NEMESI – LA GUERRA DI UN DEMONE

Capitolo 22, inedito del romano NEMESI, La guerra di un demone

Buio.
Nulla di più.
La sintesi delle percezioni di tutti i suoi sensi.
Eppure era vigile, o almeno credeva.
Eppure era convinto di essere ancora in sé.
Ma perso in quell’offuscamento sensoriale, un senso di angoscia iniziava a pervaderlo sempre più, partendo dal basso, dapprima impercettibile, poi sempre più opprimente.
Un senso di solitudine assoluta iniziò ad avvolgerlo, più forte di quanto avesse mai provato.
Non riusciva a muoversi, non riusciva a percepire più il suo corpo.
Ogni sua volontà, ogni suo pensiero, non avevano alcun sfogo in nessun gesto.
Ogni sua azione, ogni tentativo di ribellarsi da quel dolore interiore, era vano, come se fosse privo di un corpo, come se il suo corpo fosse a lui distaccato.
Una strana sensazione iniziò a strusciarglisi addosso, fino ad arrivare a coprirlo e a permeare in lui.
Una paura strana e insensata si faceva strada, sempre più intensa.
Non aveva la benché minima idea di cosa gli stesse accadendo.
Poi ecco, la prima sensazione, forse un corpo ce lo aveva ancora.
Freddo, ecco cosa sentiva.
Non era un freddo portato dal vento, ma il freddo di un anima nuda, scoperta, completamente vulnerabile.
Si sentiva osservato. Ecco la sua seconda sensazione.
Immerso nella solitudine, sentiva comunque degli sguardi su di lui.
Sguardi ostili, minacciosi, quasi dannati direbbe, per spiegare l’angoscia che gli trasmettevano.
Una lieve sensibilità muscolare parve tornargli.
Percepì dei leggeri fremiti in tutti i muscoli che fino ad allora sembravano non esistere.
Le forze gli mancavano ancora, provò a muovere una mano, gli sembrò quasi assente.
La vista sembrò tornargli perché riprese il controllo delle palpebre, ma il buio in cui si era ritrovato, non era cambiato in nulla.
Dopo poco iniziò a sentire anche la sua pelle.
Era steso a terra, nudo.
Lentamente riuscì a sentire la sua schiena, la testa, gli arti distesi su qualcosa di viscido ed umido.
Si voltò verso la sua mano destra, non riusciva a vederla, il buio più totale, eppure ora sentiva la sua mano.
Del tutto spossato, sembrava che ogni forza gli fosse scivolata via in un momento di cui non ricordava nulla.
Solo ora, le forze gli stavano tornando, ma in un modo dannatamente lento, mentre la sua mente era pervasa da sensazioni terribili.
Con quel poco di forze che aveva accumulato, cercò di chiudere la mano, sperando di non essersi sbagliato.
Tirò un sospiro di sollievo, quando i polpastrelli toccarono il palmo della mano.
Restò fermo ancora per qualche istante, mentre gli pareva che qualcosa attorno a lui si muovesse.
Era orribile essere lì, avvertire di non essere solo, senza riuscire a vedere nulla.
Restò fermo, per accumulare altre energie, per tentare di non essere scoperto, cercando di passare inosservato, da chiunque ci fosse lì.
Ma forse non c’era nessuno, forse era la paura, la paranoia, che mai lo avevano assalito cosi tanto, a giocargli questo brutto scherzo.
Le forze gli stavano tornando, certo che non sarebbe stato in grado di combattere o di correre, ma almeno sentiva che sarebbe stato capace di alzarsi in piedi.
Teneva il suo respiro calmo, mentre l’orecchio restava teso ad ascoltare, cercando di rimediare a quello che gli occhi non riuscivano a vedere.
Restare fermo lì, era la cosa che più avrebbe preferito fare, poiché la forte sensazione di pericolo tentava di persuaderlo dal compiere alcun gesto, ma non vi era alcuna utilità in quella scelta.
Anche se la paura, che sembrava una prerogativa da cui non ci si poteva scindere in quel posto, gli sussurrava come infima consigliera di restare immobile, un simile comportamento non era da lui.
Si tirò su, con quel po’ di forze che era riuscito a raccogliere.
Tirando una gamba e sé, poggiò il braccio sul ginocchio, come per prendersi un momento di pausa prima di alzarsi del tutto.
Posò la mano destra per terra, per cercare di capire su cosa fosse disteso, affidandosi solo al tatto.
I polpastrelli toccarono una sostanza liquida leggermente più densa dell’acqua, mentre appena sotto, una fanghiglia.
Non seppe dire dove si trovava, non c’era nulla di familiare.
