UNA FIGLIA DELL’AMORE

Sono stata una bambina felice in una famiglia felice, due genitori realizzati e innamoratissimi. Non mi è mai mancato nulla; ho avuto il motorino a quindici anni quando i capricci dell’omologazione premevano, l’auto per la mia indipendenza definitiva, viaggi, amici (si forse questi non duraturi e profondi), ottimi voti a scuola, mai sregolatezze, riconoscimenti e appoggi. Nessun innamoramento vero; sincero sì, ma mai delirante o travolgente. Ero forse sazia dell’amore che leggevo negli occhi di mio padre quando ricopriva, con una coperta, mia madre addormentata sul divano. A tratti era perfino nauseante scorgere in loro le carezze e gli occhi lucidi. Con questo ingombrante avanzo di tenerezza e stucchevolezza, calpestavo gli anni scansando le emozioni graffianti. Ero una figlia dell’amore che non credeva nell’amore.
Ancora non sapevo che sarei vissuta nel buio di un angolo, come una clandestina di sentimenti. L’oggetto di lotta di tutti e la conquista di nessuno. Ho raccolto tanti sguardi, tanti sussulti, tante lame di passione sulla pelle, tante false promesse, tanti momentanei slanci di cuore. Sempre sola sono tornata a casa, sempre colma di ricordi e amaro risentimento. C’eri tu il poeta maledetto, tu l’attore narcisista, tu e l’ebbrezza del pericolo sull’asfalto, tu e il sogno di una distesa azzurra, tu e il ballo, tu e i muscoli saldi di chi li allena su prati verdi. Tanti corpi e facce diverse, diverse intensità e vibrazioni, diversi luoghi di incontro e scontro, diverse età e scopi, diverse affinità e sintonie, trasparenze o meno, luci vere o artificiali, stesso epilogo. Qual è stato il problema? La loro codardia o la mia ingenuità? Forse volevo solo essere amata un po’, cercare in un altro gli occhi miei; ma ogni volta il vuoto di una nuova assenza, una nuova vita da sopportare, nuovo sapore alle lacrime, nuova rabbia da inghiottire. Più mi dicevo di non aver bisogno dell’amore, più mi maceravo nella sua mancanza. Le occasioni erano frequenti; uno sguardo di intesa in un negozio, la fila al supermercato, un aperitivo con le amiche. Sempre lo stesso copione. Sapevo riconoscere ad occhi chiusi chi avrebbe avuto il coraggio di avvicinarsi; chi avrebbe chiesto, sfacciato, di andare oltre le parole, chi avrebbe usato tenerezza e chi brutalità. Gli sguardi potevano incrociarsi una sola volta o ripetersi, tra i corridoi e i velati accenni. Poteva bastare un’uscita, un bacio e un addio, o qualche mese, fatto di sedili posteriori e di un rapido rivestirsi. C’erano i messaggi romantici, gli struggimenti della notte: una tenerezza cronometrata. Abiti sgualciti, volti disfatti, abissi di poesia e ribrezzo. Non ero una donna che vendeva il suo corpo, lo barattavo per non restare sola.
Non sono stata vera con nessuno, neppure con me stessa. Mi si cercava la pelle, i fremiti. Nessuno voleva me. Come potevano volermi se avevano il tempo da dividere, se avevano già un nome che ristagnava nel cuore? La mia era un’ombra sui passi di un’altra donna, un ricalcarne le impronte, un eco da ascoltare in ore di vuoti d’aria. Lottavo credendo di uscire dall’ombra, credendo di diventare l’unica, aspettando. Che stupida. Tanto stupida da subire poi le offese, le ingiurie, le minacce per tutte quelle false promesse alle quali avevo creduto, quelle promesse che poi digrignavano contro ciò che restava della mia dignità. Restavo immobile, tremando di orrore. Nessuna mano tesa, solo calci. Ho sempre chinato il capo da colpevole, strisciando su bottiglie vuote. Cercavo lo schianto finale, rubando una motivazione nuova per muovere questo marchingegno perfetto che ci è stato donato. Uscivo ogni volta da un incubo, illudendomi che fosse l’ultimo.
Sì, farei tutto di nuovo, forse per sentirne di nuovo il vuoto.

Una mattina ho deciso di andare a correre. Aperti gli occhi, frugando nell’armadio alla ricerca di una tuta, sono uscita alle prime luci dell’alba.
Ho sempre odiato correre, lo vedevo inutile pur amando il movimento in tutte le sue manifestazioni. Solevo spingere le energie e i legamenti, collaudare elasticità e fermezza. Ogni giorno esaminavo le risposte del corpo, temendo per il suo prossimo declino. Nonostante questo odiavo correre, sbagliando.
Le gambe corrono più veloci dei pensieri, la mente che si inginocchia ai muscoli.
