STORIA DELL’UOMO CHE CANTAVA DI NASCOSTO

C’era una volta un uomo che viveva in una baracca. Trascorreva la
maggior parte dei suoi giorni fuori, a camminare lontano da tutti,
perché la sua baracca era marcia e lasciava passare la pioggia.
Camminava senza una meta, senza uno scopo apparente, fino allo
sfinimento.Si fermava solo quando i suoi piedi erano così ulcerati da
sanguinare, allora si sedeva sulla sua poltrona arancione e rimaneva
per delle ore, immobile, a fissarsi le scarpe. Il suo nome era Jeff
Blues.
Jeff Blues percorreva strade strane, invisibili viaggi. Nessuno sapeva dove
quei sentieri mentali lo conducessero. Nessuno sapeva chi incontrasse nei
suoi viaggi verso le stelle.
Possedeva il fascino sottile degli sfuggenti, di quelli che non si lasciano
afferrare per nessuna ragione al mondo. Ai contatti umani preferiva le braccia
protettive di Morfeo. Fuggiva nel sonno, ma se i demoni tristi lo raggiungevano
e gli si agitavano nella testa, le cose si mettevano veramente male.
L’insonnia e la pioggia lo facevano impazzire. Il rimedio era cantare.
Prendeva la chitarra e si metteva a suonare e quando la musica l’aveva
sommerso, avvolgendolo completamente, la sua voce usciva fuori e con
essa
anche tutti i suoi demoni. In un momento, i demoni tristi uscivano da
lui attraverso la sua voce. Cantando le sue pene non risolveva niente,
ma l’angoscia si attenuava e ogni cosa sembrava più facile, tornava a
letto e
rapidamente si addormentava.
Il rumore del mondo avrebbe bussato impietoso alla sua porta.
Un giorno Jeff Blues fece una cosa veramente banale, comune ad ogni essere
umano che si rispetti.
S’innamorò.
S’innamorò perdutamente di una bella ragazza.
Una bella ragazza che abitava lì vicino. Abitava in una casa così
bella e splendida, che a lui sembrava come una lontanissima terra. Il
suo nome era
Emily Moon.
Ogni volta che l’uomo la vedeva poteva solo sospirare e bastò che lei
gli facesse un impercettibile sorriso per farlo tossire, soffocato
dalle sue stesse
emozioni. In quello stesso istante decise di dedicarle una canzone.
“La sua bellezza merita proprio una canzone…” pensò il signor Blues mentre
correva via, alla ricerca dell’ispirazione.
Cominciò da subito a sperimentare sulla sua chitarra tecniche sempre più
complesse. Provava e riprovava, ideando favolose architetture
armoniche. Pronunciava centinaia di parole per sentirne la sonorità
nell’aria, poi modulava la voce, suonandola come fosse uno strumento,
ed elaborando un suo specialissimo stile vocale dalle sillabe
prolungate che permetteva all’evocazione
verbale di fondersi con la musica in una simbiosi perfetta.
Se voleva uscire allo scoperto doveva prima prepararsi per bene.
Dopo un numero imprecisato di mesi la canzone vide la luce. La nuova canzone
racchiudeva tutta la sua vita, una navigata stellare che esprimeva
tutto quello che aveva visto e udito. Un’appassionata navigata
stellare, incantevole quanto pericolosa. La nuova canzone sarebbe
stata irresistibile, un dolce assedio capace di far vibrare la sua
Luna. Emily Moon avrebbe scoperto che le baracche erano più carine di
quanto avesse immaginato. Poteva vedere la sua Luna mentre lasciava la
propria casa e andava nella sua baracca, la vedeva riparare le crepe e
fare in modo che il mondo non piovesse attraverso la sua testa. Era
pronto per cantare la sua canzone;  sarebbe poi toccato alla Luna
convincerlo che il tempo della solitudine e dell’incomprensione era
davvero alle spalle. Si avviò verso la casa di Emily e, da dietro le
fronde di una quercia secolare, lasciò che la sua musica gravida di
sorprese, profondità senza fondo,
assediasse con dolcezza la sua porta. Cantava, ma la porta rimaneva
chiusa e il canto, a poco a poco, divenne il lamento di chi si sente
smarrito. Cantò fino a che la voce non si spense, affievolendosi in un
sospiro. Nessun cambiamento era avvenuto. Jeff Blues se ne stava lì,
paralizzato e incredulo, un fascio di nervi allo scoperto. Aspettò
ancora e ancora, poi i suoi piedi lo portarono lontano.
Spalle curve e sguardo abbassato camminò per giorni senza vedere niente.
Quando alzò lo sguardo e incrociò quello di un passante, lo fermò e
gli disse implorante:”Tu sai che sono profondamente innamorato di
Emily, ma mi sembra  non abbia tempo per me. Per favore, se la vedi,
chiedile di farmi sapere quando posso vederla e quando posso…”.
Nessuno sa con certezza che fine fece il signor Blues; di fatto svanì
nel nulla senza lasciare tracce. Alcuni sostengono che morì sotto i
duri colpi dell’indifferenza; altri giurano di averlo visto in uno di
quei posti dove ti permettono di vedere la televisione 24 ore su 24.
Tutti concordano nel sostenere di aver visto Emily Moon aprire la
porta e accorgersi che qualcuno era stato lì, dopo che tanto tempo era
passato da quando se n’era andato.

