L’ANNUNZIATA

Ti lasciarono nei pressi dell’ospedale. Sul marciapiede erano parcheggiate due automobili nonostante a quei tempi se ne vedessero ancora poche in giro, anche in una città come Napoli.
Più avanti c’era una carrozzella, il cavallo distratto scalciava svogliatamente l’asfalto ancora caldo in quell’inizio di ottobre e sembrò non accorgersi di niente.
Alzasti il viso e i tuoi occhi incontrarono la Basilica. La facciata barocca ti diede sicurezza, perché somigliava un poco alla Chiesa del tuo paese, ma senza l’ombra delle montagne. Questa era molto piùgrande, e solenne, e tu la sentisti a un tempo protettrice e nemica. Eri sperduta e accaldata dal viaggio, cosìdecidesti di entrare e ti sedesti qui, proprio su questa panca dove oggi ti penso e scrivo, col mio notebook appoggiato sulle gambe.
Tu, invece, appoggiasti a terra il tuo fagotto, stendesti i piedi gonfi e ti massaggiasti lapancia.
Passò forse un quarto d’ora e una suora sbucò da una porta laterale, forse la sagrestia. Quando stava per scivolarti silenziosamente accanto la chiamasti: ” Suora….”. Suora e basta. E dalla tasca dell’ abito blu tirasti fuori il biglietto. La suora lo lesse senza una particolare espressione, forse appena negli occhi una rinnovata rassegnazione, e poi s’incamminò dicendo ” Seguitemi “, ma tu, pronta, eri già in piedi dietro di lei.
Dalla Chiesa stessa si saliva all’ Istituto, per un’ ampia scalinata di marmo, Percorresti lunghi corridoi puliti e sgombri, silenziosamente, senza fatica: il fresco e la neutralità di quel luogo sembravano averti introdotta in
un mondo diverso, lontano da quello di mezz’ora prima.
La suora si girò indietro un momento, non avvertendo il tuo passo leggero.
“Venite, vi sto portando in accettazione.”
Entrasti in una stanza piccola, dove la parete era occupata da un archivio traboccante di fogli, dietro la scrivania ci stava un’ altra suora, più magra, più giovane. Alzò il viso e notasti gli occhi chiari. Non avevi paura, né coraggio: avevi miseria sulle spalle, sull’abito spento, avevi miseria nelle scarpe sformate, avevi miseria nelle tasche vuote e nello stomaco che brontolava, ma possedevi una folla di pensieri, a volte perfino fastidiosi, in un turbinare senza sosta, e troppe emozioni non facili da tenere quiete in qualche luogo dell’ anima creato apposta per parcheggiarvi la speranza.
“Il vostro nome?” ” Rosa ” Rosa e poi? Rosa G. Da dove venite? Da M. vicino a Potenza. Di quanti mesi siete ” Nove mesi, tra tre giorni esco di conto “.
La suora giovane scrisse, guardò per un attimo la pancia, poi si alzò. –“Adesso vi accompagno subito in ospedale, se c’è l’ostetrica, vi visita subito”-
Ripercorreste lo stesso corridoio, poi giraste a destra, ancora una sala e un altro corridoio, e cominciavi a sentire gli odori tipici dei reparti degli ospedali.
Ti fecero sedere, finalmente, e ti dissero che ci sarebbe stato un poco da aspettare.

