Vent’anni

Hai paura di me?

Non potrei farti del male

nemmeno volessi.

 

Vedi come il mare cura,

protegge i suoi abissi?

Come il vento, galante,

conduce in danza i cipressi?

Come la fiamma illumina,

riscalda le mani protese?

Io sono come loro.

 

Non distoglierti,

non sfuggirmi,

Vieni, vieni vicino a me.

Lo vedi? Ho deposto le armi

ed ogni protezione.

Forse affogherai nei miei occhi,

sarai sferzato dai miei pensieri,

le tue carni bruceranno con le mie,

ma che importa, dunque?

Abbracciami.

Non sentirai più dolore.


 

Io, qui, per me, non so nulla

Io, qui, per me, non so nulla.

La mia mente

Rigetta ricordi

Come carcasse di navi portate dal mare

Orme di gabbiani,

Ciottoli, sabbia,

Ad un tratto la notte,

la lanterna di un faro.

Eroe di drammi –

Rivivo vite non mie

Negli occhi che incontro.

La dolcezza val bene una messa,

un sorriso vale tutte le fiabe del mondo.

Ma in questa cecità borghese… Io,

qui, per me, non so nulla.


 

 

De Pacto Arcanum. A. W.

Villa Savares. De Pacto Arcanum

Era giunta infine l’ultima notte.

L’orologio alla parete scandiva i minuti stanchi; lenti, più lenti, cadevano uno dopo l’altro come piume bianche sul pavimento, ma, man mano che movevano oltre, quelle soffici piume, dapprima candide e leggiadre, si facevano gravi di pece e assilli.

Egli attendeva; la pipa sazia di tabacco cadenzava gli ultimi rivoli grigiastri d’un fumo denso, sonnolento. Gli occhi suoi erano conficcati nell’attesa.

Era stato bello, forte, saggio e nobile, ma tuttavia, ora, nulla di questo importava più.

Il Contratto sarebbe scaduto quella sera stessa e nulla avrebbe potuto salvarlo dal saldare quanto pattuito. Quelli avevano già il suo cuore. A tale prezzo aveva pagato la sua casa, la sua attività, la sua potenza e conoscenza.

A quelli aveva pure ipotecato la sua anima, in cambio della garanzia dell’anonimato. Nel senso che qualsiasi cosa avesse scoperto, compiuto, prodotto o conquistato, nulla sarebbe valso a dargli fama o gloria agli occhi degli uomini. Così aveva vissuto una vita nascosta, priva di ingerenze esterne, libera come più libera non si potrebbe nemmeno immaginare.

Aveva smesso di esistere, in cambio della pura essenza.

Definirlo uomo sarebbe stato un motteggio; o meglio, nelle fattezze esterne rassomigliava ad un essere umano a tutti gli effetti, a un maschio adulto di poco più di mezzo secolo d’età, con gli occhi profondi, illuminati da rughette di espressione, la barba e i capelli chiari ben curati, le labbra corrucciate in una smorfia di scherno. Ciò nonostante, però, la sua umanità era stata risucchiata via nel momento stesso in cui egli aveva apposto la sua firma sulla pergamena, dando così inizio alla Collaborazione.

Il vuoto lasciatogli nell’intimo a volte bruciava.

Ci erano voluti anni di studio prima che fosse in grado di colmarlo per mezzo dell’Arte: quando non poteva fare a meno di uscire in mezzo ai suoi “simili”, allora indossava le protesi che si era creato. Cuciva due spicchi di luna alle labbra, per apparire sereno e sorridente, scambiava le iridi annacquate dei suoi occhi con anelli di zaffiri e diamanti, così che nessuno provasse paura o ribrezzo. Quindi ritoccava i suoi capelli e la peluria del volto con oro e platino, in modo che la sua bellezza abbagliasse gli sguardi che la spiavano. Per ultimo posava il rubino stellato nel cavo del petto, cosicché le sue membra fossero pervase da energia e voglia di vivere.

Quelle protesi gli consentivano per lo meno una serena convivenza con i paesani. Non che non lo considerassero strano, quello ovviamente era inevitabile, ma intanto lo ammiravano nella sua gran signorilità, e lo lasciavano in pace, anche quando dal villaggio venivano avvistati strani bagliori di colori inusuali che illuminavano le sue finestre, o quando vibrazioni provenienti dalle sue cantine scuotevano il suolo di tutto il circondario. Eppure nessuno lo infastidiva e i suoi esperimenti erano al sicuro.

Perché i poveri contadinotti e gli artigianucoli del paesello non lo sapevano e non lo avrebbero mai immaginato, ma era grazie a lui che le brutte epidemie di qualche anno prima non avevano mietuto vite. Era grazie a lui che la segale non era stata contaminata da funghi maligni, che la guerra non aveva preteso vittime e che i banditi non avevano depredato le casupole già povere delle campagne. Di quei banditi, anzi, furono ritrovati pochissimi resti; sembrava che fossero stati sbranati e divorati da creature gigantesche, ma nessuno si sforzò mai di indagare sul come e sul chi, o che cosa. E nessuno mai chiese a lui.

