A suon di click!
IO: Intraprendo il viaggio dell’astratto,
mi abbandono allo sfascio dell’impatto,
solo per aspettare il caliente suono
del tuo sorriso, che si imbatte come un tuono
durante una tempesta, in cui il lampo
sprigiona quella luce in un cielo di fango.
Sento la fitta che mi attraversa le mani,
sento il cuore che si divide come fossero rami.
Guardo le mie gambe in fragilità
ed i miei pensieri si abbandonano in staticità,
creando alibi inquietanti
che non tacciono, ma incessanti
si tramutano in silenzi assordanti.
Un contrasto di acque dissetanti,
che avverse alle bestie mutanti,
si abbandonano a lacrimoni stanchi.
Sento l’agiatezza in una carezza
pudica e nascosta di una tale bellezza,
che la percepisco solo ad occhi chiusi
che ritrovo solo al suono di silenzi tortuosi,
che perpetui, accompagnano l’insieme dei colori
che altalenanti disegnano e ricompongono gli stessi suoni.
Con la testa poggiata sul mio palmo,
annullo tutto il contrario dell’aggettivo “calmo”.
Riprendo la mia danza che si avvia dall’interno,
per ribadire la vera essenza anche all’esterno,
per arginare il pensiero portante,
per rinforzare il tuo respiro altalenante,
che attraversa i miei pensieri ansimanti,
che si arresta nella sottigliezza dell’aorta
che non mi lascia indietro, ma è da te affetta,
impotente, al tuo cuore mi trasporta.
LEI: Non ti ho lasciato da solo e indifeso,
ma ingenua ti ho preso e ti ho strappato
da quella parte di me troppo estrosa,
in cui non saresti stato ospitato.
Ti ho tratto con dolcezza e forza
senza farti accorgere della funesta corsa.
IO: Mi hai assordato, senza darmi le orecchie;
Mi hai azzittito, senza darmi la bocca;
Mi hai amato, non facendomi crescere il cuore;
Mi hai accarezzato, senza darmi le mani,
Mi hai soffocato, senza farmi respirare;
Mi hai fatto partecipare alla corsa, senza dami le gambe;
Mi hai tenuto stretto a te, senza darmi le braccia;
Mi hai dato immaginazione, senza darmi una testa;
Mi hai accecato, senza darmi alla luce;
In un grido soffuso,
in un rumore di click,
in un battito di suono,
in un grido disperato.
con un semplice gesto,
hai mandato giù quel veleno,
che mi ha strappato la voce,
mentre stavo sussurrandoti:
“che bel regalo mi hai fatto, mamma”.
Erica Gravino
Un Attimo, Eterno!
…Quella voce che implode senza trovare sbocco, senza ragionare tra le pareti, senza trovare il nord o il sud, nonostante l’informazione fornita dalla bussola che tieni in mano. Leggere per non capire, guardarsi intorno per non orientarsi, ma continuare a perdersi nel labirinto, nel corridoio, tra quello spazio che riprodotto su scala, non occupa che qualche cm; mentre nell’ingombro del mio tempo, viene proiettato mediante una lente di telescopio. Nel frattempo, la strada si ingrandisce, la figura diviene sfuocata e striminzita. Senza fiato, corro, scappo, non mi fermo, ma ansimante ad un tratto, poggio le mani sulle ginocchia: i battiti del cuore hanno già intrapreso una gara contro il tempo dei sospiri e dei respiri affannati.
Tra quelle stesse pareti, si intravedono sassi enormi, che continuano ad ostacolare il passaggio, mischiato con minuta ghiaia che continua a segnare il percorso, antecedente ai passi. Ma dinanzi a me, ancora un altro muro che ostruisce il passaggio, mentre dall’altra parte del muro..
