Nei panni di un amico

Cielo, scuro,
lo scruto ancora, anche se sono perfettamente consapevole che non ci sarò più là, lontano sopra e sotto le nuvole.
Fredda questa notte di marzo, silenziosa e limpida,
mi sento l’anima tersa quasi trasparente, c’è dolore ma anche speranza ,sento la mia vita in transito ora che non piloto più.
Stupito, sento la terra sotto i miei piedi morbida e accogliente ,profuma di ricordi, vecchi ricordi di erba primaverile carica di promesse, di fertilità attesa.
Spengo l’ultima sigaretta della notte lascio il buio ed entro in casa.
La mia casa: ogni stanza una storia, un ricordo, strano come questa notte riesca a percepire tutto così intensamente come se ogni dettaglio fosse sotto una luce da studio televisivo: senza ombre ,sfavillante e crudo.
Una casa in una piccola città fuori dal caos di una metropoli, dove i bambini possano vivere e crescere sereni e forse protetti, una casa che mi vedeva dieci giorni al mese, che chiamavo appena possibile dalle città più diverse New York, Mombasa, Milano e c’erano le tonsilliti, le varicelle dei piccoli ma anche i primi amori dei più grandi e così da lontano li sentivi dentro di te e li immaginavi come avvolti in bolle di sapone, lontani.
Non posso andare a dormire senza passare dal piccolo di casa, il figlio della mia età matura.
Dorme e russa, incredibile come un bambino così piccolo possa fare un rumore così forte e come al solito mi strappa un sorriso e mi commuove insieme.
Le lacrime così poco virili così umane e così necessarie nella vita di un uomo, più cresci e più ti rendi conto che le lacrime sono il dono più prezioso che un uomo possa farsi …insieme all’amore.
L’amore per la vita che cambia e che ti regala sempre qualcosa, anche quando te ne toglie molte di cose, l’amore per tua moglie per i tuoi figli e l’amore per gli amici quelli che ti amano… sia in cielo sia in terra.


Era Maggio

Questa volta non ho bisogno del suono del cellulare per svegliarmi, sono già sveglia da un’ora buona, ma non ho avuto la forza di alzarmi prima.
E’ sabato ,e come tutti i sabati da cinque anni mi aspettano i miei ragazzi e i malati ma oggi non è un sabato qualunque, io sono diversa porto dentro un dolore profondo, un grande smarrimento spero solo di riuscire a varcare almeno la soglia dell’ospedale.
Sono ormai due settimane che, ad ogni suono di una sirena il mio cuore si ferma e ripiombo nell’incubo di quella terribile giornata, quando, in poche ore ho dato l’ultimo addio a mia madre.
Davanti agli occhi scorrono come un film visto e rivisto: camici, voci e pianto, avrò ancora la forza di sorridere?
Come al solito scelgo con cura il mio abbigliamento, scarpe comode e niente trucco, anche perché non so se riuscirò a non piangere nell’incontrare i miei volontari che si sono già stretti a me in un grande affettuoso abbraccio virtuale.
Il percorso è breve, la mattina è calda in questo sabato d’estate, non affretto il passo: ho paura.
Sono concentrata nel tenere a bada il mio dolore e il mio sgomento, temo di non trovare in fondo al cuore la forza di essere un esempio per i volontari e di non riuscire a trasmettere la consueta serenità ai pazienti.
Sono davanti al bar, dove ci troviamo prima del servizio per due chiacchiere, eccoli arrivano alla spicciolata più timorosi di me …il primo abbraccio infrange il mio gelo e poi ecco ,sento il calore della loro amicizia, mi sommerge e i miei occhi appena umidi s’incontrano nei loro e siamo di nuovo insieme davanti ad un dolore.
Voci, domande, caffè, tutto si mescola nell’andirivieni del bar, dove pazienti e parenti si avvicendano nel solito caos del sabato mattina, ogni attimo diventa un fotogramma e scorre via.
Siamo nello spogliatoio, tutto si anima: agende aperte, armadietti spalancati, reparti da coprire, un abbraccio e poi via… resto sola con Anna Maria la mia prima compagna di questo incredibile viaggio AVO e come al solito non servono le parole, lei lo sa che oggi non andrò in reparto lei resterà con me, e allora forse un giorno tornerò a sorridere.


CRESCERE

Il sole era tiepido sentivo il tepore della mattina e stranamente eravamo sole, per la prima volta io e mia sorella facevamo colazione da sole.

