IL SUO RAGGIO DI SOLE
A Maria Pelikanu
Dietro la grigia foschia, il sole, pigia la sua forza certo di trovare un pertugio sicuro per baciare chi spera in lui; e tu che guardi il cielo smarrito, ti senti colpito dal suo raggio come se qualcuno avesse messo mano alla faretra ed estratto quella freccia bollente solo per te.
NOVEMBRE 2000
La vedo, è in piedi accanto al semaforo, non è molto alta, ha lunghi capelli neri e un vestito rosso di pelle, sembra Tata Francesca, proprio come mi hanno detto. La vedo, si sbraccia come se avesse visto una persona che non vede da anni, mi fermo, abbasso il finestrino neanche dovessi chiedere informazioni, ma lei apre la portiera, sale e inizia a parlare.
“Ciao Rico” – non mi dà modo di rispondere – “… sei ritardo, mi aveva detto che venivi trenta ora fa” – il suo italiano è impreciso e dice cose assurde, esilaranti, soffoco risate in continuazione – ” … non sai il poco freddo che ho avuto, gelavo” – Poco freddo o gelava? Questa è in aria come un balcone – “sei un angelo che mi porti a casa, domani andiamo al centro commerciale?” – io sono ancora fermo all’immagine di questa sconosciuta in piedi al semaforo da trenta ore – “Allora se non ti va il centro commerciale vengo da te mentre lavori, sto li, leggo, a me basta stare in tua compagnia, sei una persona speciale” – ok… è fulminata, completamente fulminata – “non parli?” – se stessi zitta un attimo – “che musica ti piace?”. Finalmente posso parlare e balbetto “Mietta”. Non ho il tempo di proseguire che lei è già in uno stato euforico che Mietta è proprio la sua cantante italiana preferita, la ama come la amo io. Mi stupisce, per lei la canzone più bella è un duetto poco conosciuto con Amedeo Minghi?, IL PROFUMO DEL TEMPO, lo credo anch’io, ma non riesco a dirlo che lei ha già cambiato argomento e mi sta raccontando tutto della sua famiglia, del suo Paese, del mare di Creta, del sole di Creta, del caldo di Creta… “Ah… sei della Grecia!” dico sorpreso, ma lei mi fulmina e mi corregge “No, io sono di Creta” – ma Creta È in Grecia?!
Ho mal di testa, credo siano stati i dieci minuti più intensi della mia vita. “Ci vediamo domani alle 8 da te?” e intanto scende, sorride, fa un balletto, ora un inchino, mi manda un bacio silenzioso e io annuisco – non aprirò mai – ricambio il bacio soffiandolo via dalla mia mano e mi ritrovo coinvolto in una danza di Zorba statica, la saluto e fuggo via.
Non ricordo altro di quel giorno.
Sono le 8, la sveglia sta suonando da un po’ – aa aa a far l’amore comincia tu… e se ti lascia in un letto vuoto il vuoto daglielo indietro a lui… – e continuo a dormire nonostante in lontananza percepisca qualcosa di strano, mi sforzo, cerco di capire e ad un tratto capisco, è la greca , sta cantando la mia suoneria della mia sveglia, ho una Carrà greca sul pianerottolo, è folle, mi alzo, corro allo spioncino e la vedo, la vedo che balla con in mano un ombrello e un vassoio di pasticcini, la vedo e sorrido, mi metto a ballare pure io dietro la porta, “Mi apri? Sono Maria, la tua greca” e dice greca, e io ribatto “Io non conosco alcuna greca, solo una cretese”. Ride.
E le aprii.
E non le aprii solo quel giorno, le aprii tutti i giorni per cinque anni, finché non si laureò e ritornò a Creta.
Rimanemmo in contatto, poche ma intense telefonate. Mi diceva che a Creta per tutti era ‘l’italiana’, ma che le mancava terribilmente esser chiamata ‘la greca’ qui a Bergamo.
