In ritardo

Erano mesi che era in casa barricata, chiusa nella sua stanza, il virus che circolava aveva già prodotto danni incalcolabili. Tutti avevano pagato uno scotto altissimo. Lei apparteneva alle categoria di persone di buon senso che passava il tempo fra le mura domestiche. Aveva dovuto dire addio agli incontri al bar con le amiche, alle cene al ristorante con i parenti, alle celebrazioni in chiesa, alle mostre dei suoi quadri al club. La sua vita vibrante, vivace si era paralizzata. Aveva dovuto accettare la solitudine, l’isolamento proprio lei che era abile nel favorire i contatti umani. La sua vita era stata strepitosa, fatta di mostre itineranti, successo, manifestazioni di simpatia, premi e riconoscimenti. Ora guardava i premi esposti nel salone con un sorriso malinconico. L’agitava il pensiero che per ricevere un altro premio avrebbe dovuto aspettare molto tempo. Molte premiazioni erano state sospese e annullate. Ricordava con gioia i palchi del teatro in cui era salita con l’abito di velluto nero per ricevere le targhe. Ora si sentiva soffocare. Non aveva fatto altro che dipingere e seguire le mostre, allestire personali. Andava d’accordo con i parenti ma non aveva mai tempo per loro. Non si disperava mai per la perdita di un parente, non avevo tempo per piangere. Non aveva tempo neppure per pensare. Partecipava a mostre all’estero ed era sempre in viaggio. Era stata persino negli Stati uniti, viaggiare la divertiva non le metteva pensiero. Era abituata agli scali, ai viaggi lunghi in terre lontane. Con se portava come portafortuna un gatto di pezza con lunghi baffi setosi che ora giaceva inerte dentro un cassetto. Non aveva più bisogno di talismani, di biglietti di aereo, di amici che si complimentavano. Passava le giornate a leggere e rileggere romanzi e novelle straniere, a guardare vecchie fotografie del passato. che la facevano naufragare nei ricordi. Affondava nel passato come un chirurgo affonda i bisturi in una piaga. I ricordi affioravano lieti e tristi e non le davano tregua, le alitavano sul collo, sentiva il loro fiato Aveva finito per rivangare il passato e per fare autocritica . Spesso leggeva ad alta voce i romanzi senza avere nessun ascoltatore. Se aveva avuto qualche premio lo aveva ritirato senza pubblico. Si era abituata al silenzio, al rumore dei soli suoi passi. Si era messa alla prova puntando sulla realizzazione di nuovi quadri che alternava con la lettura della Bibbia, testo sempre attuale. Con il tempo si era disamorata della sua occupazione per cui aveva lavorato sodo. Con il nuovo stato d’animo aveva compreso che era stata troppo distratta, che non aveva mai aiutato chi era in difficoltà, nemmeno i parenti. Aveva pensato in modo lucido solo a se stessa senza mai arrendersi. Non era mai stata presente neppure per i suoi fratelli. Si era fatta travolgere rapidamente dal suo hobby. Non avevo compreso il valore della solidarietà. Non aveva dato fiducia agli altri. Incolpava se stessa per la sua indifferenza. Un giorno freddo d’inverno aveva sbattuto la porta, aveva rinunciato alle sue letture, ai suoi dipinti e si era recata nel parco pubblico cittadino. Si era appartata in un angolo remoto dove non era mai stata prima. Si era seduta su una panchina fatiscente e corrosa dal sole. In breve era stata attorniata da gatti randagi magri e affamati. Non li aveva mai visti, mai considerati. Dei gatti conosceva solo quel pupazzo che portava dietro con la sua sagoma felina che l’aveva a suo dire protetta e ispirata. Li aveva accarezzati con un gesto affettuoso. Loro avevano giocato con lei, e lei si era svagata, dimenticando i crucci. I gatti l’avevano consolata. Era tornata in quel luogo per portare alla colonia felina cibo e acqua, affetto e coccole. Ogni giorno soddisfaceva alle richieste dei felini. Aveva dimenticato i suoi impegni, la sua vita privata, i suoi progetti. Ogni giorno stabilmente si recava al parco per soddisfare le esigenze dei felini che le erano riconoscenti. L’accoglievano festosi come una salvatrice. I loro saluti erano spontanei non calcolati come quelli che spesso aveva conosciuto. Non c’era falsità, egoismo, invidia. Si era convinta che il suo ruolo era quello di salvare quelle bestiole dalla fame e dal freddo. Il suo arrivo era spettacolare, la circondavano e osannavano come una diva del cinema, molti si arrampicavano sulle sue gambe snelle. Rimaneva colpita dalle loro manifestazioni di affetto. Si sentiva al centro dell’attenzione. Aveva dimenticato le delusioni del lavoro, le cene con le amiche, le storie d’amore finite male, l’orgoglio familiare. Timidamente si era avvicinata al mondo felino e lo aveva apprezzato. Aveva molti lati positivi. Poi si era mostrata interessata alla loro sopravvivenza. Li aveva sistemati tutti in una sua residenza fuori porta. Erano lontani i giorni tristi fatti di pensieri meschini, di sacrifici, di sguardi torvi. Ora era piacevole aiutare gli animali, insistere sulla strada del bene. Era disgustata per il suo passato, contrariata per la sua ottusità ma ora poteva ricominciare daccapo, operare un cambiamento. Nella sua residenza l’odore del mare si mescolava a quello del cibo per i gatti. Aveva imparato in ritardo che si può spendere per gli altri senza perdere nulla. Il virus le aveva aperto gli occhi, ora il futuro sarebbe stato più sopportabile. Il cuore si era liberato di pesi inutili. il tempo futuro sarebbe stato dedicato agli animali, agli altri che attendevano solo il disgelo del suo cuore stanco. Ora avrebbe valutato tutto in modo diverso. La attendeva un tempo nuovo fatto di comprensione e non faceva nulla se era approdata alla verità in ritardo. Poteva, doveva recuperare. Era dell’opinione che la sua anima si sarebbe salvata.