Non c’è nulla dietro di te, c’è solo il cuore che pulsa, un suolo da frustare con la tua energia. Chiudi gli occhi e vedi il resto allontanarsi da te; le facce, le parole, le ore. Sei un treno che sfreccia, mentre tutto gli crolla alle spalle, gli occhi che seguono un punto fisso e lo cercano non per raggiungerlo, ma per abbatterlo. Il corpo assume potere, scandisce il respiro, urla di contrazioni, pretende che tu lo spinga allo svenimento. Inebri in quel sudore che lava la pelle. La rabbia, la delusione, il rammarico convogliano nelle vene, spingono nei polmoni che si stracciano tra le costole. E’ una sfida, sei tu e la tua resistenza.
Quella mattina c’eri anche tu. Correvi come me, ma la tua era una passione di anni. Ero sulla riva a rinfrescarmi; passandomi accanto, ti sei fermato.
«E’ tuo il borsellino?».
Ero talmente stanca da non accorgermi della vita intorno a me.
«Scusa ti ho spaventato! Attenta, potresti essere la preda perfetta per un borseggiatore!». Sorrideva e io non riuscivo a dire una parola.
«Grazie…».
«Allora parli?».
«Si…», sembro una ragazzina al primo appuntamento.«Scusami ero sopra pensiero.»
«Sì l’avevo notato! E’ la prima volta che ti vedo qui. Hai osato troppo per il primo giorno…».
«Cosa?».
«Hai corso per troppo tempo oggi e sei stravolta!». Come faceva a sapere e soprattutto, da quanto tempo mi scrutava?
«Non sono stravolta, sarà il caldo!». Ride, burlandosi di me.
«Faccio finta di crederle! Torni a casa e si riposi. A domani.».
Corre via senza darmi il tempo di rispondere. A domani? Ma cos’è un appuntamento? Che sfrontato, crede per certo che io venga domani per lui o peggio, che rinunci a correre e getti la spugna.
Cambio tragitto, non voglio incrociarlo, mi innervosisce lo scherno negli occhi.
«Buongiorno!». Come ha fatto a trovarmi?
«Buongiorno a lei.»
«Potresti anche darmi del tu! Mi fai sentire vecchio…».
«Io e lei non ci conosciamo».
«Eppure mi sembra di conoscerti da sempre!». Ma cosa farnetica?
«Si sbaglia».
«Ho una casa qui sulla spiaggia, conosco questo posto come le mie tasche…».
«Beato lei…».
«Mi godo la solitudine per un mese l’anno. Mia moglie e mio figlio non amano il mare». E’ sposato.
E’ stato un errore, una scivolata di coscienza, una dolorosa passione, un compromesso di cuore, un nascere e un morire, un teorema impraticabile, un dolcissimo ricamo di pelle, un addio muto e supplichevole.
Qual è il confine tra cosa è giusto e cosa non lo è? Quale margine ha la coscienza? Credevo di avere argini saldi a questa, ma li hai travolti con un sorriso, un bacio. Una piena di irrazionalità e tenero delirio di convinzioni e restrizioni, una voluta trasgressione. L’amore vuole la luce del menefreghismo, è prepotente e trasparente; è sfacciato ed egoista. Gioca su giravolte di lontananze e adesioni tumultuose. Cerca spazi e tempo, lo amplifica e lo restringe rabbioso. Vuole tenerezza e graffi, sudore e lacrime, corse e tentennamenti, morsi e schiaffi. Può essere nascosto o negato, manifestato delicatamente e velatamente, preteso, cercato, improvviso e necessario. Dorme poco, attende e distende, cancella e ridisegna. Quanti respiri sei, quanti attimi infiniti?
Sei un uomo come tanti, impegnato e con molti anni più di me. Come per tutti gli altri, inizialmente, non sono stata che un desiderabile passatempo, un tarlo di sogni nel buio delle lenzuola. Cosa hai visto in questa ragazzina? Me lo avresti confessato dopo.
Ero un gatto selvatico, capriccioso. Mi dibattevo in una gabbia di nervi tesi, costantemente all’erta, in posizione di difesa. Trascinavo ancora un volto tra i ricordi, gettavo acqua sulle bruciature. E come un ruvido rospo in una giornata uggiosa, mi trascinavo piano tra le strade della vita. Mi hai raccolto medicando le ferite, hai lasciato cadere dubbi e corazze sciogliendo i capelli. Mi hai insegnato la libertà di essere mia, la dignità dell’accettarmi, quel camminare a testa alta, quel sorridere nonostante tutto. Hai modellato la mia pelle sotto le dita, mi hai presentato a me stessa. Non sapevo chi ero prima di te. Il rimpianto mi divorerà, così come tutta la poesia.
