Poesie
Le voci di Barbara
Cara Barbara,
con le “voci di dentro” bisogna dialogare, non tenerle distanti, perché ci abituiamo a temerle, a non farle diventare troppo confidenziali, perche ci prendono la mano, divengono invadenti e presuntuose. Hanno, quelle voci, il fascino di un interlocutore sobrio e misurato e la forza di una verità non discussa ma che si insinua e a poco a poco ci occupa. Io ne ho sempre temuto l’invasione, ma ne ho sempre avvertito, forte, l’attrazione, il sottile e caparbio senso di ineluttabile.
Mi basta subodorarne la presenza perché vi soggiaccia rapito: mia madre m’è stata di scuola. A lei devo il senso totale di sudditanza alla “verità”, quella che si formava rocciosa dentro di lei e che da lei promanava dentro di me, a coprire i miei dubbi, a rendere vane le mie perplessità, le sospensioni accorte dei miei giudizi.
Avevano, quelle “verità”, il sapore confortante di ciò che non si è conchiuso, la forza rasserenante dell’indiscutibile.Non posso dimenticare quel mal compresso, stizzoso malumore che mi prendeva quando le avevo accettate,quando sentivo di essere rimasto sopraffatto dalla potenza inebriante di quella rinuncia a cercare, a pensare, a capire.Qualcosa di pi§ profondo oscurava un piacere che avrei voluto totale, una rinuncia che avrei voluto non mi lasciasse tracce, ancorché tenui, di un soccombere che aveva, lo ricordo, un che di stordente e di acidulo a un tempo.
Quelle voci nelle vita ritornano sempre. In fondo siamo noi che le cerchiamo, forse le invochiamo per ritrovare quelle “certezze” che posseggono la consolazione ad uno smarrimento, l’attenuante l’attenuante conforto ad uno oscuro disagio. Ma non tardiamo, quando si assopiscono, a sentirle con sensi diversi, a misurarne l’affanno angoscioso che le pervade e che tenta di pervaderci.
Quelle voci siamo noi, sono i nostri frammenti scomposti che vagano in cerca di un passaporto qualsiasi per espatriare, quasi sempre falso. Amiche solerti ad occupare gli spazi vuoti della nostra ansia di vivere, ci sottraggono per un attimo dallo sforzo di capire e ci ammaliano con le loro ricette di verità. Non penso di combatterle. non ne avrei le armi. Penso di convivere con esse. Penso di assecondarne i percorsi ma per esplorarne le tortuosità, talvolta meschine, talvolta ridicole, e scrutare gli anfratti in cui si celano e da cui, ahinoi, tentano di uscire. non penso di condannarle. Non posseggo strumenti di certezza da opporre. Penso di accompagnarmi ad esse con il respiro lieve di chi possiede uno scrigno millenario pieno di preziosità e nefandezze: se vuoi prendere le prime, le tue mani saranno già state a contatto con le altre.
Con affetto
tuo Elio
I silenzi di Carla
Carla non era muta.
Ci incontravamo sugli autobus, nei bar, nei parchi (nelle parti più alte e scoscese) e sempre arrivavo con un formicolio addosso frutto di un’attesa che si faceva mano a mano più piacevole e più insopportabile. Talvolta ci davamo appuntamento in biblioteca dove il silenzio prescritto rendeva i nostri sguardi di una eloquenza oscena. Una volta ci demmo appuntamento al binario 21, lì dove finisce la pensilina e il treno si vede arrivare trafelato. Vi giunsi in un pomeriggio in cui il sole s’era trovato davanti di colpo questo lungo serpente che gli ostruivi i suoi uffici cromatici e lo relegava nel sedere del convoglio. L’effetto del gonnellino di Carla, prima dorato poi oscurato dal serpentone, era inatteso.Ci fu in quell’attimo in cui mi trovai davanti al binario occupato dal treno una parziale eclisse di donna: c’era una distanza tra noi che m’impediva di discernere con nettezza il suo corpo ma non di immaginarne le forme. Lei s’era posta allo stremo della luce e quel treno s’era posto tra le forme e la luce. L’oscuramento che mi sentii addosso fu pertanto parziale.
Ci incontravamo: uno sguardo, un sorriso, un contatto e mi sentivo risucchiare da dentro come se le viscere impazzite si mettessero a vorticare a mulinello in una vertiginosa corsa fino alla glottide.