 


 

Anime vuote

Viveva in quello stabile da molti anni come isolata ma poche erano state le occasioni di incontro con gli altri abitanti fino a quando aveva deciso di sua iniziativa, per sollecitare gli altri condomini , di realizzare un presepe proprio nell’androne del palazzo abbastanza ampio da contenerlo. Non era una impresa impossibile, bastava coinvolgere la gente, anche quella più indifferente che la guardava sempre con sguardo vacuo. Fare il presepe insieme era un modo per distrarsi dall’assillo del quotidiano. Quell’avventura avrebbe risvegliato la vena creativa di molti che si sarebbero espressi. Aveva dato retta al suo istinto e aveva acquistato tutto l’occorrente. Aveva sollecitato tutti a partecipare comprese donne pettegole e fredde che abitavano nel suo palazzo. Molti l’avevano guardata con disprezzo ma lei non si era scoraggiata. Doveva in qualche modo porre fine alla desolazione di quello stabile che a Natale non esibiva mai decorazioni. Il suo desiderio, il suo proposito era stato appoggiato da alcuni anziani. Lei si era sorpresa a lavorare intorno a un presepe di dimensioni normali con gente che a malapena salutava con noncuranza. Avevano curato ogni dettaglio ed era venuto fuori un presepe degno di questo nome. Una meraviglia che toglieva il fiato solo a guardarlo. Ogni aspetto era stato calcolato. Il laghetto ospitava delle papere, i pastori portavano latte e miele, persino un gatto viaggiava verso la mangiatoria a coda diritta. Nella velata lontananza si intravedeva la stella cometa scintillante e eterea. Le luci colorate brillavano nella notte e rischiaravano l’atrio di una luce misteriosa e intensa. Fragili stecconate lasciavano spazio a un sottile intrigo di rami di alberi fronzuti. Avevano eliminato le cose superflue, che spesso venivano scambiate per fondamentali. Era un presepe semplice e incantevole che trasmetteva serenità. Aveva il potere di far provare un sentimento struggente di pace. Era difficile resistere davanti ad esso. Era la sintesi vertiginosa del lavoro attento e minuzioso di molte persone diverse per età, sesso, ceto. Insieme avevano lavorato, si erano conosciute, avevano sperimentato forse per la prima volta in quel luogo la potenza della amicizia che sconfigge la solitudine amara. Il sogno si era compiuto. Lei, l’artefice, provava un senso dolce indefinito di gioia, ondeggiava fra felicità e grazia. Era un sentimento inafferrabile e bello. Aveva compiuto un piccolo miracolo, i condomini ora si parlavano.
Una mattina presto si era alzata per andare al lavoro e aveva trovato il portone spalancato, l’atrio ricoperto di foglie secche e il presepe parzialmente distrutto. Una furia distruttiva aveva sbalzato lontano asini, capre e pastori. Fuori del portone in terra, bagnata dalla pioggia, giaceva la stella cometa priva del suo splendore. Una cieca violenza che non aveva paragoni. Una mente occulta aveva procurato quello scempio. Si era sentita graffiare l’anima, era come un colpo alla schiena. Si diceva che erano stati bande di ragazzacci che giravano per il quartiere per divertirsi e burlare i simboli cristiani a cui forse credevano poco o nulla. Nei giorni successivi quella visione continuava a martellarle il cervello come un tarlo malefico. Era entrata in crisi. Tuttavia aveva rimesso a posto tutto e aggiustato gli oggetti rotti con la collaborazione di alcuni inquilini che si erano sdegnati del folle gesto. Poi successivamente l’oltraggio si era ripetuto come se una mano invisibile stesse in agguato pronta a colpire alla cieca in modo dissoluto. Per quel conflitto non c’era spazio per commenti e riflessioni. I ragazzacci erano stati spinti a rifare il gesto immorale. Lei era rimasta costernata, era in cerca di un perché. Ma in fondo i giovani rompevano anche le panchine dei parchi, rubavano nei mercati senza motivo. Erano dissennati. Lei era entrata in crisi incapace di reagire. Molti abitanti dello stabile mostrando sdegno erano ammutoliti. Il suo dilemma era se reagire oppure no. Poi aveva compiuto il suo dovere. Aveva smesso di risistemare il presepe ma aveva scritto un cartello in cui affermava che gli uomini potevano distruggere tutti i simboli religiosi del mondo ma lei l’albero, il presepe l’aveva nel cuore e nessuno poteva sradicarlo. Lei come gli altri sentiva il profumo del cielo, della nascita del salvatore che redime tutti e non fa distinzioni . lui era nato per tutti, anche per le persone indifferenti. La sua fede aveva la stessa grandezza del firmamento. Non poteva rispondere alla ferocia con altra ferocia. Le parole, le lacrime potevano essere più potenti di una azione punitiva. Anche le anime vuote potevano convertirsi. La sua parola poteva penetrare nel cuore arido dei giovani e mutarlo.