Infondo, quanti recinti ha questo rapporto, quanta reale consistenza? Siamo solo due sconosciuti alla luce degli sguardi. Allora questo amore cos’è? Un dondolarsi ritmicamente cercando di resistere fino al delirio? Sì, hai corretto la mia immagine allo specchio, ma continuo ad abbassare gli occhi, a cercare luoghi isolati e a nascondermi. Continua, il mio, ad essere un corpo da superstite, un cumulo di ossa rosicchiate da cani famelici. Ogni tanto qualcuno mi prende, mi trascina di qualche passo per poi seppellirmi di nuovo nel buio, dopo essersi divertito un po’. Amo il buio, ma nella misura in cui lo distinguo dalla luce.
Oggi resto a casa, non vado a lavoro. Mi lascio occupare da questa inerzia, da questa mia immobilità. Nessun impegno, nessun obbligo, nessun orario. Voglio guardarmi intorno senza fretta, fermarmi e ascoltarmi. E se volessi fare questo della mia vita? Se volessi semplicemente affogare nelle emozioni e scandire i giorni al ritmo bizzarro delle mie volontà? Infondo è una la vita che mi è concessa. Perché rincorrere queste responsabilità che ci fanno sentire giuste, questo strisciare tra sentieri logori di aspettative? Ogni esistenza porta già nelle scarpe le scale su cui inciamperà, perché è così che deve essere. Il mondo non ha bisogno di me, delle mie notti sui libri, delle mie rinunce. Forse avrebbe fatto a meno anche degli artisti, degli scienziati, dei luminari. L’assenza cancella il bisogno, il rammarico. Manca solo ciò che si è assaporato, intravisto, percepito; il resto si perde nel niente. E se volessi lasciare il niente al mondo? Non siamo liberi, siamo schiavi di pezzi di carta colorati che barattiamo per sopravvivere alla fame. Non sono libera nemmeno di amarti. Lasciami pensare solo a questo oggi, non farmi contare insieme a te i granelli della clessidra.
Abbiamo ancora una settimana per viverci, qualche ora di buio tra fughe e scuse. Ci esploreremo ancora come se non esistessero orizzonti, come pirati nervosi che scandagliano per l’ultima volta l’isola alla ricerca dell’oro.
Se ci riuscissi lo eviterei ad entrambi, ti guarderei andartene, nascosta al tuo cuore. Piangerei sola tornando a casa, risparmiandoti i melodrammi che tanto odi e che non saprei interpretare. Se avessi le parole giuste, potrei raccontarti tutto quello che di me ti somiglia, tutta quella bellezza che vedi solo tu, quella donna che è nata con te, quelle mani che ora sanno circondare solo te.
La bocca nella bocca, soffierei la mia vita tra i denti, nello stomaco, nei polmoni. Rimarrei lì tra la fatica e gli affanni, mi legherei al tuo sangue, ai muscoli; e quando cercherai di dimenticarmi, sarà il tuo corpo a difendermi.
Ho imbrogliato tutti, ma non te. Ora però mi lasci camminare sola in questo universo che hai creato e le parole restano qui. Vorrei che non sentissi queste frane di battiti, questi terremoti nelle vene, vorrei che ricordassi di me solo il coraggio.
Strano come tutta l’ansia di palesare sia svanita, quel cacciare fuori che sentivo necessario. Con te no, non dico nulla. Giro le spalle senza voltarmi indietro, non ti scaglio contro l’ingombro della mia fragilità. Tornerai da lei, ma io non ho nessuno con cui restare.

C’è una folla vociante. Mi avvicino. Sarà accaduto qualcosa di grave.
«Scusi signora cos’è successo?».
«Hanno trovato un uomo morto stamattina sulla spiaggia!»
«Morto?».
«Gli hanno sparato mentre correva…»


ALI E CATENE

C’ è una fermata, una logora panchina in quel remoto ritaglio di periferia. Piove il cielo, maltratta le strade come un vecchio spinto di fronte ad uno specchio crudele e bugiardo. Un ticchettio di passi nervosi discorda lo scroscio della pioggia, passi poco eleganti perché frettolosi che improvvisamente si fermano e cercano riparo in quell’angolo di attesa. E’ una donna, una giovane donna che aspetta l’autobus. E’ stanca e bagnata, stanca e in disordine. I tacchi sono consumati, corre e cammina troppo; il cappotto è logoro, la federa che lo riveste all’interno è strappata, ma lo sa solo lei. Ha cura di non farlo scorgere, umiliata da una fastidiosa scucitura del tempo. Come il cappotto anche l’ombrello rivela la stanchezza e le innumerevoli battaglie contro le intemperie. Lo appoggia per terra, nessun asfalto può consumarlo più di così. Passa nervosamente una mano tra i capelli, tra ciocche indisciplinate che gioiscono dell’umidità giocando a rotolarsi come bambine monelle nel fango. Solo ora alza lo sguardo e scopre con imbarazzo di non essere sola. C’è un signore distinto seduto sulla panchina, un signore di mezza età elegante e profumato, io. Arrossisce, imbarazzata da quell’intimità che ho violato. Suo malgrado ho potuto osservarla senza che lei se n’accorgesse, ho potuto scorgere le lacrime mal celate dalla pioggia, senza permesso né consapevolezza. Pronuncia un flebile saluto e volta repentinamente lo sguardo alla tabella degli orari. Finge una lettura attenta e interessata affinché io non le rivolga una qualche banale domanda che squarci quest’opprimente silenzio. La capisco: è una donna sola in una strada isolata, con un uomo che non conosce e di cui studia ogni minimo movimento. Nonostante questo la infastidisco, voglio ascoltare una voce che ho sempre provato ad immaginare nelle mie lunghe scalate di ricordi.