Quel paese era un giardino di pace grazie a lui, e, ora che stava per giungere il momento dell’addio, provava un po’ di nostalgia per non essersi mai lasciato scoprire. Aveva pagato a caro prezzo il suo passare inosservato, e ne era valsa la pena, però… però, ecco, gli mancava. Chissà se sarebbe giunto qualcuno a sostituirlo alla sua partenza o se anche quel pezzo di terra serena sarebbe caduto in disgrazia. Ecco, se qualcuno fosse giunto, avrebbe dovuto sapere quello che lui aveva compiuto, così da continuare l’opera.

Alzò un dito dal bracciolo della poltrona polverosa e subito, dallo scrittoio, il pennino si immerse nell’inchiostro e incominciò a tracciare dei segni su un’agenda. Quella lettera sarebbe stata il sigillo della sua dipartita.

La pendola incominciò a suonare. Uno, due, tre… sette… dodici… sedici.

Il diario si richiuse sullo scrittoio e il pennino si adagiò a fianco. Le fiamme del camino si estinsero. Egli sospirò; allontanò la pipa dalle labbra e la svuotò sul pavimento: le ceneri ardenti si posarono sulle assi, tracciando minuscoli circoli, poi si spensero.

Al sedicesimo rintocco le cose persero forma davanti ai suoi occhi, come risucchiate da un puntino minuscolo al centro del focolare, per poi essere rigettate fuori di slancio, ricomposte solo in parte, quando una porta circolare, sorta dal nulla, si materializzò proprio davanti al camino.

Ci fu un rumore di chiavistelli e l’uscio si aprì.

Egli sorrise all’essere che ne uscì. Questi scrollò via la fuliggine dai vestiti, poi fece il suo ingresso nella stanza. Era alto, snello, con il volto allungato incorniciato da capelli neri, spessi e lisci come setole.

– Maestro, – disse – è tardi. Vi stanno attendendo.

– Dai una mano a questo povero vecchio affinché si alzi.

Il giovane allungò una mano dalla pelle bronzo scuro all’uomo, facendo bene attenzione che gli artigli non lo ferissero.

Egli indossò il suo cilindro e si avvolse nella cappa. – Questi non Vi serviranno, Vostra Eccellenza.

– Lasciami questi miei pochi desideri, giovinastro.

– Come più Vi aggrada, mio Signore. Avete con Voi il Contratto?

Con un elegante gesto del polso, l’uomo rivolse il palmo rugoso al soffitto; la pergamena apparve a mezz’aria. – Certo – sorrise.

– Dunque non indugiamo oltre, Chiarissimo.

– Ti seguo. Portami, luce.

Il giovane socchiuse gli occhi di topazio e si infilò nella porticina. Egli respirò

profondamente e lo seguì tra le lucerne fioche incastonate nella roccia nera. “Addio…” pensò. L’apertura si richiuse alle loro spalle, esattamente così come era apparsa.

Nei giorni seguenti ci fu un grande fermento: chi era passato accanto alla Villa dietro  la collina si era accorto che era deserta, sebbene il fuoco nel camino fosse acceso e i giacinti, nel vaso sullo scrittoio, fossero freschi ogni giorno, come appena raccolti.

Un’ondata di eccitazione travolse la fantasia dei paesani ignari: “È partito!”, dicevano alcuni, “L’abbiamo visto trasformarsi in lupo e correre nei boschi.” “Siocchezze! Tutti sanno che è volato via con la luna nuova.” “Volato via? Ma lo ha inghiottito la terra, dopo quell’ultima scossa!” Le voci divennero notizie, le notizie, racconti stregati, i racconti diventarono leggende raccontate nella stalla durante le rigide notti d’inverno, quando gli ululati si facevano più forti e terribili, e le bestie sbuffavano spaventate.

Ma presto tornò la primavera, e tornarono le viole e i profumi del bosco a quietare gli animi.

E, come spesso accade, una volta scordata la paura, anche le leggende vengono dimenticate.

Fu proprio in un giorno del rinato sole primaverile che un uomo, uno straniero, si

affacciò sulla piazza del villaggio in un giorno di mercato. Portava un cilindro sul capo, ed era avvolto in una cappa blu.

– Domando perdono, potreste indicarmi la strada per Villa Savares?

– È ai confini di quel bosco, dietro alla collinetta… ma il proprietario non si vede da un

– È partito per un lungo viaggio e ha chiesto a me di occuparmi della casa, in sua assenza.

I suoi denti scintillarono come perle al sole, quando sorrise, prima di andarsene.

La sua bellezza risplendeva adamantina, abbagliando chiunque lo guardasse. I suoi

capelli neri rilucevano come ossidiana cosparsa d’argento. I suoi occhi profondi, cangianti come l’opale, bruciavano nel profondo coloro che li incrociavano; ardevano di fuochi eterni, come una fenice appena nata, risorta dalla cenere, ancora lambita da fiamme e torrenti di lava nelle sue piume di rubino.

E proprio un rubino colmava nel petto il vuoto lasciato dal suo cuore dismesso.