 


 

Mani morbide

Saliva le scale con il fiato corto, il giacchetto sulle spalle per ripararsi dalle correnti d’aria, forse l’avrebbe riparata anche dagli urti della vita. Invece si era resa conto che il mare in cui navigava era sempre in tempesta e la respingeva su uno scoglio aguzzo e lontano, dove il su orgoglio avrebbe cozzato con la dura realtà. La sveglia all’alba, i passi frettolosi sull’asfalto bagnato dalla pioggia invernale, i capelli tirati su velocemente, il profumo preso per pochi soldi, i jeans scoloriti dai troppi lavaggi. Negli occhi ancora il profumo del mare, il dolce pendio delle colline del suo paese. Aveva abbandonato il suo paese di origine per un sogno di riscatto. Aveva sognato abiti decenti avvolti nella fragranza della lavanda, una casa dignitosa piena di calore, bambini con gli occhi grandi e curiosi aperti su un mondo umano. Invece si era risvegliata con un dolore pesante sul cuore. Le speranze erano cadute come pezzi di carta da un’auto in corsa. Di quella vita desiderata restavano solo frammenti indistinti, spezzoni del film in bianco e nero della sua vita: il sapore del cappuccino, l’odore del ragù. Aveva potuto fare sue completamente solo le piccole cose del quotidiano: una graziosa e variopinta sciarpa di lana, un paio di orecchini acquistati su una bancarella, un fulard di seta comprato nei grandi magazzini, un paio di scarpe lucide prese a saldo. Il suo io si era dissolto, disintegrato , bersagliato da mille insidie nascoste. Da piccola al suo paese, in Africa, aveva il soprannome di mani morbide, perché lei sue mani erano tenere come velluto, morbide come petali di rosa. Ora le sue mani erano tutte screpolate, ridotte quasi a brandelli, irriconoscibili. Erano mani piene di graffi, di segni scuri. Aveva trovato lavoro in una ditta di pulizie che si occupava della manutenzione di alcuni importanti uffici della città dove risiedeva . Per alcuni suoi connazionali era stata fortunata. Se si poteva chiamare fortuna pulire bagni, scrivanie, lampade. Non respingeva il concetto di pulizia, la polvere la conosceva bene, al suo paese venti sabbiosi portavano la polvere ovunque e lei era abituata a rimuoverla. Lei respingeva tutto quello che si accompagnava a quel tipo di lavoro, tutto quel mondo che ruotava intorno a quel suo ruolo, che si era conquistato a fatica. Era come avere a che fare con un nodo che non si scioglieva mai. Un nodo atroce che le pesava all’altezza dello stomaco, che le opprimeva le tempie, che le offuscava il cervello. Era stata raccomandata da un sacerdote che si era mosso a pietà della sua condizione. Un problema di salute grave la spingeva a comprare farmaci costosi, che lei non poteva permettersi. Era una vera assurdità, per un semplice lavoro di pulizia ci voleva la raccomandazione, senza la quale non sarebbe andata da nessuna parte. Eppure in quel lavoro, che doveva essere la sua consolazione, c’era una buona dose di veleno. Era in una prigione dove lei ogni notte sognava di evadere, battendo le pareti squallide con le mani nude. Nel sogno si liberava con enorme sollievo, correndo all’aria aperta con lo sguardo lieto, folle di gioia. Nella realtà rimaneva ancorata alle convenzioni sociali, alle apparenze e salutava con capo chino, con lo sguardo basso, timido i dirigenti che entravano al lavoro al mattino. Il suo turno terminava alle nove e aveva tutto il tempo di assistere all’arrivo dei dipendenti e di alcuni dirigenti. Alcuni non la salutavano neppure, passavano oltre come se lei fosse invisibile. Un fantasma venuto da lontano e costretto a restare imprigionato dentro una unica forma. Per i dirigenti lei non esisteva come persona, non solo non la salutavano ma nemmeno la guardavano, non la sfioravano neppure con