«Questi autobus non sono mai puntuali!». Cerco i suoi occhi pronunciando questo stupido tentativo di approccio. Mi sorride accondiscendente, non placa la mia curiosità.
La vita ha già tracciato ombre sul suo volto, lo sguardo già velato dalla sofferenza e dalla paura vera. Il sorriso però è rimasto quello della bambina che ha camminato lungamente nei miei incubi imbevuti di rimorso e amarezza. Ormai è una donna giunta alla soglia dei trent’anni e i suoi occhi lo dimostrano. Ho permesso io tutto questo.
«Aspetta anche lei il 26?» la obbligo a rispondermi.
«Si» mi risponde lasciando lo sguardo ancorato sulle guance, non ha voglia di parlare. Com’ è silenziosa e recidiva. I capelli, che tortura per distrarre l’imbarazzo, sono rimasti

capricciosi, neri come la notte e selvaggi come la sua indole. Non è felice di sapere che mi avrà vicino anche nel tragitto che la porterà a casa: una tana di poche mura elevata sopra questa ridondante ipocrisia di apparenze fallaci.
All’improvviso la pioggia si placa. Qualcuno lassù getta un ponte di colori e speranze dinanzi a noi, uno spettacolo che entusiasma entrambi. Per un secondo i nostri sguardi s’incrociano, illuminati dalla stessa serenità. Un istante di condivisione che viene disturbato dallo stridore di ruote sull’asfalto, è il suo autobus. Colta alla sprovvista si affretta a salire, cerca il posto più isolato e si guarda intorno. No, il signore che era con lei non è salito, volge lo sguardo fuori del finestrino e mi vede. Ci guardiamo sino a che, di lei, non resta che una sagoma dietro un vetro che si allontana. Mi guardo le scarpe, come di consueto e scorgo il suo ombrello malridotto addormentato ai piedi della panchina. Ha sempre lasciato qualcosa nei posti in cui è passata, forse per farsi trovare.
E’ una giornata luminosa, l’acqua ha lasciato cadere sul fondo le sue impurità. Il vento ha pettinato gli alberi e una sinfonia di melodie e rumori mi accarezza le sensazioni. Mi sento un vecchio folletto, di quelli vestiti di rosso con la barba lunga, che inciampa nel folto bosco tra foglie scricchiolanti e funghi giganti. E’ il terzo giorno che l’aspetto in questa vecchia e isolata biblioteca. Ritrovo il solito libro lì ad attendermi e riprendo dal capitolo che ieri ho terminato, sedendomi nel mio giaciglio. Il bibliotecario, un vecchio occhialuto e impiccione, mi sorride ripetendomi la stessa frase di ieri: «Qualsiasi cosa di cui ha bisogno mi chiami». Non può ricordarsi di me, venivo qui da ragazzo ed è proprio tra questi scaffali che ho trovato il mio destino. Ero un ragazzo strambo: amavo gli uccelli, invidiavo la loro libertà, il loro innalzarsi al di sopra delle nostre catene.
Quel pomeriggio cercavo un manuale specifico di cui avevo sentito parlare, mi aggiravo tra i corridoi non soddisfatto della mia ricerca. Eccolo! L’orgoglio non mi aveva impedito di trovarlo senza alcun aiuto. Lo scorgevo lì, scarno e umile tra due tomi voluminosi. Vado a sfilarlo e in quello spiraglio incrocio due pozzi di cielo, Anna. Sento ancora con la stessa intensità il baratro nello stomaco, lo spezzarsi di un equilibrio.
Capì di aver terminato tutte le mie ricerche, in quell’istante lei nacque per me, con me.
La porta si apre, il suo cigolio mi risveglia da un breve tuffo nel passato. E’ lei!
Non so da dove ho preso questa certezza, ma sapevo che un giorno o l’altro l’avrei incontrata qui.
Speravo, da sentimentale, che sentisse l’inspiegabile richiamo di orme familiari.