Carla non parlava.
Poi rinvenivamo. Ma non più al presente. Era un continuo andirivieni di immagini che restituivano, intonsi, frammenti di scene, posture ed anfratti, ripiegamenti e contorsioni, candide movenze, ritmici adagi. E lasciandoci, quel turbinio non cessava, si faceva più tenue, meno pressante, diveniva futuro, prospettiva imminente, incanto da vivere ancora.
Carla non poteva dire niente.
L’aspettavo, anche, al club del tennis, nello spogliatoio dei maschi, molto presto al mattino, quando il custode apriva distratto i cancelli e cominciava, piano e quasi tremante, a far scorrere su e giù il tappeto di saggina sui campi che sazi, alzavano nubi di polveroso rifiuto. Lei superava l’ampio ingresso, fendeva il vicoletto di siepi d’alloro e finiva nel camerino in cui l’aspettava, in uno stato di ricordo-futuro che ormai era tutto lo spazio della mia mente.
Carla non poteva dire nulla.
Mi ero abituato all’ammiccare non più fisiologico di quello sguardo, a quel viso che aveva il colore della copertina di una collana di classici che mia madre teneva schierati su un lungo ripiano alle spalle del letto. Mi ero assuefatto a quel codice delle palpebre che mi svelavano quanto fossero tardive e dispotiche le parole , con i loro velami sonori, e loro forme grondanti di scorze, gherigli presuntuosi, sudice nudità malvestite; e quanto fosse tracotante la loro esorbitanza.Ognuna delle due pieghe, depositaria sicura di un alfabeto costruito nel tempo, scandiva e governava l’apertura del bulbo oculare, avvalendosi dei muscoli attigui per accostare a quel tempo altra misura, altro alfabeto, quello che affiancava alla lunghezza del tempo l’ampiezza dell’apertura.
Era una sincrona percezione inequivoca quella che proveniva da questo silenzioso palpebrare, poiché in essa Carla aveva trovato il suo primigenio canale d’intesa.
Carla non poteva parlare giocoforza.
Ma le ciglia sì. Esse avvolgevano, come in una rete sottile e a maglie leggere, i bulbi copertinici e poi li schiudevano a ondate, esibendo una disciplina sapiente (turbata sola a tratti da cedimenti lievi e giocosi), un fluire convulso di messaggi sospesi e poi un dilagare sregolato di frasi di nessuna decenza.
Io da su la guardavo e i suoi occhi mi inondavano di missive palpebrali, di delicati messaggi, di inviti intriganti, di compiaciute dissennatezze, di spoliazioni totali che la usurpavano fino in fondo.
E io mi sentivo risucchiato in quel silenzio parlato di palpebre, da quel cadenzato fraseggio di sguardi che dispensava segnali sottili da un codice così tenero, così forte.
Le stoffe di Astolfa
Lo sguardo appiattito al suolo e i passi che travisavano il mondo, Astolfa se ne andava in giro a celebrare quell’immondezzaio teoretico che le gauazzava dentro, senza soppesare l’immonda macchinosità dei suoi gesti. Il contrappunto ai suoi pensieri erano gli abiti gualciti che si portava addosso da tempo incalcolabile e che lei, ufficialmente, non aveva mai passato in rassegna.
Astolfa aveva dato alla sua vita un significato infruttuoso sin dall’inizio e adesso che aveva quarantanove anni ne avvertiva i vuoti e le discrepanze, anzi tutto abbracciava nel fronte increspato della sua meccanicità. Più volte da piccola aveva stupito la maestra per il suo teorizzare arbitrario a partire dalla tepidezza del clima, dalla staticità dei monti o da talune luci inflessibili del giorno.
Astolfa battito d’ali infranto, Astolfa purezza sospirata, Astolfa spossessata al quotidiano.
I tremolii incessanti del giorno, le inavvedute gestualità del mattino, il protrarsi sonnecchioso di un rituale deprivato al senso, il sembiante aggrottato. Erano malvezzi di un coesistere tra le cose, silente, di un baratto continuo tra sé e altro da sé, in spazi senza codici,in aree disperse, in distanze incolmabili.