gli occhi per paure di essere contaminati. Erano per lo più persone colte, laureate, che si erano scordati quell’elemento fondamentale senza il quale la cultura è solo un vaso pieno di nozioni: l’educazione. I soldi dei loro stipendi favolosi facevano dimenticare le buone maniere. Le dipendenti donne erano quelle più spietate. Arrivavano baldanzose, vestite elegantemente, parlando tra di loro e la ignoravano. In alcuni casi ostentavano i loro gioielli, le loro borse. Tra di loro parlavano di scarpe, abiti, vacanze e in alcuni discorsi cercavano di umiliarla. Alcune volte la guardavano con aria ironica o con un senso di superiorità. Lei si sentiva come cenerentola costretta ad andare al ballo con gli abiti di ogni giorno. Avrebbe voluto gridare la propria rabbia ma non poteva ribellarsi. Esisteva un sistema di potere che non poteva esser mutato, erano secoli che era stato adottato. Molti sguazzavano in quella realtà che puzzava di stantio. Intanto le sue mani erano inguardabili, intoccabili. Un giorno una dipendente portò in ufficio , per la festa della donna, un ramo di mimosa per ogni sua collega. Aveva un albero grande nel giardino della sua villa. A lei non venne offerto neppure un ramoscello, eppure era una donna. Era come uno sputo in faccia, un disconoscimento della sua femminilità, una sorta di punizione per non aver fatto nulla di male. Lei non era una donna come le altre, non aveva il seno, gli occhi di donna, le mani minute e fragili. Era un essere ibrido, immondo, senza sesso. Con il tempo scoprì proprio in quell’ufficio di essere una donna. Quando ormai la sua femminilità veniva menomata con sciarpe pesanti e cappelli di lana per ripararsi dal freddo, con scarpe dal tacco ridotto, da maglioni presi a prestito da suo fratello disoccupato, venne importunata pesantemente dal suo datore di lavoro. Un uomo grassoccio, con le mani sempre pronte a toccare il suo corpo, che minacciava di licenziarla. Le sue attenzioni si erano fatte morbose, pesanti. In ogni occasione la accarezzava, la palpava, la sfiorava con le sue mani sudice e curate. Gli impiegati invece non la guardavano, per loro non era appetibile, non era seducente. Forse non era bella perché non aveva abiti firmati e non apparteneva al loro ceto. Lei era di un’altra razza, lo si vedeva da come portava i capelli, da come gesticolava, da come salutava, da come sorrideva agli altri, era di una razza diversa, della razza degli esseri umani. Una razza in via di estinzione ormai.

 


 

 

Non saluto

Saluti rubati
rivolti a gente spietata,
attesi nelle vie,
mai avuti veramente
Saluti da chi vuole
solo vederci cadere
nel falso sorriso radioso
Saluti di eterni ammiratori
che vogliono il corpo
e gettano l’anima
con gesto sprezzante
Saluti consapevoli
dal sapore amaro
di capi indiscussi,
che procedono a scossoni
come un vecchio tram
Saluti senza pace
prossimi all’inferno
Saluti indifferenti
nell’esistenza piena di insidie
fatta un passo alla volta
con la paura folle di cadere
Saluti non dati
per superbia ed orgoglio,
saluti freddi come il vento del nord
che raggelano l’anima stanca
Saluti dati per primi
per mostrare di crederci ancora
ma è difficile amare
nel non amore totale.

 


 

Ttrappola

Cadere nella trama raggelante,
complicata del male
finire preda inconsapevole
di squallidi raggiri.
Essere derisa
per la ingenuità,
priva di scaltrezza.
Finire travolti dalla realtà
e rimanere sempre
col cuore puro.

 


 

Luci di città

Mi riscaldano il cuore solo
le strade illuminate
di luci e addobbi natalizi
Auguri formali
a denti stretti ricevo
da chi si sente importante
Il potere, la divisioni in classe
Continuano la loro ascesa
Il loro sorriso maligno
anche a natale
Auguro solo
strette di mano sincere
dal sapore umano.