Poesie
Fiaba moderna
C’era una volta Carletto, detto “el Ragnèt”, classe ’26, secolo Novecento.
Fu soldato, padre e marito.
Poco altro è per lui degno di nota.
Abbandonato e ferito,
scelse, con rammaricato orgoglio, la natia montagna
ed è tutto qui, il racconto della vita sua.
Falce in mano,
qualche dente e stracci.
Una gallina malnutrita a ricambiare talvolta le sue stentate cure;
un cane zoppo, un gatto arruffato,
sole compagnie a distrarlo
nell’ascetico silenzio intervallato dallo scorrere del fiume sottovento.
Fiero, osserva l’imponente icona religiosa,
di un colore troppo vivo per non stridere,
incastonata alla parete di quel tugurio
all’incrocio col sentiero n°4.
Miserabile,
figlio di un mondo oramai dimenticato;
oracolo,
lasciato lì da qualche Dio
a ricordare ai moderni viandanti da dove son venuti.
Nulla egli sa di ciò che accade fuori dai suoi boschi; e nemmeno lo interessa.
Ma nelle tenebre della sua baracca di polveri e detriti arredata,
ritratto, brilla un volto venuto da lontano
ad illuminare la fioca di luce di quelle crepate travi e di quel sospirante cuore.
C’era una volta Anna, detta con invidiosa malizia, semmai n’esistesse d’ulterior tipo,
“La giovane compagna”.
Donna, sulla quarantina.
Fu badante e le maldicenze dicono tant’altro ancora.
Nata in terra di Romania,
in un paese qualunque del cui nome ogni traccia è persa,
come della persona che un tempo potrebbe esser stata.
Finita per caso in un paese qualunque
a recitar parte in rozze leggende montanare,
nulla sa di ciò che possa mai essere accaduto dentro a quei boschi; e nemmeno le interessa.
Poco, anzi, nient’altro v’è da dire;
breve racconto di due anime abitanti questo mondo
e del loro incontro, capace di stravolgere l’esistenza,
ma di cui la Storia non si servirà per insegnare alcunché ai futuri viandanti;
ignari, calcheranno invisibili orme da incolte praterie celate
scorgendo d’un tratto un’arrugginita falce.
Abbandonata laggiù,
giace,
nei pressi di quell’eterno tugurio,
lungo il vecchio incrocio col sentiero n°4.
Destini
Era dolce il suo volto specchiato nelle tue acque, mar Egeo? Quello di Mehdi, affacciato dal bordo del traghetto salpato
dall’isola di Lesbo per giungere ad Atene, mentre guardava il figlio con la speranza di dargli un futuro impossibile in
Iran.
Lo vedi ancora, Viktor, nello specchietto retrovisore della tua auto, lo sguardo di Yasmine stretto in quel velo rosa
pallido? Con la figlioletta in braccio, osservava la strada, che da Salonicco porta al confine macedone, scorrere come un
film che sarebbe potuto terminare da un momento all’altro. Non la conoscevi, non ti conosceva. Ti ha pagato per
trasportarla, non sapeva quale destino l’avrebbe attesa.
Quanto pesava, terra di Idomeni, quel bambino siriano mentre varcava la tua frontiera mano nella mano con la sorella?
Abbastanza perché le sue piccole impronte lasciassero traccia del suo passaggio nella memoria?
Cosa sarà stato mai quel rumore incessante, come un battere di denti? Mentre il treno alle due di notte correva veloce
lungo le gelide rotaie macedoni, se lo sono chiesto Naser e Khaled, in piedi nel vano d’ingresso alla carrozza 9, dove i posti
a sedere erano esauriti per lasciare spazio alle famiglie con bambini e anziani. E se lo saranno chiesto poi, quando hanno
visto i soccorritori di Medici Senza Frontiere andare verso l’intercapedine tra i due vagoni per portare via il corpo
tremante di Mohammad, ragazzo marocchino che per l’intero tragitto aveva viaggiato lì, appeso nella speranza di non
essere visto.
Le vedi ancora quelle scie parallele nel fango, a lato del cimitero, terra di Gevgelija? Sono i solchi della fatica di Farouk –
45 anni, disabile – e di chi lo accompagnava nel cammino da quel tuo campo per raggiungere la stazione e andare in altri
campi.
La ricordi, terra di Tabanovce, quella famiglia afgana scesa dal treno nell’invernale gelo notturno? Che fossero tagiki o
azeri continuerai a non saperlo mai. Ti è però rimasta impressa la fierezza di quello sguardo e quelle rughe di nonna, di
quel viso stanco e teso a prendersi cura dei giovani figli, delle loro mogli e degli otto nipoti?
Lo senti di nuovo, Kamer, quel brivido scenderti lungo la schiena? L’hai provato quando quel bambino, in spalla al
padre in coda ai tornelli, ha allungato il minuscolo dito indicando la punta del mitra che imbracciavi. Lo stesso dito che
usasti tu per indicare a tuo nonno il fucile in mano al militare mentre tanti anni fa lasciavate il Kosovo.
Lo senti ancora il pianto di Fatima, vento di Radkersburg? Da due settimane al mondo, da due mesi in viaggio nel
ventre di una madre; partita da Aleppo e aperti gli occhi al sole di Istanbul, ha visto la luna piena a Salonicco. Ha
varcato frontiere di sette Stati prima di arrivare quel giorno lì, tra le braccia di Nora, settantenne volontaria inglese della
Croce Rossa austriaca.
Chissà dove ha festeggiato il suo primo mese di vita Fatima.
Chissà se Farouk ha riabbracciato il fratello che lo attendeva in Germania.
Chissà quali altri confini ha dovuto attraversare Mohammad.
Chissà in quale scuola sta studiando il figlio di Mehdi.
Chissà.
Chissà quali strade saranno costretti a percorrere i nuovi Mohammad, Mehdi e Farouk per raggiungere l’Europa.
Big Bang
Pagine chiuse, pagine mai aperte, pagine da riempire.
Pregnanti inchiostri invisibili,
sentieri, bivi, binari morti, scelte indelebili.
Grammofoni graffianti sinfonie di vecchi vinili incrostati.
Scatti, foto sbiadite in memoria di eventi dimenticati.
Sogni talmente irreali da esser veri.
Oscuri presagi si rivelano sotto lo zenit,
offuscata la vista
tra neon intermittenti ed illuminate atmosfere ingiallite,
scorgo dardi lanciati da arcieri bendati
colpire bersagli su mappamondi rotanti.
Fatalismo. Desiderio.
Amori non corrisposti,
pensieri incongrui arredano menti asimmetriche
l’universo in banali gesti, sguardi,
mimiche dell’anima, orgasmi
ed amplessi con gli angeli.
C’ero una volta. Tornerò ad essere.
Alito, sussurro, sensazione
e poi
luce, goliardica noia
pervasione di emozioni,
l’essenza della vita,
respirare, aspirare, espiare,
danze, ritmi in levare
steso in cima al niente
rimango ad ascoltare.
Trasportato dai pensieri,
perlustrato l’infinito
di ritorno dal big bang
mi sono un po’ assopito.
In una mano la mia vita,
nell’altra stretto il mondo
sorrido e poi riparto;
oggi è un altro giorno.