..il muro che mi sono lasciata dietro, annullando alibi, arginando rumori e non ascoltando le nullità. Ho messo un paio di cuffie per continuare ad ignorare quella voce, che decisi di lasciare dietro quel muro, che decisi di costruire per virtù e per necessità. Accompagnata da un brivido che continua a guidare i miei passi, quei brividi che sono il mio nord, ed il mio sud. Ma, mentre mi guardo intorno, intravedo la consistenza delle pareti , tradite da lacerazioni, da quella lava incandescente, che fa male alla vista ed ai miei sensi, che scotta se poggio il palmo delle dita, perché nonostante le estremità dell’intaccatura si richiedessero, quel liquido incessante continua a scorrere, per disperdersi, mutarsi ed annullarsi sul fondo della strada.
Vi sono vari colori tra le fessure:
– il primo, prende il colore del tuo sorriso, che sapeva prendermi per mano, che ha saputo confondere i ruoli e le idee, volendo assomigliare sempre più a te, solo perché riuscivo a vederti come quella persona giusta, quella da cui imparare, quella che non mi avrebbe mai lasciata; il colore dell’infinito e del “per sempre”, vedevo sugli angoli delle tue labbra, mentre i tuoi abbracci avevano il sapore di quel ti voglio bene, mai detto, e del tuo esserci “inesauribile”.
– La seconda, ha il colore dei tuoi passi, sempre pronti a scappare, non contando mai le andate, ma numerando i ritorni; ed io, con la speranza di porre la parola fine, serbando un possibile ritorno definitivo. Il tuo colore è ombrato, è fango, che per quanto sia elegante se abbinato ai colori giusti, sa essere spento se non si ha voglia di dargli il giusto valore. Ho cercato di vestirti con abiti eleganti, ma ad ogni mio passo, ogni qualvolta portavo a te un mio indumento, tu decidevi di non indossarlo, rendendo il tutto inaccettabile, rendendo il tutto sempre più opaco e incompatibile.
– La terza, ha il colore delle tue parole, che costantemente continuavi a ripetermi, perse tra quelle immagini che l’una dietro l’altra, proiettavi in un video. Il calore di quelle sere passate in casa a ridere ed a parlare dei nostri disagi, disavventure, ma anche gioie. Il verde bottiglia ti caratterizza, come quella speranza di un proseguo che decidesti di spezzare ed imbrunire.
– La quarta, appartiene a te. Tu, che nei tuoi occhi avevo riscoperto un mondo; con te, che avevo progettato il mio domani; tu, che immaginavo di abbracciare sotto il tetto della nostra casa, in quel viaggio che avremmo dovuto intraprendere insieme, in quel viaggio in cui mai e poi mai avrei lasciato la tua mano. Ogni giorno, mi sarei specchiata nei tuoi occhi, e con le mani avrei accarezzato il tuo viso, assaporando lo scorrere del tempo, facendo mie le tue paure, donandoti anche il coraggio che non posseggo. Una sfumatura sei, che non mi lascia, ma che accompagna i giorni miei, diventando prepotente: lasci lo stato di sfumature, per divenire un colore pastello.
– Ultima, ma non per importanza, tu. Sei arrivato così di punto in bianco, hai sconvolto le nostre giornate e non hai più avuto voglia di andartene. Sei arrivato come un ladro, rubando la serenità, rubando i piani, rubando ciò che era mio: quotidianità e futuro. Ti sei intromesso come un’ospite inaspettato, inadeguato e sopratutto non voluto, durante un’importante cena di famiglia. Hai portato con te lacerazioni, fuori e dentro il cuore. Hai portato con te pensieri, confusione ed imbarazzo, senza mai riuscire a dedurre il perché della tua visita. Non ti aspettavo, e questo è noto! Ma sei il nero della pece, che faccio fatica ad arginare, che faccio fatica a superare, incorporando un’armatura che mi sta a volte larga, a volte stretta.
Ma oltre a tutte queste fessure, c’è un vento che continua a spostarmi in avanti, costringendomi a salire quei gradini che si proiettano davanti agli occhi: inizio a contarli, ma sono troppi e perdo i conti. Ma, mentre sono intenta a salire, mi affanno ma non mi stanco; nonostante le lacerazioni, il cuore mi supporta benissimo, ma ad un tratto, dopo l’ultimo gradino, il piano si distende ed ogni senso prende forma in bellezza inesauribile.