Venne a trovarmi due anni dopo. Una breve vacanza, mi fece una sorpresa. Era ospite da altri amici. Riuscii a vederla solo una volta, una lunghissima volta.
SETTEMBRE 2007
“Raggio…” – adoro che mi chiami raggio, il suo raggio – “… non c’è bisogno di fare nulla di particolare, mi vieni a prendere e mi metto in auto con te come ai vecchi tempi per tutto il giorno finché non ti stanchi, tu lavori, io ti faccio compagnia, ma di sera andiamo fino a Lovere cantando. Ok? Domani alle 8?”.
“Domani alle 8″.
Sono le 8 in punto e sento cantare sul pianerottolo, è lei, la mia Maria, ha persino un tamburello. Saliamo in auto e via. “Parla sempre e solo Maria” dice facendomi il verso, ridiamo, ridiamo di gusto, mentre io butto giù questi dolci di Creta che lei è convinta siano i miei preferiti, cantiamo a squarciagola, stoniamo tutto il repertorio anni 80 della musica italiana, ama Pupo, Gelato al cioccolato e Su di noi, poi Mina, Mia Martini e naturalmente Mietta e qualche lacrime cade pensando ai nostri cuori da sempre spezzati.
C’è una curva, non la vedo, sbando, finiamo fuori strada, non parla più nessuno, i dolcetti cretesi sono caduti sul tappetino. Ci guardiamo, siamo spaventati e poi ad un tratto abbassa il finestrino e butta fuori i dolcetti uno per uno “Tanto non ti sono mai piaciuti” e scoppiamo a ridere, fino alle lacrime. Piangiamo e qualcosa mi passa per la testa, veloce, un brivido scorre sulla mia pelle e se ne va.
È notte, Lovere è già lontana, è il momento dei saluti.
“Non diciamoci addio Rico”
“Allora… arrivederci Maria”
Scende dall’auto, è accanto al semaforo del nostro primo incontro, mi manda un bacio dal finestrino.
“Domani alle 8?”
“Domani alle 8″.
E poi Maria la greca si girò di spalle, io schiacciai sul pedale e ritornai tra le mie nubi cariche di pioggia, piene di lacrime.
Dietro la grigia foschia, il sole, pigia la sua forza certo di trovare un pertugio sicuro per baciare chi spera in lui; e tu che guardi il cielo smarrito, ti senti colpito dal suo raggio come se qualcuno avesse messo mano alla faretra ed estratto quella freccia bollente solo per te.
Era sbucata dal nulla, una telefonata improvvisa.
“Daresti un passaggio a una mia amica? Ha perso l’autobus…”
“… e come la riconosco?”
“… la vedrai di sicuro… sembra Tata Francesca, quella del telefilm”.
E io la vidi, vidi un angelo caduto dal cielo, tutto per me.
AGOSTO 2010
Perché quando sei venuta non mi hai detto che avevi un tumore al seno? Proprio come mia mamma… Eppure lo sapevi, lo sapevi già. Avrei potuto dedicarti più tempo quel giorno, in questi anni. Eppure avevi cercato di dirmelo.
“E se fossimo morti?” avevi detto quando siamo finiti fuori strada.
“E se morissi Rico? Magari questa è l’ultima volta che ci si vede”, ma io non ho colto e ho fatto una smorfia pensando a mia madre che della morte non ne parla mai.
Mi hai chiamato ancora una volta. Non avevi più voce che le chemio te l’avevano rubata.
Due anni prima…
OTTOBRE 2008
“Vengo in Italia con mia sorella tra un mese. Ho vinto Rico… ho debellato quel bastardo. Sono pulita”.
E il mio sole tornò a splendere. Era ottobre. Poi arrivò novembre e nessuno venne Italia. Silenzio. Ho visto per giorni tutta la gente che arrivava da Heraklion. Nulla. Tu non c’eri mai. Arrivò Natale. Un silenzioso Natale. Il tuo cellulare suonava libero e io mi volli convincere che era uno dei tuoi tanti soliti silenzi.