Non si aggira confusamente tra i corridoi come me, senza indugio prende un libro. Lo guarda, ne sfoglia amorevolmente le pagine e si dirige verso di me ancora con lo sguardo sulla copertina. Mi si siede poco distante. Toglie il cappotto e mi vede. Si, mi ha riconosciuto. La saluto.
«Buongiorno»
«Buongiorno! Ci siamo già incontrati qualche giorno fa alla fermata dell’autobus, ricorda?» voglio assicurarmi che quest’incontro trovi un senso che ancora mi sfugge.
«Si si, ricordo!»
«Il mio nome è Michelangelo»
«Piacere Silvia. Non l’ho mai vista qui…»
«Sono in città da poche settimane»
«Capisco»
«Lei vive da molto qui?»
«Sono nata qui, sono ormai ventinove anni…».
«Vedo che ami leggere!».
«Anche lei suppongo…»
«Sì, altrimenti non saremmo qui! Cosa fa, studia?»
«Si, economia»
«Una ragazza che studia economia e legge libri di filosofia!».
«I numeri mi tengono ancorata alla realtà!».
«E la filosofia l’aiuta a evadere?»
«Io non la chiamerei evasione… Diciamo che mi permette di dare luce ai labirinti della mente».
Come nel gioco di una maschera, il sorriso scompare dal tuo volto, forse pentito dalle troppe parole. Quante luci ho spento nel tuo cuore? Affronti gli enigmi, le contraddizioni, i perché dando loro una finalità, una voce. Io li ho lasciati parlare a lungo, ho lasciato sorda la coscienza che ora, con te, si accinge ad un rallentato risveglio, forse inutile. Sei migliore di me Silvia.
«Io ho passato gran parte della mia vita nei cieli, i piedi ben sollevati da terra!». Ironizzo sulla deprecabile condotta della mia vita.
«E’ stato un pilota?»
«Si. Ho attraversato il mondo…». Volevo fuggire me stesso Silvia, ma non riesco a dirtelo.
Sento il tuo sguardo su di me, sembra rovistare mestamente tra le rughe. Forse Anna ti ha parlato di me, forse nei suoi racconti cerchi qualcosa che mi veste.
Se ora ti rivelassi la verità cosa faresti? Scapperesti spaventata, urleresti o mi trafiggeresti con il silenzio corrosivo dell’odio?
«Deve essere stata una vita emozionante la sua!», quanto ti sbagli Silvia «Ora però devo andare. E’ stato un piacere conoscerla.»
«Anche per me Silvia».
Esce da quella porta che chiude dietro di sé. Già soffoco senza di lei.
Come zingari, i tuoi passi mi rapiscono e il loro suono mi attrae nel seguirli. Spesso m’inganno, sussulto su di un ticchettio che non è il tuo e come un cane da guardia mi rintano deluso nella mia tana dopo un falso allarme. Prendo solo un caffè in un bar chiassoso, stordisco il rammarico della tua assenza. Fingo di leggere un giornale, sfogliandone lentamente le pagine. L’ orologio sembra fermo, dispettoso e irrispettoso della mia impazienza. Eppure non posso essermi sbagliato, non posso non aver riconosciuto il tuo profumo.
«La incontro spesso ultimamente!»
«Buongiorno Silvia. Prende un caffè con me?»
«Volentieri. Ma lei lo ha già preso!»
«Il caffè è un vizio che voglio conservare».
«La capisco». Mi scruta, forse cerca di cogliere un aspetto di me ancora irrisolto.
«Qui lavora un mio amico. Quando posso vengo da lui per sorridere e per ascoltare. Il bancone di un bar sa divenire uno dei palcoscenici più variopinti della realtà!».
«Lei dice? Non ci sono semplicemente persone che prendono caffè?».
«Oh no! Guardi quella donna, vede com’è elegante? Lavorerà in un ufficio del centro. Siede sinuosa sullo sgabello sorseggiando un cappuccino, sicura della sua avvenenza. Ora si giri verso la cassa, c’ è un’altra donna. Non indossa tacchi, ma scarpe da tennis; è di fretta e beve d’ un fiato il suo caffè ristretto, non ha certo tempo per accorgersi di quell’uomo che ogni mattina l’aspetta per cercare un suo sguardo. Vede, è già scappata via. Tra qualche minuto entreranno tre avvocati, non chiederanno nulla, si siederanno al solito tavolo nell’angolo ad aspettare i loro thè al limone. Il postino li precederà di poco spendendo un minuto per un sorso della sua amata sambuca e per aggiornarsi sulle ultime novità. Potrei continuare ancora a lungo!»
«E lei quindi si diverte nell’osservare questo avvicendarsi di comparse?».
«Mi diverto, mi indigno, rifletto e mi impiccio anche un po’!». Appoggia la testa su di una mano come una bambina che rivela divertita una marachella.