Non avevo voglia di camminare, ma un fiato mi ha portata qui, non so perché, non so del perché adesso, non so cosa io ci faccia qui, ma probabilmente dovevo raggiungere questo posto. Se posso dare un’occhiata intorno: è tutto bellissimo! La forte Luce non mi acceca, ma risolleva il mio animo, dà sospiri di benessere e sollievo al mio cuore, mentre le lacrime iniziano a scendere dai miei occhi, le mie ginocchia si abbandonano alla bellezza del luogo, a quell’aria di serenità e di tranquillità che non ho avuto mai. E mentre mi accascio, noto che i miei abiti adesso sono bianco candido, che quel che copre le mie nudità è solo una bianca veste. Non sento più il peso della mia carne e se mi volto verso le ferite, non mi fanno più male, non sento il loro calore, ma tutto ciò che sento è Amore, serenità e sicurezza. Ma dove mi trovo? E Tu, che mi tendi la mano, chi sei?
“Ti aspettavo da tempo, ma solo adesso è il momento giusto. Mi domandi chi sono, ma come, non lo vedi? Ti ho vista mentre i tuoi pensieri ti davano tormento e tu non riuscivi a trovare orientamento, neanche con la bussola che tenevi in mano: i tuoi occhi erano aperti, ma non vedevano; ascoltavi i tuoi sensi, ma non ti orientavi. Ho visto le tue piccole mani costruire muri più grandi di loro, più grandi di te. Ti ho visto come li oltrepassavi dopo averli costruiti, e ricordo quando inciampasti, ma senza mostrarMi, Io ero lì a darti forza per farti proseguire. Ho nel palmo delle Mie Mani, sul dorso dei miei piedi, e sul Mio costato quelle 5 macro lacerazioni che incontrasti tra le vie del tuo cuore, ma ne ho anche di più, perché quelle che tu dimenticasti, Io le ho incise su di Me, affinché le tue ferite fossero più lievi.
Ti diedi forza in ogni momento in cui pensasti di non potercela fare.
Guarda figlia Mia, Io sono il Tuo Papà, il Tuo Salvatore e Creatore. Arrivasti solo oggi a me, perché è così che è scritto nei miei piani. Tu sei mia figlia. Non temere più, perché tutto questo è tuo, perché il Padre mio ha costruito e preparato stanze per te. Guarda, il tuo nome è scritto nel libro della vita. Vieni a Me. Io curerò il tuo cuore, Io rinnoverò il tuo cuore, abbi fede in Me figlia mia, perché Io non ti lascerò mai. Sono qui, mi avrai ogni giorno, in ogni istante avrò la mia mano nella tua, e se non vedrai due ombre nel riflesso dell’acqua mentre osservi il tramonto, non temere, non dubitare, credi in Me, perché in quel momento, le tue forze non saranno abbastanza per sostenerti, ed allora, sarà quello stesso momento in cui io ti prenderò in braccio, perché le Mie braccia saranno la tua culla, il Mio petto sarà il tuo cuscino. Credi in Me, perché il Padre Mio ti ha tanto amata, che ha dato il suo figlio unigenito per salvare te. Non temere. Dimora le tue speranze nel Signore, abbandona la tua carne e vivi secondo la volontà del Padre Tuo, perché nessuno ti amerà mai più del Signore Dio tuo. Solo una cosa, credi.”
Le parole che il signore mi rivolge, risuonano dolci e calienti alle mie orecchie, ed entrarono subito, spedite nel mio cuore, come se avessero scacciato tutto. E mentre i miei occhi continuano a lacrimare, il mio cuore inizia a risanare quel che nessuno mai è riuscito a fare. La dolcezza delle Parole, l’amore del Suo sguardo, la dolcezza del suo tono di voce, il calore della Sua mano vicino alla mia, iniziarono a bruciare e mentre la voce singhiozzava, il mio capo si chinò dinanzi la Maestà, dinanzi il Signore degli Eserciti, dinanzi l’estrema Bellezza. Le mie mani si innalzarono verso il cielo e nel contempo il cuore ed il corpo bruciarono per Lui, il mio Eterno. Le mie mani ancora alte verso il cielo, a lodare il mio Salvatore, e ad un tratto le labbra tramanti, ma al contempo, senza alcun timore: “sono qui mio Signore. Sono la serva del Signore. Ho fiducia in TE, mi affido a TE. Affido i miei giorni a TE, affido il mio cuore e le mie paure a TE. Sono tua. Completamente tua. Sono qui per fare la tua volontà. Usami Padre, perché sono qui e sono la serva del Signore.