FEBBRAIO 2009
È febbraio, ti chiamo, ci riprovo, finalmente qualcuno risponde al cellulare, una voce come la tua, ma non sei tu, dev’essere tua madre, non ho il tempo di dire nulla, “Raggio oh raggio… no c’è Maria”, e in quel momento capisco che sul cellulare dev’essere uscito ‘raggio’, ma non afferro altro e la voce lo ripete, spacca il mio silenzio che teme di aver capito. “No c’è Maria… Rico”. Sento un uomo che si avvicina, libri che vengono sfogliati velocemente. “Sono il medico di Maria” dice l’uomo. “Maria è morta”. Sono in auto, fermo, fa freddo, la neve ha già coperto tutti i vetri e io non mi muovo. Non riesco a dire nulla “Maria è morta, vocabolario, non parlo bene italiano Enrico”. Enrico, non più Rico.
OGGI – Agosto 2010 ore 8
Sei morta il 3 gennaio 2009 per una meningite che ormai eri troppo debole. Ti hanno avvolto in una bandiera dell’Italia come volevi e riempito la bara di rose bianche, cento rose bianche, e io ho visto le foto di te morta, un angelo.
“Sono dovuto venire fin qui, a Kritza, per vedere la tua tomba e ora sono qui seduto, seduto sopra di te, incredulo, perché ancora non me ne ero reso conto che eri morta davvero”.
La lontananza è una silenziosa abitudine.
Appoggio questo fiore che ti manda mia madre, a lei l’ho detto solo pochi giorni fa, non ne avevo il coraggio, non avevo il coraggio di dirle che si muore davvero. Mi alzo, poi mi abbasso a baciare la tua foto, digito play al cellulare e Mietta inizia a cantare la nostra canzone preferita.
“… e il tempo torna indietro
e mi dà la mano, sento il suo profumo,
quando mio padre regalava
carezze di tabacco e lavanda
e i dolci di Natale, l’alcool sul ginocchio
che fa tanto male
se io giocando a corda sbagliavo e cadevo sul mondo…”
“Ciao Maria”… e la vedo.
“Domani alle 8?”
Domani alle 8.
COME BOTTIGLIE SENZA MESSAGGI
Siamo al buio. Non vedo gli altri, ma sento i loro infiniti respiri sul collo, sulla schiena, sulla faccia. Respiro il loro fiato. Siamo un unico respiro. Non mangio da settimane, non bevo da giorni, allungo la lingua, fatico, fa male, mi disseto d’umidità, sento addosso il sapore delle lacrime miste alla salsedine di questo mare padre del nostro destino. Le sento, sono le mani di mio figlio, mani gelide, le tengo strette nelle mie e insieme balliamo in balìa delle onde sotto l’esile legno di quest’imbarcazione rudimentale, onde che ci portano via da quella poltiglia di cemento che è diventata la nostra città. Se m’avessero detto che un giorno avrei abbandonato la mia casa, non gli avrei creduto. Ho riso in faccia a chi mi disse tempo fa che io, mia moglie e mio figlio ci saremmo ritrovati qui. Eppure sembra ieri.
“Papà perché mi devo vestire di rosso?”
“Faremo un lungo viaggio amore mio e ti devo trovare facilmente se ti allontanassi da me”
“Non mi voglio allontanare da te. Non voglio scappare da qui”
“Dobbiamo… siamo in pericolo, hai visto ieri?”
“Ma perché buttano le bombe? Su internet ho visto che tutti scappano, ma dove vanno?”
“Non lo so, ma in un posto sicuro piccolo mio…”
Guardo mia moglie e nei suoi occhi vedo che non crede alle mie parole, ma noi ce la faremo, lì saremo al sicuro, troveremo un angolo di cielo che non sputi morte.
