DIVISA FRA SOGNO E FOLLIA

 

Divisa fra sogno e follia
affondo i denti nella mia vita
(appena colta dal ramo,
fresca di mattina)
ma io vi affondo i denti
senza nemmeno lavarla
e non c’è un briciolo di realtà
in questa mia esistenza
sovrannaturale ed extraterrestre
dove l’anima stessa
mi scappa ogni sera dalle mani:

per tutta la notte l’aspetto
senza andare a dormire,
finché non torna a casa stanca,
con il mascara sciolto
e il rossetto rubato.
Sono madre di una ragazzina
capricciosa, che non vuole mai
starmi ad ascoltare.
“Noi sognatori amiamo meglio
da lontano” mi dice sempre,
“come chi guarda le stelle”.

Così guardami anche tu
come si guardano Betelgeuse
e gli Alfa Centauri
o le Pleiadi.
(Sì, magari le Pleiadi).
Perché divisa fra sogno e follia
inciampo spesso nella poesia
e mi graffio sempre le mani
- queste mani con cui ogni giorno
afferro la mia vita,
e la colgo, la colgo dal ramo
e la porto alle labbra
senza nemmeno guardarla.


 

VERITÀ

 

 

Non so cosa fare per mia figlia, Signore.
Un dio le ha sconvolto la mente,
me l’ha fatta impazzire.
C’è una guarigione per questo male?
I miei medici non hanno risposte.
Tutto il giorno vaga per il palazzo
gridando che la città verrà distrutta:
Troia brucerà, grida.

Il nemico entrerà di notte,
saremo noi a farlo entrare.

Ma non ci sono nemici là fuori,
perché qualcuno dovrebbe attaccare Troia?
Per una donna, mi risponde.

Periremo per un inganno.
E io morirò lontano
uccisa da una donna straniera
nella terra in cui il padre mangiò il figlio.

Ogni sua parola è pura follia,
un gioco ai dadi.
E io non so che fare per lei,
la mia Cassandra.
Se esiste un dio della Verità
la faccia rinvenire!
Innalzerò ecatombi perfette
purché la faccia guarire.


 

CARTA D’IDENTITÀ

 

 

Carta d’identità numero AX2338371
nome Eugenia
cognome Bardanzellu
sì, ma il nome delle persone
ne chiarisce l’identità?
Capelli castani
occhi castani
potevi farlo un sorriso però!
Sarebbe stato finto,
sa signorina, ho la nausea delle cose finte.
Segni particolari?
Scrivo strane poesie.
“Nessuno”.
Stato libero,
ma ancora schiava di sé stessa.
Capelli castani – e se me li tingessi?
Occhi sporchi di matita
segni particolari: sporca di vita
macchiata di errori
imbrattata di sospiri notturni
e sogni ridicoli.
Tu sei?
Eugenia.
Sì, ma chi sono?
Nata a Roma, nata da mia madre,
nata in un giorno di ottobre
che non so, non posso ricordare.
Altezza, poca.
A volte nulla.
Tu sei?
Eugenia? Non so,
sono trama di stelle e respiri,
inchiostro mescolato a mercurio,
sono anima palpitante,
sono anima macchiata di una vita
che palpita amore,
sono spasimo d’amore.

Scriva questo signorina:
“sono spasimo d’amore”.


 

LA SERA

 

La sera mi riprendo ciò che è mio
nella grande vastità del mondo.
Mi riprendo le piccole cose che mi appartengono
e che il sole mi sottrae ridendo.
Riprendo fra le mani i ferri della mia follia
e ricomincio a filare la mia tela di storie
impossibili (come le stelle).

Le vorresti toccare le stelle di sera,
non sai che moriresti se potessi,
ma la sera mi ricostruisco ciò che è mio
e nelle mie appartenenze le stelle
le posso anche mangiare.
Riporto alle labbra la sabbia del mare
la sera, quando è fresca e non fa più
male (come il tuo nome).

E ti vorrei parlare, amore, la sera,
non sai che morirei se potessi.
Ma la sera mi reinvento ciò che è mio
e nei mei sogni ti posso ancora chiamare,
e ripetere il tuo nome
come se non facesse male,
e dirti quanto mi manca
mangiare con te le stelle,
bere sabbia di mare.


 

NATA BENE

 

Se continui a guardarmi non mi vedrai mai,
perché non sono quello che sembro.
Va tutto bene finché non mi guardi dentro.
Io sono la lampadina che non si accende,
la penna che non scrive.
Io sono il motore che non parte,
la radio che non suona,
la macchina che non dà il resto.
Sono l’errore di stampa,
la crepa nel muro,
l’edificio che non si regge,
l’autostrada sull’epicentro.
Sono il difetto di fabbrica,
l’errore di calcolo,
la mancanza, l’imperfezione,
l’incompiuto, lo sbagliato,
l’interrotto, il malato.
Con i meccanismi che cigolano
vago zoppicano, prodotto difettoso.
C’è una lebbra latente in me.
Una lebbra, sì.
Ma c’è un Dio
che ama i lebbrosi
e che mi ha chiamato
Eugenia.