Tentò allora nuovamente di guardarsi attorno, cercando di scorgere anche una qualche minima figura, ma più il suo sguardo si perdeva in quell’oscurità, più quella sensazione di essere osservato e di non essere solo si faceva forte, tanto da fargli credere che all’improvviso sarebbe potuto spuntare qualcosa o qualcuno, anche a pochi centimetri dal suo volto.
Raccolse tutto il coraggio che gli restava, e a dir la verità non era molto, e si alzò in piedi.
D’un tratto qualcosa gli giunse all’orecchio.
Un debole lamento, da non molto lontano.
Poi un altro, un po’ più forte, alle sue spalle.
Si girò, non vedeva niente.
«Noo…» una voce roca, sembrava disperata.
«Tu…» un’altra voce, sta volta sembrava arrabbiata.
«Non è possibile, non è possibile…» bisbigliava qualcun altro ancora da qualche altra parte.
«Aaaah…» si lamentò qualcuno da qualche altra parte.
Tutte quelle voci, tutti quei lamenti di sottofondo che apparivano così addolorati, giungevano dalle più disparate direzioni, ma erano tutte molto vicine.
-Dove diavolo sono finito?- si chiese preoccupato, quasi pentendosi di essersi alzato, ma mentre si girava e rigirava attorno per cercare di vedere qualcosa, quel buio denso come un muro continuava a tenere all’oscuro quei sinistri interlocutori.
«Maledetto…» gli bisbigliò qualcuno, direttamente nell’orecchio sinistro.
Devon sbandò e subito si scansò di lato.
Sta volta era stato così vicino da aver sentito sulla pelle il suo alito.
Il cuore gli batteva forte, mentre la paura cercava di impossessarsi di ogni sua fibra.
Ma mentre la sua mente cercava di restare lucida, l’inquietudine iniziava a proiettargli pensieri tutt’altro che rassicuranti.
Poi d’un tratto, per un motivo inspiegabile, una luce azzurrina e del tutto innaturale iniziò ad illuminare tutto.
Questa strana luce proveniva dal suolo, da quella densa fanghiglia che stava calpestando, illuminando dal basso tutto quello che c’era lì intorno.
Una luce che però rimase molto fioca e leggera, ma sufficiente a Devon per constatare finalmente la gravità della situazione.
Tutt’intorno a lui, delle strane figure lo fissavano.
Era circondato da orrende creature, tutte lontane da lui di soli un paio di metri.
Alla sua sinistra, quella che sembrava una figura femminile, da cui era provenuta quell’ultima voce che lo aveva spavento, lo fissava ad occhi sgranati, stranamente più grandi del normale, a soli un paio di passi da lui.
A descrivere quelle creature, poteva dire di trovarsi all’inferno, o in qualche posto del genere.
Imprecò, un attimo dopo tutti quanti gli si gettarono addosso.
Lo afferrarono per le braccia e per le gambe, e con unghie e denti o qualunque cosa avessero, iniziarono a lacerargli le carni.
Ormai completamente terrorizzato e disperato iniziò ad urlare, mentre lo facevano a pezzi.

«Svegliati.»
«Chi sei?»
«Non ha importanza. Svegliati ragazzo.»

Un caldo torpore ed un pulsante dolore alla testa, furono le prime sensazioni che lo accolsero portandolo via da quel blackout, mentre i sensi tornavano a rendersi presenti.
Il silenzio attorno a sé, mentre al tatto una sensazione di pressione gli suggerì che quelle scomode stoffe che aveva sul corpo erano dei bendaggi arrangiati alla buona.
-La battaglia…- in un lampo la sua mente venne strappata da quella comoda incoscienza, mentre tutto tornava alla mente, pesante.
Aprì gli occhi, mentre i suoi sensi tornavano vigili e tesi, come lo erano sempre stati.
La calda luce di una torcia mostrava al suo sguardo quelli che erano gli spartani arredi della stanza in cui si trovava.
Il nerofumo sulle pareti lasciava facilmente intuire che in quella stanza era divampato un incendio da non molto tempo, mentre una sedia alla sua sinistra su cui erano poggiati i suoi sporchi e logorati abiti ed un comodino di un legno quasi marcio alla sua destra su cui era poggiata una candela, erano stati posti in quella stanza per sostituire la vecchia mobilia di cui probabilmente non rimaneva altro che cenere.
Nulla in quella stanza era elegante, decente, o almeno pulito, tranne la coperta con cui lo avevano tenuto al caldo durante quelle ore in cui aveva perso i sensi.
Anche se riusciva a vedere ancora gli aloni di sangue che la macchiavano, sapeva che era stata lavata, per via del delicato odore di sapone che emanava.
Appoggiato alla parete ai piedi del letto, la sagoma di un omone avvolto in un manto verdastro scuro, restava immobile, silenziosa.