«La ringrazio Silvia, mi ha insegnato un modo nuovo per ingannare fruttuosamente il tempo!»
«Lei non lavora più?».
«No, mi rintano nella placida calma della pensione». Non voglio espormi e, affinché non approfondisca, continuo a farle domande.
«Ma mi dica, il suo amico non è un coetaneo, o sbaglio? Avrà pressappoco la mia età…»
«Ha visto bene, non siamo coetanei! E’ iniziato tutto per caso, ed è per casualità che fioriscono i germogli rari.»
Come hai ragione Silvia. Senza saperlo hai tra le labbra le stesse parole di tua madre.
«Passavo di qui una mattina, mi sentivo sola e avevo un bisogno inconfessato di essere ascoltata. Non entravo in un bar dai tempi della scuola, da quando fuggivamo il freddo di giorni svogliati nel dolce calore di una cioccolata bollente. Non so cosa mi abbia spinto ad entrare qui, so solo che sorseggiando un caffè ho trovato, tra parole inizialmente banali, un rifugio di comprensione e amicizia. Da allora non ho potuto farne più a meno!».
Non so cosa dirle, forse sono geloso di questo rapporto che ha dovuto cercare oltre il vuoto che le ho lasciato. Continuo a guardarla, la costringo a volgere lo sguardo oltre me. Ho scoperto quanto sia timida, quanto le risulti difficile guardarmi negli occhi. Hai paura che possa leggerti dentro? Qualcuno è mai riuscito a farlo?
«E’ una persona molto importante per te»
«Si» guarda altrove come se volesse raggiungere un pensiero «Mi ha permesso di ritrovare me stessa in un momento in cui di me non vi era che un debole eco nel groviglio della confusione. Gli devo molto: gli devo i miei sguardi tra la gente che non si inginocchiano più al suolo; gli devo quel minimo di autostima che si muta nel dovuto rispetto che ora pretendo dagli altri; gli devo il tempo che ha sottratto alla consueta pratica della mia mente di rifugiarsi nella desolazione e nel masochismo infruttuoso; gli devo la riscoperta della sopita ironia, dell’inusato umorismo che giaceva addormentato perché parco di stimoli.». Si ferma e torna a guardarmi come se, dopo un lungo viaggio, l’anima fosse tornata nel suo involucro.
«Mi scusi, la sto annoiando…»
«Silvia…» sorrido come se nel pronunciare il suo nome volessi imprimervi tutta la commozione che mi ha regalato.
«Mi dispiace averla tediata! Mi rendo conto che a volte comincio a parlare e… Non so perché le ho detto tutto questo.»
«Ti assicuro che è da molto tempo che non converso così amabilmente con una persona! Sei una donna speciale Silvia.»
«Ma lei non può dirlo, infondo non mi conosce che da due giorni.» Arrossisce lievemente, se ne vergogna talmente tanto che più cerca di non farlo e più le si accendono le guance!
«Non serve, basta ascoltarti pochi minuti per capirlo. Devono ritenersi orgogliosi i tuoi genitori.». La provoco, non so perché. Forse ho bisogno che mi vomiti addosso il dolore e la rabbia che merito. Sbaglio, si limita a sorridere indietreggiando velocemente. Maledico la mia avventatezza, cercando di recuperare terreno. «Cammini sola nel meraviglioso mondo che porti dentro o hai qualcuno che lo fa con te?».
«Cammino sola». Ride amaramente.
«Non hai ancora trovato la tua metà?»
«Io non credo in questa teoria! Le due metà di una mela? No, non cerco qualcuno che possa completarmi. Io sono tutto quello di cui ho bisogno.»
«Lo credi davvero?». Indugia, ma non tanto da mettere in discussione il suo punto di vista.
«L’amore è autodistruttivo, è momentanea illusione.»
«Su questo avrei da ridire!»
«Mi spiego meglio. L’ amore tra uomo e donna lo è. Io credo nell’amore, ma nell’amore di una madre per un figlio. Un amore gratuito, puro, incontaminato dove il sacrificio è poesia, dove non esiste inganno e abbandono. Questo è l’unico amore che può dare completezza, nessun altro. Un uomo e una donna rimarranno sempre due entità singole; decideranno di accompagnarsi per un tratto di strada e ad un incrocio si separeranno. Potranno pure arrivare insieme fino in fondo, ma ognuno di loro avrà trascinato un bagaglio diverso.».
Cos’ è una maschera di cinismo questa che mi mostri o la tua vera identità? Con una scusa banale ti lascio qui. Ho bisogno di stare solo e di ripetermi fino allo sfinimento tutte le tue parole.