Erica Gravino
L’alba si traveste da tramonto!
Aprendo la finestra, mi affaccio a quella distesa che la vista mi regala, ma che il cuore respinge; mentre il battito, abbraccia il rumore di quelle onde che continuano senza sosta a scontrarsi nella sabbia, ogni volta con più forza, ogni volta come se fosse la prima volta.
Volgendo lo sguardo un po’ più in alto, mi perdo nel battito di due ali, che continuano ad incontrarsi, per poi lasciarsi nella frazione dell’istante successivo. Con movenza elegante, continua a muoversi disinvolta: a destra, a sinistra, danzando in quel dipinto come se non ci fosse nessuno ad ammirarla, o come se il suo pubblico fosse la quotidianità, il suo benessere. Nella trascendente e velata tinteggiatura, si innescano sfumature che intrinseche continuano a mischiarsi, giocando ad intrecci e bisticciando sul podio della prevalenza, per dominare sui sensi e sulle percezioni: arancione, rosso, un po’ più di giallo sconfitto nuovamente dall’arancione matto che prende il sopravvento, e come se sospinta da una linea sottile, riesce a raggiungermi, avvolgermi, travolgermi e con mano distratta, sposta il mio capo verso sinistra. Nella cadenza del movimento, si intravede un fuoco, che nasce, si spegne, rinasce, muta e sconvolge la densa normalità.
Un orizzonte rosso-arancione, viene spiazzato ed invaso da un semicerchio irregolare, con punte irregolari e fiammeggianti intorno allo stesso. Come se ripreso in una moviola, riesco a conteggiare i secondi del calare, il profumo della bellezza, la consistenza di quel calore che si imbatte sul mio corpo in brividi, lacrime, stupore, tremore. Ma senza stancarmi, continuo ad osservare l’imperfetta bellezza, contenente un filo sottile, che inizia a prendere la forma di lettere e parole, che turlupinano quel che resta della lucidità mentale, quel che resta della vaga immaginazione, quel che resta dell’eterno in un attimo.
Costernato di ulteriori volatili che interrompono il momento, ma al contempo, alimentano la magia, intraprende un cammino astratto seguendo quegli stessi volatili, come se volesse portar via quell’arancio-rosso-giallo, lasciando alle proprie spalle il sereno di un giorno nuovo, interrompendo ogni legame con la vecchia alba.
Tutto cambia scenario: come se quelle lacrime avessero chiuso il sipario del primo atto di “Maschere Nude”, per riaprire il secondo, mediante il sorriso dei nuovi personaggi, delle nuove situazioni o delle nuove combinazioni.
Incredula ed inibita, credeva di avere davanti a sé un tramonto, tradita dai colori, dalla fresca ebbrezza e dal sapore di una lacrima, che non si riscopriva più in un sapore amaro, ma bensì nella dolcezza e leggiadra alba di cui era spettatrice.
“Ti ho aspettata senza esitare,
fino a quel giorno in cui l’esitazione
lasciò il posto all’aspettazione.
Ti ho immaginato, disegnato.
Io, ti ho dato l’esatta forma:
una poltrona, che tu non hai occupato,
l’hai ignorata, lasciata incolta, vuota.
Mi hai legata a te, regalato te
con disinvoltura e quel femminile sospetto,
che mi ha resa ostile e assente in volto;
nel frattempo però, la mente ardeva di quel rosso
che soltanto il mare ha saputo governare.”
Una Parola, nascosta!
