle cose.

Io avevo scelto di chiudere quel buco ma con questo anche di non vivere.

Ora sto scegliendo di morire. Bisogna essere vivi per scegliere di morire. O meglio scegliere di morire ti fa sentire che sei vivo. Per questo ci si suicida, per reclamare il proprio diritto alla vita, perché ci si sente morti, perché non si sta vivendo. Con il suicidio si pone fine alla morte, a una vita che non è vita, che è mortale. Almeno è quello che sto per fare io. Non ho paura, sono lucida, calma, finalmente sollevata, finalmente libera.

Mi alzo in piedi, sui miei piedi. Attirano la mia attenzione, di nuovo, ancora. Come sono belli, vivi, stabili. Mi viene da piangere. Sono lacrime di gioia, non di sofferenza. Piango e sorrido perché tutto sembra possibile in questo attimo, anche un volo verso l’infinito.

I miei piedi scendono. Si appoggiano sulla seggiola accostata al tavolo. Quindi ancora scendono, sul pavimento. Si dirigono verso la porta, mi affretto a prendere una giacca, sono in pigiama, avrò freddo, non so dove vogliono andare. Apro la porta ed esco di casa.

È definitivo. Lo so. Ho scelto. I miei piedi hanno scelto. Gli ho sempre dato il compito di difendere la vita, i sogni, le speranze.

Loro si sono messi in movimento ed io non mi sono opposta.

D’altronde sono così belli, come opporsi a tanta bellezza,

alla bellezza della speranza.