Poesie
LIBERO
Usciva col vestito della festa,
sul bavero un grande fiore rosso,
con orgoglio in segno di protesta,
in piazza gridava a più non posso
“abbasso il duce” e poi fuggiva
per evitare d’essere percosso
e succedeva allorché veniva
il gerarca ad arringar la folla
e tutto il paese riuniva.
Ma come l’animale che barcolla,
ferito prima d’esser catturato,
finì, dopo un gran tira e molla,
a terra col volto insanguinato,
e quella volta non riuscì lo scherno
a tutto l’apparato dispiegato.
Poi pugni e tanti calci sullo sterno
e fu la fine di quel disgraziato
che sulla libertà faceva perno.
Lui, Libero che finì massacrato,
e preferì una morte onesta
a quell’infamia d’esser torturato,
mi resterà per sempre nella testa,
sul bavero un grande fiore rosso,
immenso nel vestito della festa.
LAMPEDUSA
Nei sentieri che disegna il vento
un uomo vedo, forte, che si sforza
per arrivare all’appuntamento
con la speranza che mai non si smorza,
a qualsiasi rischio già propenso
perché confida nella propria scorza.
Poi solo azzurro mare immenso
benché mai prima d’ora conosciuto,
per invertir decisamente senso
a quella vita spenta ch’a vissuto,
finché, dall’alta onda catturato,
disperatamente cerca aiuto.
Vigliacco mare, cupo, scellerato,
che nell’orrore togli qui, adesso,
il miraggio a lungo vagheggiato.
Ho visto uno sguardo sottomesso,
sembrava quello di un condannato
che sconta colpe che non ha commesso,
ma la colpa grave è l’esser nato,
e non sapendo com’è capitato,
in un bel posto ma per lui sbagliato.
Ho visto uno sguardo disperato
per la speranza ormai resa vana,
dal pianto per aver abbandonato
quell’aspra libertà della savana,
e che rimpiange con gran turbamento
la sua bella Africa lontana.
Ho visto uno sguardo che s’è spento,
fra tanti sguardi ormai disillusi
che ci costringe tutti al tormento,
colpevoli e già così confusi ,
per quell’orrenda morte che colpisce,
per quegli occhi che si sono chiusi.
Però se guardo meglio si capisce
che sono tanti, è tragedia vera,
e la loro vista inorridisce.
I tanti sacchi di plastica nera,
che sembrano però dell’immondizia
in fila tutti nell’orrida sera,
accendono la più triste mestizia
esplosa già da quando m’arrivava
all’improvviso la triste notizia.
In ogni sacco quello che restava
di chi cercò senz’acqua né le scorte
di non morir nel viaggio che sognava,
finché il mare ne segnò la sorte
lontano dalla costa e dai porti
lasciando il fetore della morte.
Tutti ora se ne sono accorti,
perché qui ora giacciono per terra
e ben allineati, però morti
per fuggir dalla fame e la guerra,
e la disperazione di ognuno
avrà la pace solo sottoterra.
Pietà che non si nega a nessuno,
purché non ci si metta alla gogna,
così non accadrà mai che qualcuno
assuma ogni colpa e vergogna
dei corpi stesi come tanti pacchi,
uccisi da razzismo e menzogna.
Perché non c’è nessuno mai che stacchi
dal malinteso senso di giustizia
per dire che quei corpi in quei sacchi
comunque sono solo immondizia,
pattume anche quando sono vivi,
da togliere com’è ogni sporcizia?
A MIO PADRE
Non so perché la mente mi trascina
nel sogno strano che mi lascia scosso:
c’è una folla che sembra vicina,
fra sguardi fissi che ho già addosso
uno l’attenzione mia reclama,
vorrei avvicinarmi ma non posso
a quell’anziano che mesto mi chiama
e muove le braccia sue invano
perché parlarmi, stringermi lui brama.
Vorrei toccarlo, prenderlo per mano,
purtroppo sono vani tentativi,
così lo guardo solo da lontano.
Mani nodose come gli ulivi
che di tempeste vantano vittorie,
dal tempo consumati però vivi.
Gli occhi che raccontano le storie,
serbate dentro l’animo sincero,
di personaggi di vecchie memorie.
Postura di un uomo molto fiero
segnato un po’ dal tempo vissuto,
ma inconfondibilmente austero.
Guardando meglio l’ho riconosciuto
ma l’entusiasmo subito si smorza
nel rivederlo triste, abbattuto.
Dov’è finita tutta quella forza,
ch’è propria d’un intrepido guerriero,
racchiusa dentro l’apparente scorza
di uomo duro, burbero, severo,
intollerante della prepotenza,
in realtà troppo buono e vero.
La scorza cresce dietro l’esperienza
già fatta per uscir dalla palude
ch’ognuno rischia dentro l’esistenza,
di fuori può sembrare dura, rude,
difesa di affetti mai esposti,
protegge i tesori che racchiude.
Tesori che a volte son nascosti,
ancor di più nell’individuo buono,
nel fondo d’ogni anima riposti,
per ognuno il primordiale dono
che col tempo cambia ed evolve
come amore, dignità, perdono.
Perché il tempo poi tutto risolve
d’ogni cosa è giusta medicina,
così anche la scorza si dissolve,
e se la fine si fa più vicina
e non c’è più futuro che si vede,
si sente il sapore di rovina,
chi crede già s’aggrappa alla fede
con la speranza certa d’un aiuto,
nel dubbio disperante chi non crede
e torna nella mente il vissuto,
le cose belle, brutte della vita,
ma col rimpianto del tempo perduto.
La storia sua ora è finita
e mi manca ogni suo consiglio,
ma la lezione non sarà smarrita,
retaggio di quel burbero cipiglio,
inciso nella mente però resta
l’orgoglio di essere suo figlio.
Ben prima che andasse via di qua
avrei dovuto dirgli queste cose
un’occasione in più non ci sarà,
e tutte le parole affettuose
che non gli ho mai detto chiaramente
per me sono le pene più spinose,
rimpianto che m’ottenebra la mente,
m’immerge in un mare di tristezza
che non sarà smaltita facilmente,
ancora sento forte l’amarezza
di non averne colto i desideri:
sarebbe bastata una carezza.