Basta poggiare la penna su un foglio, ed il bianco-nero, diviene evidente, prende vita in una linea continua, discontinua, che immaginariamente corre da te, ti abbraccia, ti tiene stretto, ma nella frazione del secondo dopo, ti lascia. Incoraggiata da qualche nota di sottofondo, il mio cuore si allea per parlare di te, descrivere te, e quel che di tuo è rimasto in me. Mi blocco. Ricomincio. Mi blocco di nuovo, per riprendere ancora una volta, ma questa volta, senza sosta. Quel paesaggio alberato: ogni parola, sembra aggiungere un arbusto, per farsì che la foresta diviene sempre più fitta, senza interruzione, senza spazi comodi da cui passare. Tutto tace. Il silenzio attorno, assopisce. Ma inizia il cantico del fruscio degli alberi, che mi invitano a muovermi con un passo felpato. Mi incutono paura, ma arrestano il tempo: il vento contrario, sembra tendere la sua mano, e mentre incoraggia la mia paura, sembra afferrare la mia di mano, facendomi danzare sotto quei pini, che danzano insieme a quella sagoma che si riscopre essere me. Il vestito leggermente si solleva, creando movimento ed un leggero ondeggiare, scoprendo ed incitando la fantasia del vento, che soffio dopo soffio, si fa sempre più convinto, più consistente. Una giravolta. Un’altra ancora. Un passo doppio, come se tenesse la sua mano un po’ più su del mio fondoschiena, e poggiandomi al suo corpo, mi sposta da quel punto fisso, da quella distesa alberata, per condurmi laddove non so, laddove non mi chiedo, laddove non domando. Mi fido. Mi affido. Mi lascio condurre. Chiudo gli occhi. Chino la testa verso dietro. Abbandono pensieri e ragione. Mi abbandono al buio della mia vista. Le mie orecchie, come se fossero turate ed allucinate, iniziano a creare una melodia: un carillon, contenente la sua ballerina poggiata su una ferma punta di piedi, immersa nel suono del suo tempo limitato, che si arresterà una volta riposta nel suo angolo. L’espressione del viso, diviene cauto. Quelle rughettine, sembrano essere volate con il vento, lasciando solo immaginariamente due fossettine sulle guance color neve, riscoprendo un’accennata inarcatura, ed una rosea sfumatura confusa, camuffata, soffocata. La sua mano destra che stringe la mia sinistra. La sua mano sinistra poggiata sul mio fianco destro. Mi avvicina. Mi abbraccia. E con un caliente movimento, avvicina le sue dite sulle mie gote rosee. Quel sorriso camuffato, inizia a mostrarsi anche se timido, allo scorrere di quel calore. Ora la sua mano è sulla mia nuca: mentre afferra il mio capo, una nuova giravolta ci attende, mentre il vento si è infittito e qualche arbusto lo abbiamo lasciato dietro di noi. Ad un tratto, si allontana da me: pone una benda sui miei occhi: afferra la mia mano e inizia a correre. Non mi lascia. Mi tiene stretta. Mi guida. All’imbatterci del vento contrario, che scrolla da me quell’ultimo granello di sfiducia. Quel vento che mi attraversa, mi sfida, ma vinco io; anzi, no! Colui che ha afferrato la mia mano, vince: ma facciamo squadra, ed io vinco con lui. “Come una bimba che corre nella direzione della mamma: percorre ogni singolo metro, per raggiungere lo stato di benessere, che solo la sua mamma, può dargli; come un bambino capriccioso e monello, che nonostante la sua millesima disfatta, alla sera si pone dinanzi il suo papà, dormiente sul divano, chiedendogli scusa, per poi scappare e rifugiarsi nel suo letto; come quella mamma, che si commuove dinanzi un saggio della propria bambina, dinanzi allo scorrere del tempo, al diventare donna, della sua bambina; come un papà che continua a lavorare ogni giorno, ritornando a casa sfinito, ma serbando e concentrando tutte le sue forze per sorridere, giocare e