Cristina Turelli


CREATURE MOOOLTO STRANE

Sulle montagne della Selva Lacandona vivono creature mooolto strane
perfettamente integrate nell’ambiente. Alcune di queste creature
trovarono riparo nella selva, quando il mondo dormiva e non voleva
svegliarsi e indossarono passamontagna neri come tizzoni, tutte le
volte che dovettero mostrare il volto, scegliendo in nome di Zapata,
di morire per vivere.
A queste creature umane mooolto particolari che morendo la morte
vivono, fanno buona compagnia altri esseri che nessun studioso ha mai
potuto catalogare.
Marcos, il poeta-portavoce degli zapatisti insorti, conosce bene le
loro abitudini e ha trovato un nome per ognuno, anche se quando li
chiama fanno finta di non capire, perché odiano rispondere alle sue
continue domande.
L’ORMIGUILLO per esempio, se ne sta quasi tutto il giorno in silenzio,
appollaiato sui rami di un albero, fino a che un guerrigliero
inzuppato di pioggia non lo sfiora con mani gentili in cerca di un po’
di calore. Ha la forma che ricorda vagamente quella di un mandolino e
come uno strumento a corde si comporta, lasciandosi suonare volentieri
da chi cerca conforto nei suoi armoniosi lamenti, nelle notti umide,
quando il freddo paralizza anche i cuori più coraggiosi.
non si riesce a guardarlo negli occhi perché nessuno sa dove li abbia.
In compenso la bocca legnosa è ben visibile, in basso, vicino alla
cassa sonora e la usa spesso per succhiare dolci, soprattutto le
meringhe che adora.
Lo GNAMPA invece, si è rivelato con il tempo un grosso incentivo
all’igiene personale. Vive scavando gallerie in profondità nel terreno
e come la talpa è cieco perché incline a guardarsi dentro. La pelle
viscida e butterata e la forma del suo corpo potrebbe ricordare quella
di un cucciolo di leone marino, se non fosse per le sue cinque
zampette retrattili, posizionate sul davanti sotto il muso peloso. Le
sue zampette sono in grado di farlo arrivare in fondo a qualsiasi
cosa, persino a degli zaini lasciati sbadatamente per terra. Fino ad
una quindicina di anni fa, si nitriva quasi esclusivamente di larve
viola, ma un giorno fiutò il caratteristico fetore dei calzini
indossati per giorni da piedi marcianti dentro stivali e da quel
momento divenne un accanito ladro divoratore di calzini puzzolenti,
costringendo i malcapitati che non volevano calzare stivali a piedi
nudi, a continui bucati.
Se poi camminando nella selva si perde la giusta direzione e non si sa
cosa si trova davanti, è consigliabile a detta di tutti, di guardare
verso il basso, dove con un po’ di fortuna si può trovare qualche
esemplare di DUROSA: animaletto eterno perfettamente mimetizzato con
il comune pietrisco.
Le Durose sono pietruzze trasparenti nelle quali è possibile
specchiarsi, affacciandosi dentro se stessi. Per individuarle è
necessario fermarsi in ascolto e aspettare in silenzio che queste
sospirino. Subito ci accorgeremo se il cammino che si stava cercando
esiste realmente e se ancora non ci fosse, cominceremo a farlo.

Cristina Turelli


TENERO IL PACIERE

C’era una volta un gatto di nome Tenero.
Tenero era un gatto così buono che alle volte gli spuntavano le ali.
Aveva un animo sensibile e non sopportava le prepotenze e i musi lunghi.
Era un bel gattone dal pelo lungo e fulvo e aveva perennemente le lacrime agli
occhi. Era nato gracile con una congiuntivite cronica che nessun
collirio era riuscito a guarire; forse era un suo tratto distintivo
perché era un gatto che si commuoveva facilmente.
Abitava in campagna al limitare del bosco e aiutava tutti gli esseri
viventi ad essere felici. Aveva per padrona un’eremita che lasciava
sempre una ciotola di cibo per qualunque gatto si fosse trovato a
passare da quelle parti.
Tenero era amico di tutti e non esisteva felino ed umano al mondo che
lui non accogliesse sorridente, rotolandosi a pancia in su in segno di
benvenuto.
La missione di Tenero era donare amore a chiunque incontrasse. Se un
gatto randagio, famelico ed aggressivo si avvicinava in cerca di cibo,
Tenero si faceva annusare e dopo il rituale della pancia in su,
nessuno sapeva resistere alla sua simpatia e, anche il gatto più
ombroso si scioglieva come neve al sole. Anche gli esseri umani che
non amavano i gatti, alla vista delle sue buffe contorsioni a terra,
sorridevano, allungandogli perfino qualche carezza.
Tenero possedeva il potere supremo della bontà e non aveva paura di
niente e di nessuno.
Adesso stava affrontando l’impresa più ardua: far diventare socievole
la sua padrona scontrosa. Doveva solo escogitare il modo di farle
vedere i colori, laddove lei vedeva solo oscurità. Sarebbe stato poi
un gioco da ragazzi, con un po’ di ottimismo, farle trovare la strada
che porta verso il paradiso della serenità.
Ci sarebbe riuscito, era solo questione di tempo.
Tenero avrebbe fatto avvenire il miracolo e anche le padrone scontrose
avrebbero camminato su strade luminose.
Bastava solo crederci.