Faceva molto freddo per essere al chiuso, l’aria in quella stanza era umida e fredda, e la muffa che cresceva sulla parte alta delle pareti lasciava presagire che la cosa non era insolita in quell’ambiente.
Forse per il freddo, o forse era solo per il suo carattere, ma il cappuccio tirato sulla testa lasciava in penombra buona parte del viso, mentre la luce della torcia appesa alla parete riusciva a illuminargli solo le labbra e la restante parte inferiore del viso, coperto da una corta barba.
Devon lo guardò per qualche secondo, non si muoveva. -Forse sta dormendo…- pensò, ma non ci credeva molto, lo conosceva e sapeva che in fondo quell’uomo non dormiva mai per davvero, fatto stava, che comunque era stato lì tutto il tempo, a vegliare su di lui.

Ne era uscito vivo.
Le cose si erano messe davvero male per lui, la battaglia lo aveva quasi inghiottito, era quasi riuscita a prendersi anche lui, così come le altre migliaia di soldatini che erano caduti al suolo con estrema facilità.
Comparata alla fatica che occorre per mettere al mondo una vita e farla crescere, la morte è una cosa tanto semplice e veloce, da terrorizzarti.
Così, il triste mietitore, era quasi riuscito a portarlo con sé e ad aggiungerlo ai suoi pezzi da collezione, laddove né re, tiranni, eroi o assassini, hanno diverso valore uno dall’altro.
Ma il suo amico lo aveva salvato.
Gli doveva la vita.
Ma dov’era? Entar era lì, ed ara quasi sicuro che fosse rimasto nella sua stanza per tutto il tempo, un comportamento che si aspettava più dal suo amico che da chiunque altro.
Una strana sensazione gli attanagliò lo stomaco.
Se non era lì, poteva significare che anche Zerk era stato ridotto male.
Forse come lui era in qualche altra stanza!
Si sentì rattristito. Chissà com’era conciato, e chi c’era a vegliare su di lui?
O forse era solo indaffarato con qualcos’altro.
Devon doveva alzarsi, doveva trovarlo e ringraziarlo.
Era in debito con lui, e doveva dirgli che si sarebbe riscattato in men che non si dica.
In realtà era solo preoccupato.
Si tolse la coperta di dosso e l’aria fredda lo raggiunse ovunque.
Era quasi nudo ad eccezione delle fasciature lo coprivano ovunque.
Si stupì nel vedere quanto sangue avesse perso, i bendaggi erano quasi totalmente rossi, evidentemente era stato ferito più volte anche dopo aver perso i sensi.
Si tirò su a sedere, prendendo qualche secondo prima di alzarsi in piedi.
«Dove credi di andare?» la voce calda e ferma dell’uomo lo raggiunse all’improvviso.
Devon guardò verso di lui, non si era mosso.
Ancora non riusciva a vedergli il viso, ma sentì che c’era qualcosa che non andava.
Quella che poteva sembrare una semplice domanda era parsa più come un monito.
«Sto bene, non preoccuparti.» rispose Devon, anche se dal tono di voce l’uomo non era apparso affatto preoccupato.
Il ragazzo restò però fermo a letto, anche se voleva alzarsi.
Doveva però scorgere prima qualche informazione in più dal viso del maestro, sentiva che c’era qualcosa che doveva capire prima di decidere cosa fare.
L’uomo si sedette in modo più composto, mentre con la mano tolse via dal capo il cappuccio.
Il suo viso era serio, e quella serietà portò rammarico a Devon.
I suoi pensieri tornarono alla battaglia, e all’esito…
Aveva fallito e anche se in fondo già lo sapeva, solo ora iniziava a rendersi davvero conto di cosa significasse.
«Eravamo alle porte della città…»
Devon strinse i pugni, era inevitabile quel discorso, lo sapeva, anche se non voleva ascoltarlo, avrebbe voluto evitarlo a tutti i costi, ma restò in silenzio.
«…l’attacco era appena iniziato. Lo avevamo programmato da giorni e atteso il momento opportuno per agire. Eravamo lì…» Entar si passò una mano sul viso.
Non c’era alcuna necessità di continuare a parlare.
Devon sapeva benissimo quant’era importante quella missione.
Centinaia di uomini avevano deciso di combattere e di affrontare il pericolo di perdere la propria vita, per tentare, senza avere la benché minima certezza, di salvare dei superstiti che forse non esistevano neanche, ma che potevano anche invece essere lì, riusciti a sopravvivere, con la speranza di essere salvati.
«…quando abbiamo sentito il corno della ritirata.» Entar guardò Devon negli occhi, e quello sguardo sembrava schiacciarlo.
«La missione è stata subito interrotta e siamo tornati il più velocemente possibile.»