La mattina era splendida tersa e fresca in quel giugno che era stato caldissimo, al bordo della piscina davanti a mia sorella sentivo che quello non sarebbe stato un giorno qualunque.
Sentivo, quel momento come sospeso tra il passato e il futuro provavo un desiderio fortissimo che tutto si cristallizzasse e diventasse come per magia eterno.
Laura sempre persa nei suoi sogni di dodicenne, chiacchierava animatamente e anche solo il suono delle sue parole mi teneva lontano da quel futuro che in fondo al mio cuore sentivo incombere oscuro e minaccioso.
Poi accadde, come una bomba, la dolce voce di Laura modulò una semplice e terribile domanda: chissà come sta il papà?
Sentii dietro di me la verità prendere forma e con una calma innaturale per una bambina di nove anni risposi: è morto.
Ma la mamma ha detto che è stato portato in ospedale….replicò Laura scuotendo il caschetto castano.
Sono sicura replicai… è morto.
Strano ripensandoci non provavo nessun dolore solo lo sapevo e basta.
Ci alzammo dal tavolo e salimmo in camera dove ci aspettava la nonna, che dolcemente ci fece sedere sul mio letto ancora disfatto.
Nonna Carolina, nonna materna una donna con una dolcezza ruvida e concreta che sapeva affrontare le situazioni più difficili, con poche e semplici parole ci disse che nostro padre era morto.
Chiusi gli occhi e ricordai il giorno prima.
Era pomeriggio subito dopo pranzo, il momento di massima calura, la piscina era deserta ed io e lui eravamo soli.
Ero sdraiata sul dondolo vicino all’acqua di un azzurro accecante, lui era seduto vicino a me e dolcemente cullava.
Tutto era immobile e silenzioso tranne il cigolio del dondolo, ero felice mi piaceva stare sola con lui in quel momento raro colmo di pace e di intimità.
Aprii gli occhi inondati di lacrime e diventai grande.


Giorgia

La strada è ancora lucida di pioggia, ma il cielo si è aperto al sole giusto in tempo per accogliermi, mentre mi affretto verso l’ospedale come ogni sabato mattina.
Il San Raffaele con la sua cupola incoronata dall’angelo bianco torreggia in mezzo agli ulivi, e tutto intorno si affolla il microcosmo dell’ospedale, pazienti e parenti, medici e infermieri.

Lascio dietro di me il mondo con le sue grettezze, la seduzione del denaro e la ricerca cinica e spasmodica del potere e ritrovo il piacere della gratuità, dell’essere solo me stessa al servizio di uomini e donne che, vivono un momento difficile della loro vita.

Aprendo la porta dello spogliatoio mi assale come il solito, il caratteristico odore di disinfettante che lo pervade da sempre, apro il mio armadietto e indossato il camice aspetto la mia compagna.
Annamaria, di origine italiana è nata nel Galles, capelli rossi e un humour inglese che spezza i momenti drammatici permettendoci di non esserne travolte.

Eccola, baci e abbracci affettuosi si chiacchiera di lavoro di mariti noiosi e capricciosi dell’ultimo tirocinante da controllare, e poi via verso il nostro reparto.
Oggi andiamo in neurochirurgia, un reparto difficile, dove i pazienti hanno subito interventi seri e la degenza è lunga e faticosa, ci sono molti parenti che a volte hanno bisogno di conforto o solo di poter staccarsi un momento dalla sofferenza.

Ci affacciamo discrete nella prima camera, un raggio di sole illumina il pulviscolo della stanza rendendo per un attimo l’atmosfera quasi irreale, ci sembra vuota, ma un movimento lento dietro l’antina del mobiletto davanti al letto, tradisce la presenza di un paziente.
E’ una ragazza giovane, esile quasi trasparente immersa nella luce della camera, indossa una vestaglia rosa e porta lunghi capelli castani sciolti sulle spalle.
Si volta verso di noi e ci saluta con un sorriso nei grandi occhi castani chiedendoci chi siamo, poi lentamente si avvicina al letto.

E’ cieca.
Rimaniamo immobili e raggelate, non siamo in grado di parlate per un lungo momento, poi Annamaria nota una tazza di caffè sul tavolino vicino al letto e improvvisamente le chiede come le piace il caffè.
Le piace dolce e molto caldo, e così Giorgia ci racconta come, dopo una febbre fortissima, abbia perso la vista, lei che ha venti anni ama la vita e spera che i medici trovino al più presto una cura .

La sua dolcezza e il suo sorriso ci incantano, la sua serenità è contagiosa ci ritroviamo a sorridere anche noi scoprendoci a nostro agio nonostante la sua cecità.
Parliamo del tempo, di vacanze, di mare, di terre lontane e ci raccontiamo dei sapori e dei profumi che abbiamo provato ognuno con il suo gusto e ci sembra di essere lì: ora siamo in Sicilia tra gli agrumeti e poi in Liguria con la focaccia di Recco tra le mani…

Non è facile andarsene, niente frasi fatte o auguri fuori luogo, delicatamente la salutiamo e allora proprio quando siamo sulla soglia della camera Giorgia dice: avete portato la luce in questa stanza.
Non dimenticheremo mai Giorgia immersa nel pulviscolo dorato con il suo incantevole sorriso e la serenità che ci ha regalato.