Ti visitarono dopo mezz’ora e ti assegnarono un letto, perché eri prossima.
In quello affianco al tuo c’era una ragazza sui sedici anni, il viso fresco quasi di bambina. Aveva partorito due giorni prima. L’ infermiera si rivolse ad una donna anziana, in piedi vicino al suo letto – ” Fateglielo vedere il bambino, almeno una volta sola”- Ma la donna sapeva quello che era giusto fare -“No no, appena possibile me la porto a casa, mia figlia è minorenne e devo decidere io”-
Avevi voglia di parlare con qualcuno, ma non sapevi cosa avresti detto. Soprattutto temevi le domande perché di risposte non ne avevi nessuna.
Sentisti che mi agitavo nella tua pancia ed istintivamente mi accarezzasti. Sdraiata sul letto, gli occhi si fissarono sulle antiche volte di quella imponente struttura che svolgeva da secoli la sua opera di misericordia
a favore delle madri sventurate e dell’ infanzia abbandonata. Pensasti a Pino, il tuo bambino di sei anni affidato a tua sorella per il tempo necessario. Per quanto? Sperasti il meno possibile, il tempo di risolvere… ma ti colse, a tradimento, una fitta di amarezza e il ronzio della mente ricominciò.
Ti avevano raccomandato quel luogo perché avresti lasciato il neonato in buone mani e gli sarebbe stato garantito in futuro migliore. Del resto altre vie d’uscita non ce ne erano: già un figlio era difficile da crescere, così da sola, indicata da tutto il paese. Che vita avresti potuto offrire a quest’ altro? E se fosse stata femmina, poi, ancora peggio, un maschio se la cava sempre, ma per una bambina era tutto più complicato.
E, soprattutto, lui te lo aveva fatto capire chiaramente: – “Il più lontano possibile dal paese, che io in queste storie non voglio entrarci, ti faccio accompagnare a Napoli e questi soldi te li tieni per le necessità,
per il resto non voglio problemi e mi raccomando di stare zitta con tutti, che la mia famiglia non vuole impicci”-.
Forse, in qualche momento, avevi fantasticato qualcosa di diverso, ma la fantasia non ti era consentita, cheuna miseria come la tua non poteva invocare rispetto e nemmeno pietà. Le regole morali che potevano
permettersi di seguire quelli che non ne erano afflitti non valevano per la casta degli emarginati: da loro ci si aspettava qualsiasi tipo di comportamento e ciò aggiungeva poco al normale disprezzo.
Anche questi pensieri ti giungevano come un’ informe sensazione di disagio, incastrati nella rassegnazione di sempre, e ancora di più di oggi, con quella guerra che aveva allontanato gli uomini e mandato al lavoro
bambine come te, con i piedi che bruciano, tutti scorticati dal bosco che regalava legna da vendere.
Ti guardasti le mani sciupate e la grossa pancia. Poi ti addormentasti dalla stanchezza.

Ogni mattina mi portavano da lei, e mi attaccavo subito, quel latte che non ricordo sapeva di madre. Lei mi abbracciava con tenerezza e sentivamo crescere la nostalgia. Quasi tutte le altre donne venivano dimesse
dall’ospedale dopo una settimana, e andavano subito via, dopo aver assistito al battesimo, nella Cappella della Madonna delle scarpette. Ma lei aspettava, con quel dubbio, e quella domanda impossibile. Con le femmine, continuava a ripetersi, era molto peggio, un maschio se la cava sempre, ma che avvenire poteva avere una figlia, se non quello di fare la sua stessa fine? La ragazza del letto affianco era andata via senza dubbi, e,
semmai ne avesse avuti, c’ era sua madre che di una cosa era certa e gliela ripeteva ogni volta che veniva a trovarla: – “ La creatura qua sta meglio che in qualsiasi altro posto, così tu ti scordi, ti sposi, e, dopo
di figli ne fai quanti ne vuoi “-
Nell’indecisione trascorsero venticinque giorni. Dopo i primi cinque Rosa era passata, portandomi con sé, nell’altra ala dell’edificio, nei locali dedicati ai bambini, e in quei grandi stanzoni ce ne erano tanti davvero,
che piangevano dormivano succhiavano, mentre i più grandi giocavano, tutti in attesa di uscire con una nuova mamma.
Poi venne quella mattina che io non arrivai per la poppata e ti dissero -“Rosa, la bambina e’ sistemata, abbiamo trovato una balia in Ciociaria, è meglio così, che tu hai anche quell’altro da crescere…..”-
Di nuovo quell’ingorgo di pensieri informi, rassegnazione e timore, malinconia e paura, certezza e dubbio confusero l’animo tuo: mentre tu non potevi decidere altri lo avevano fatto per te.
Sentisti le lacrime e ingoiasti.
Fatemela vedere un momento solo, se non è già partita.
Senza parole, mi potarono a lei.
Mi baciasti sulla testa e mi porgesti all’infermiera, compiendo, in quel momento, l’unico possibile gesto d’amore.


VISITA

Dietro una pietra bianca
solo le mie dita sfiorano la tua immobile dolcezza,
prendono calore là dove regna freddo
offrono amore troppo a lungo trattenuto
versano parole come gocce di un bicchiere lasciato a metà.

Scivola l’acqua sulla tua pietra e vorrei nascessero fiori di pensieri e carezze che potessero attraversarla,
la barriera.
Da qui la vita,
di là la vita ancora,
se a viverla per te potessi io, dedicandovi il mondo.

Ma gira la terra e mi ci devo afferrare, per non cadere nel vuoto.
Con te non posso morire
ne’ vivere di te.
Solo serbare quella pietra nel cuore e accarezzarla,
in un angolo di verità per sempre sfuggito
alle illusioni dell’effimero.


A TE, OGGI NONNA

A Te che oggi ancora hai regalato la vita
senza mangiarne il frutto
né provarne il sapore

A Te che scappasti per paura
fu estranea la gioia
di chi
oggi
stringe nelle braccia ciò che le appartiene

Gioia che noi non abbiamo conosciuto

A Te in questi attimi febbrili
s’ incatena la mia nostalgia
e ancora mi trema un pianto
e una domanda