coccolare il suo bambino; come una “neo-nonna” che si emoziona alla voce del suo pargolo, al chiamarla “nonna” o similari, con una sottilissima voce, che risuona a suon di campane nel suo cuore; come quel marito che coccola la moglie, cura la propria moglie, e gli da la sua forza, anche quando è lui stesso ad incarnare la debolezza; come quella moglie che sfoggia le sue migliori arti in cucina, per inventare un nuovo sorriso dell’uomo che ha sposato; come quella distesa azzurra, che accoglie tutti i pensieri, preoccupazioni e sogni illusori di un senzatetto, che si fa cullare dallo schiumare di quelle onde, che sagge, accolgono le sue domande, e danno voce alle sue risposte; come le lusinghe fatte ad un attore, per la sua brillante carriera: torna a casa, sorride e si addormenta contento, accanto alla sua metà; come quelle montagne, che aspettano e fremono tutto il giorno, pur di ospitare la lucentezza ed il fuoco di quel sole, che le brucia ma non le consuma, che le sfiora ma non le tocca, che le bacia, ma non lascia alcun segno di rossetto; come la lava di quel vulcano, che esce per trovare sollievo ed una temperatura tale da liberarlo dal suo stato di liquidità, per trovare quella libertà di cui ha tanto sentito parlare: ma, nessuno, gli ha raccontato di come ci si spegne all’affacciarsi al mondo.” Fusa con le emozioni, continuo a correre, tenendo stretta la sua mano. Ho ancora la benda sugli occhi, ma mi fermo sull’ultimo passo di corsa. Accenno una leggera camminata. Un fascio di luce attraversa anche il nero della doppia stoffa, che si è inumidita: ha il sapore del sale, ormai. Ma lui mi lascia la mano: io tolgo la mia benda lentamente, e mentre l’abbasso, ammiro la nuova strada. È illuminata, piena di fiori ai lati e di nuvole che danzano leggiadre nel cielo. Il cinguettino di quegli uccelli, fa da contorno al mio quadro: come se un pittore, alzatosi di buon mattino e di buon umore, abbia pensato a me, per regalarmi quella gioia che risiede nel mio cuore, quella lucentezza che prende il colore dell’arcobaleno posto dinanzi a me. Mi volto ed accanto a me, non c’è altro che una sagoma ricolma di colori, che adesso svanisce, e adesso rinvenisce. Mi perdo nella forma dei suoi occhi: ed io dimentico anche il mio nome. D’istinto lo abbraccio, gli chiedo di ballare: lui mi sorride, mi bacia la fronte e tenendo le mie mani nelle sue, blocca l’istante, rompe la clessidra, e con essa le forzature delle impostazioni in superficie: perché la tua veste mi ha fatto impazzire; perché il tuo calore ghiacciava il mio sangue; perché il tuo sorriso mi desse serenità; Ti ho poggiato la mano sulla nuca, affinché potessi alleggerire le tue preoccupazioni. Ti ho posto la benda sugli occhi, affinché tu potessi fidarti di me; Ti ho regalato un nuovo paesaggio, affinché tu dimenticassi quello vecchio. Affinché potesse coincidere con il tuo.
“Ti ho invitato a ballare,
Ti ho teso la mia mano,
Ti ho accarezzato le gote,
Ti ho regalato il mio sorriso,
Ti ho regalato il mio sogno,
affinché potessi incontrarti;
Ti voglio donare il mio ricordo,
cosicché da ritrovarmi ogni giorno, nei tuoi occhi;
Ti voglio donare la mia espressione,
cosicché da mutare la tua, quando si inasprisce;
Ti voglio donare la mia immaginazione,
cosicché tu possa sempre riviverla,
anche nel volto della gente che ogni giorno incontrerai;
cosicché tu possa scriverla,
Cosicché tu possa rileggerla,
cosicché tu possa sempre sentirmi,
anche ad occhi aperti,
cosicché tu possa vedermi
Ti ho donato la mia tranquillità,
cosicché il tuo cuore
raccontasse ai tuoi cinque sensi,
la bellezza di aversi,
la bellezza di amarsi,
la bellezza di sentirsi
la bellezza di raccontarsi,
mediante una parola nascosta.”