E ad un tratto il mare balla, i respiri diventano occhi spalancati nella notte, centinaia di occhi, non li avevo ancora visti, gridano e la barca si inclina, tengo strette le mani di mio figlio e sento mia moglie piangere ma è un eco sempre più lontano. “È caduta in mare, è caduta in mare” dice qualcuno. Non ho il tempo di capire, il mare è una bolgia infernale e la barca si rovescia e tante mani quanti occhi chiedono aiuto e sono tanti quelli che non sanno nuotare, troppi. Bevo acqua di mare, mi brucia lo stomaco, mi bruciano gli occhi e le mie mani non le stringono più, sono libere di chiedere aiuto, libere da mio figlio e il panico sale, nuoto, vedo rosso, rosso ovunque, ma non è lui. Lui sa nuotare, lui ce la farà e allora nuoto anch’io finché ho fiato, finché le urla tornano mute.
Siamo silenziosi corpi che gelano nell’oceano, fa freddo e a tratti qualcosa illumina le teste naufragate, non è la Luna, è un faro, ma se ne va, viene e se ne va. Galleggiamo come bottiglie senza messaggi. Molti occhi sono ormai chiusi e le bocche spalancate imbarcano acqua, è questione di minuti e poi affondano, uno a uno.
Il sole sta sorgendo, qualcuno grida, io vedo un puntino rosso, l’adrenalina mi porta a riva, mi trascino verso quella che si fa virgola col passare dei minuti. Ora lo vedo, è lui, è mio figlio, è lui su quella spiaggia, come sono felice, lo chiamo, non riesce a rispondermi, povero, non ha fiato e per un attimo non mi sfiorano altre possibilità. Grido il suo nome, sempre più forte, grido sempre più forte e mentre grido il mio grido diventa di dolore, il mio grido grida, il mio grido non smette di gridare, il mio grido capisce, il mio grido lo raggiunge, il mio grido si accuccia accanto a lui e muore, il mio grido muore, muore accanto al corpo esanime di mio figlio, mio figlio, stretto nella sua maglietta rossa.
E sembra ieri.
“Papà perché mi devo vestire di rosso?”
“Faremo un lungo viaggio amore mio e ti devo trovare facilmente se ti allontanassi da me”
LEI
Ad Almerinda Sassaro
È nero, bollente, sa di nuovo e sale da terra come afosa paura che mi penetra in questa strana serata d’inizio settembre. È intonso, ancora vergine, una lavagna nuova che attende i miei ingessati pensieri. Quest’odore di asfalto fresco lo porterò sempre con me e per sempre, respirandolo, penserò a LEI.
Ho già potuto assaporare la morte, sono vedovo di un folle amore, ma ora, stretto nei miei ventuno anni, sto per salire le scale di quest’ospedale che sa di gomma e disinfettante e sto per sfiorarla nuovamente, per riassaporarla, in una veste diversa, sempre più cupa.
L’ho vista per l’ultima volta ieri sera, non parlava, ma i suoi occhi dicevano tutto. Io e mia madre le abbiamo stretto le mani, io la destra, lei la sinistra. Non abbiamo detto una parola. Non abbiamo pianto. Eravamo tre sorrisi pronti a salutarsi, certi di rincontrarsi.
Era una donna meravigliosa, amava la vita, era una che ha avuto poco e dato tanto, una che ti sapeva riempire la pancia anche con un semplice sorriso.
Era un’orfana di guerra, un passato misterioso, un ricordo in bilico sulla lama di una spada appesa in corridoio e figlia di due fotografie in bianco e nero. Era una donna senza infanzia, ma protagonista della mia.
È nero, bollente, sa di nuovo e sale da terra come afosa paura che mi penetra in questa strana serata d’inizio settembre. È intonso, ancora vergine, una lavagna nuova che attende i miei ingessati pensieri. Quest’odore di asfalto fresco lo porterò sempre con me e per sempre, respirandolo, penserò a Lei, alla madre di mio padre, perché Lei era una parte di me, Lei… era mia nonna.