Il ragazzo non riusciva più a sostenere quello sguardo.
Abbassò gli occhi, mentre nella testa sembrava apparirgli lo scenario della battaglia.
«Un completo disastro.» sospirò, prima di continuare. «Centinaia di ragazzi accerchiati o sparsi ovunque, senza un comandante, mentre quei dannati mostri li decimavano.»
Devon pensò alla sua stupida tattica. Era accaduto tutto per colpa sua.
Come aveva fatto ad essere stato così folle e presuntuoso?
Tutti quei volti, tutti quei ragazzi, coperti da un armatura che non può minimamente compensare l’inesperienza, si erano fidati di lui e lo avevano seguito, trovando la morte.
«Non c’è tattica o forza bellica, che possa compensare la stupidità!» disse Entar con rabbia.
Quelle parole ferirono il ragazzo, lo ferirono dentro, dove neanche il suo potere poteva curarlo.
«È stato un miracolo se siamo riusciti a salvare qualcuno.»
Devon alzò lo sguardo ma l’uomo ormai stava guardando verso il cielo scuro fuori dalla finestra, preso dalle immagini a cui aveva assistito.
Scene che troppe volte ormai aveva visto per tentare di darne un senso.
«Ora appena metterai piede fuori da quella porta, sarai accusato di negligenza, per aver portato alla morte centinaia di ragazzi, di sabotaggio, per non aver rispettato i piani e per aver preso iniziative dagli esiti catastrofici, e di tradimento, per aver interrotto la formazione difensiva lasciando indifese le porte della città, mettendo in pericolo anche le vite d tutti i civili all’interno.»
Devon restò immobile a fissare il suo maestro.
Com’era potuto accadere?
Aveva portato alla morte quei ragazzi e fatto fallire la missione di salvataggio condannando anche gli eventuali superstiti nella città di Riuneo.
E come se tutto ciò non bastasse, ora era considerato anche un traditore, gettando così nel fango il nome di suo padre, oltre al suo che tanto era sempre stato macchiato chissà per cosa.
«Sarai scortato direttamente dal re per essere processato… e sarò io a portartici.» gli disse con sguardo inamovibile.
Quelle parole spiazzarono del tutto Devon.
Persino Entar sapeva che quelle accuse erano esagerate, che come girare la lama in una ferita non servivano ad altro se non a consolare la rabbia di tutte le famiglie i cui figli erano morti in quell’infruttuosa battaglia.
Ma sapevano entrambi che nessuno avrebbe detto una sola parola in sua difesa.
Devon non sapeva più che dire, quantomeno cosa fare.
Si sentì con le spalle al muro, mentre difronte a sé tutto il resto del mondo lo schermiva e lo accusava, così dalla sua nascita.
«Dov’è Zerk?» chiese Devon, ritrovando parte della sua sfacciataggine che tanto lo aveva aiutato a farsi strada tra la gente che lo aveva sempre odiato.
Entar guardò il ragazzo con uno sguardo indecifrabile. «Quando lo abbiamo trovato era ridotto male, quasi quanto te. Siete stati portati subito in infermeria, eravate pieni di ferite.»
Proprio come temeva. Era stato ridotto male per salvarlo.
«Dopo ore tu ti sei stabilizzato, ma per lui non c’è stato niente da fare. E` morto dopo poco.» La voce calma dell’uomo si incrinò alla fine.

Una strana sensazione lo avvolse.
Tutto intorno a sé sembrò sgretolarsi e ricomporsi in un mondo identico eppure diverso, quasi finto.
Non riusciva a credere davvero a quello che aveva sentito, a quello che era accaduto, a niente.
Non era possibile tutto ciò!
Voleva scuotere la testa, dire che non era vero, che erano tutte solo menzogne, lamentarsi e gridare con tutta la forza che tutto era sbagliato, gridare con tanta rabbia da cancellare quel giorno, da far capire alla vita quanto tutto fosse sbagliato e che occorreva subito correggere, voleva credere con tutto sé stesso che era solo un incubo, ma non un solo muscolo si mosse per manifestare tutto ciò, e non perché accettava questa realtà, bensì perché era convinto di farlo, mentre invece restava immobile, incredulo.
Strinse i pugni e tirò le gambe a sé mentre con la schiena si poggiò alla parete adiacente alla testa del letto, in un gesto quasi istintivo, di difesa.
Guardò fisso il volto del suo maestro, e il dolore che vi lesse confermò tutto quello che aveva sentito, mentre quella realtà da cui voleva fuggire diventava concreta e incancellabile, come un marchio a fuoco sulla pelle.
«Quando arrivò all’accademia era solo un bambino. Aveva forse un paio d’anni meno di te…»