Un fiore reciso, un ramo spezzato, un lampo che squarcia il cielo. E’ un cadere da un’altezza da cui non ci si salva mai, un cadere che non offre la speranza di toccare il fondo. Una fiera che digrigna, che morde se stessa perché ha fame, un buco nero che aleggia assetato nell’anima, una ferita che non vuole piangere. Ne ho visto le tracce già nel nostro primo incontro e non sai di avere vicino il colpevole che da tempo si macera in se stesso.
Il disprezzo di me, niente potrà lenirlo o cancellarlo, ha appassito ogni riscatto.
Siamo io e questo lampione nella notte. Un gatto piange alla luna su di un muretto, una macchina nell’angolo accende i fari e va via. Sembra seguirmi e infastidirmi, io che cerco con fatica un po’ di buio per nascondermi. Annaspo nella nebbia. I codardi fuggono di fronte alla realtà e io fuggo da Silvia, dalla Silvia disillusa che ha condiviso con me oggi la sua amarezza. Ho avuto paura, paura di una donna a cui ho strappato la fiducia. Sono io l’uomo che avrebbe dovuto proteggerla, io che avrei dovuto insegnarle l’amore incondizionato . Rifiutata da me, suo padre, ha covato rabbia e sorda solitudine. Oggi è una donna cinica, pratica, indipendente. Non ha tempo per l’amore, non ha labbra per sussurrarlo, pelle per rabbrividirne, mani per accarezzarlo, occhi per cercarlo. I minuti non sanno dilatarsi fastidiosamente nell’attesa, come non sanno farlo dolcemente nell’emozione. I giorni si susseguono puntuali nel calendario, non ha fretta di raggiungerli, non ha nessuno da raggiungere. Sei regina del tuo universo a temporale, un ecosistema che ti perpetua la sopravvivenza. Guardi il mondo da lì, seduta sull’ovattata sicurezza del tuo trono inutile. Io ti ho seduta su quel trono, io ti ho lasciato fuggire da una realtà che ti ho mostrato egoista e sporca. Questo è il frutto del nostro amore Anna?
Sarebbe facile odiarmi, ma non devi. Devi vivere. Indossa un altro amore. Si, sei tutto quello che hai: una sfida che non puoi respingere, un germoglio tenace nell’immenso vuoto. Sarai una rondine che vola verso un cielo nuovo, le tue ali di cera non si scioglieranno al sole della rinuncia, come le mie. Dovevi nascere, il mondo aveva bisogno di te.

«Anima…»
«Ti ho mai detto quanto mi piace essere chiamato così?».
«Ogni giorno! Il tuo nome non mi è mai piaciuto lo sai. Se qualcuno mi avesse detto che un giorno mi sarei innamorata di un uomo con questo nome, lo avrei mandato al diavolo!»
«E invece i casi della vita…».
«Ti sbagli. Per me tu non sei Michelangelo. Quando sono nata ho voluto che nascessi anche tu e che fossi io a darti un nome: Anima!».
«Mia dolce Anna… Ti ricordo che ci separano poche ore. Anche questo abbiamo in comune, la data di nascita.»
«Si…»
«Cosa c’ è Anna? Stai piangendo…»
«Sono felice. Felice perché ho tutto, ho l’universo dentro di me! Ho l’autunno e le sue foglie morenti, ho la neve pungente e fredda, ho il sole che illumina e sfianca, ho un germoglio timido e combattivo. Il nostro germoglio…»
«Anna…»
«Si anima, avremo un figlio.»
«Scusi signore…». Da quanto tempo sono qui? «scusi signore può tirarci la palla? E’ vicina a suoi piedi…»
«Oh certo!».
Sono andato via da te Anna e dal nostro germoglio. Ti sei svegliata una mattina stringendo a te un cuscino vuoto. Poche parole d’inchiostro ti hanno sputato contro il mio addio incomprensibile. Quante lettere hai strappato, quante foto? Quanto ti ha divorato l’impotenza di fronte alla mia assenza? Quanto ti sei fatta del male? Non lo saprò mai. Ti ho costretta ad accettare una scelta non tua. Ti ho innalzata con le mie ali per poi gettarti nel vuoto come un fardello che ostacola il volo. Si è liberi solo quando si è soli, ma un uomo che non sa amare non ha diritto a nulla.
Sono un uomo che stringe a sé il niente che ha scelto.
Ho scelto di stare a guardare, ho scelto il silenzio come dimora, il bianco e nero come scenario.
Ho rinunciato alla voce per gridare i miei bisogni, ho rinunciato all’abbandono dei sensi e dell’istinto per vestirmi di indipendenza. Ho voluto viaggiare solo verso l’ignoto e solo esultare dei traguardi. Ho creduto, da pusillanime, nell’assenza della comprensione, nell’isolamento come cura e rifugio. Ho anteposto me stesso, Silvia, a te, a tua madre e questo non lo potrai mai perdonare. Io non lo farò, mai.
Non piango per nessuno. Piango per me, su di me.