Astolfa, torrioni rugosi, levigature e asperità, percorsi tortuosi e rapidi cangiamenti, ripidi andirivieni, gobbe di pensiero, tersità di sguardi.
Astolfa, aroma di tempesta, fragore muto, Astolfa inespressa.
Astolfa e la luce: contorno nei contorni, ritaglio fermo di spazi, geometria netta e veloce, frangente rapido ma immobile.
Astolfa vortice. Astolfa prisma. Astola spirale ammiccante.
La allettavano i suoni: ne percepiva la dinamica sottile, ne avvertiva la ciclicità primaria e se ne faceva scudo con un ascolto smorzante, con l’orecchio proteso agli antipodi, al luogo dei suoni sepolti. Vi stagnava rapita cedendo ai timpani il peso dei frastuoni del mondo.
La rabbuiava la luce: ne avvertiva il calore invadente e se ne ritraeva atterrita. Conteneva, il chiarore, una forza squassante, un imperativo ad esistere tra le cose che aveva smarrito da piccola osservando per ore le punte degli alberi ondeggiare ai venti del meriggio o le zampe delle formiche incollate al suolo reso rovente dai fuochi di sterpi che inzeppavano l’aria di fritture mortali.
A casa se ne stava sdraiata sul letto, immobile, come si esercitasse a morire, come se addestrasse il suo corpo imbrigliato in quei panni lerci a quel momento finale di cui pure non avvertiva il senso di stacco, non intuiva varianti di ritmo.
Aveva sminuzzato per anni stoffe d’ogni tipo che le si erano poste davanti: asciugamani, tende, tovaglie, abiti anonimi e suoi, strofinacci, pezze da spolvero, centrini, ricami, teli da bagno, tutto era stato tagliuzzato con cura a formare listarelle minute e rigorosamente uguali per lunghezza e larghezza. In quel formulario geometrico rigoroso e preciso aveva ripetuto all’infinito quei gesti fino a lasciare sulle dita indelebili segni di uno sforbiciare senza sosta, come a spartire la sua vita in piccoli e minuti frammenti di provenienze diverse, da riordinare a partire da sfumature di colore sempre meno vivide, sempre più smorte, in una sequenza che sembrava privilegiare le tinte scure, il buio della stoffa, il buio della vita. Le riponeva su di un cassettone e le allineava con ossessiva meticolosità affinché nessuna fuoriuscisse da quelle pile perfette, architettura laboriosa di angosciante perfezione.
Sembrava trarre sollievo da quell’opera inesausta che le bruciava gli occhi fino a farli lacrimare, che le torceva le dita fino a farle sanguinare, che le stremava le membra fino a farla contorcere dai dolori alle ossa per il lungo rimanere seduta. In questo opificio dell’insensatezza si dileguavano taluni frastuoni sordi della mente, certe percussioni ostili che picchettavano e aggredivano la sua carcassa fragile e consunta. Il suo viso s’ingentiliva e ritrovava le amorevolezze infantili quando sui banchi di scuola attendeva con cura ai lavori effimeri, agli esercizi incompiuti della sua fantasia.
Astolfa schiacciata e risospinta ai giorni vuoti di sé, Astolfa, penitente e ignara, Astolfa caduca e possente nel suo vaniloquio col mondo.
Astolfa dimenticava il corpo. Lo depositava su un gradino, in piedi davanti ad un uscio semichiuso, ripiegato in avanti dinanzi ad una finestra, in un’ora ricca di pulviscoli che imbiancavano l’aria, carponi a seguire lungo un viottolo i saltelli di un grillo atterrito.
Lasciava quel corpo e se andava. Lo lasciava impietrito ad occupare una misura di spazio a lei ormai (e quando prima no) estranea, a rappresentare un pedaggio ormai obbligato da pagare alla sua vita spaccata e irricucibile.
Se ne andava per un tempo per lei non misurabile: gli occhi, le membra, le mani immobili per ore e ore avevano l’incombenza di dire che non c’era, che pure c’era stata, che forse sarebbe tornata.
Astolfa viaggio, esplorazione circumnavigata per rotazioni incomplete, periplo di stazioni cieche, Astolfa navigante errabonda, fissità del movimento, Astolfa perdita e rotrovamento, annegamento lieve, soffocato sparire, Astolfa stadio incompiuto, soggiacenza incredula.