Cade il sangue, gocciolano ricordi su questo muro consumato del mio passato fatto di corse contro il vuoto, contro una vita che non esiste.
E’ fame di dolore, di strazio di carni confuse appese al filo di un aquilone.

«Buonasera Silvia»
«Buonasera». Sussulta, non si aspettava di incontrare qualcuno, ancor meno di incontrare me.
E’ seduta su di una panchina, un salice le piange ai piedi. Li ha lasciati liberi e indisciplinati i capelli come quella sera di pioggia. La fanno più fragile e bella. Ha un quaderno colorato e gonfio tra le mani, tra le pagine una penna. E’ una solitaria, come me. Nel rumore che la circonda, preferisce il suono e l’armonia delle sue corde. Non sono che un fastidioso strappo al suo silenzio.
«Cercavo il punto più riservato per godermi il tramonto! Come vedo abbiamo fatto la stessa scelta, ma non voglio disturbarti…vado via».
«Ma no aspetti. Mi fa piacere la sua compagnia» sorride e non immagina quanto il suo rispetto, rivolto a quello che sente un estraneo, mi ferisca. Celo il mio dolore e mi siedo accanto a lei, gli sguardi rivolti nella stessa direzione.
Le siedo accanto eppure non mi appartiene più di queste pennellate di fuoco oltre l’orizzonte. Continuiamo a parlare al singolare, come se non ci appartenessimo.
Maltratti una foglia tra le dita, vuoi parlarmi, ma non sai trovare le parole.
Sei tremendamente orgogliosa, aspetti sia io a interpretare le tue necessità. Non sai che io ne riconosco i segnali, sono anche i miei.
«Il tramonto ha gli stessi colori di un addio». Mi guarda, la sconvolge il mio leggerle dentro.
«Sai ogni volta che osservo il sole addormentarsi, scorgo gli occhi della donna che amo».
«Deve essere bellissimo!»
«Si, dolce e straziante. Non mi rimane che questo di lei, il meglio di me lo ha portato con sé».
Mento, il meglio di me stesso è seduto qui, accanto a me.
«Se chiudo gli occhi, la vedo ballare tra le nuvole; ha sempre avuto la leggerezza di una farfalla, mentre io sono rimasto un vecchio tronco che stiracchia i suoi rami.»
«Deve averla amata molto».
Ammutolisco. Anna nei suoi occhi, Anna mi ha guardato attraverso nostra figlia, accarezzandomi nella solitudine. Ha perdonato.
«Mi dispiace, non volevo ferirla».
«Cara Silvia, non ne saresti proprio capace».
Ha riflettuto molto questi giorni, ha torturato ricordi chiusi in un cassetto colmo che non sa chiudersi. Ha capito tutto. Sta per pormi quella domanda che ci cambierà la vita, cammina su di un filo appoggiato nel vuoto.
«Le posso chiedere una cosa?». Trema visibilmente nelle gambe e io con lei.
«Certo».
Vorrei piangere, ma le sorrido.
«Lei ha una figlia?».
«No».
L’ho fatto. Ho chiuso le porte a me stesso, alla luce.
Senza respiro, ti cerco mentre ti guardo andare via. Guardo il nero dei tuoi capelli, quel nero che ora inghiotte ogni verità, ogni sbaglio.


CHI SEI?

Dove mi trovo? Mi gira la testa, sento lontane le gambe, gonfie le mani. Sono in una macchina ferma, in una strada buia che non riconosco e che non so dove conduce. La vista è ancora appannata, devo guardarmi e scoprire se è sangue quello che sento scivolare fin dietro il collo. No, non è sangue, é solo sudore. Questo ragazzo che vedo sono io? Quanti anni avrò? Forse non ho più che venti anni. Dovrei avere un cellulare, qualcuno mi starà cercando. Rovisto sotto e sopra i sedili e lo trovo. Sullo schermo dieci chiamate e quattro messaggi. Mamma… ma chi è mia madre? Potrei richiamarla, ma non ho la forza di dirle che non so chi sia, che non riconosco la sua voce. Meglio i messaggi. Mirco mi domanda che fine ho fatto, mi chiede com’è andata con Laura. Laura? Ah sì, c’è anche un suo messaggio, mi chiede di avvisarla del mio rientro a casa. Qual è la vita che ho interrotto un’ora fa? Non ricordo nulla, non so dove andare. La memoria è silenziosa, mi lascia smarrito. Devo fare qualcosa altrimenti impazzisco di terrore. Accendo la macchina; forse guidando riconoscerò una casa, un albero, l’indicazione di un cartello stradale. Con sicurezza inserisco le marce, come se guidassi da anni. Percorro diversi chilometri senza avere il minimo allarme. Le mani tornano a tremare, le gambe ad addormentarsi. Devo fermarmi di nuovo altrimenti vado ad ammazzarmi. Di nuovo confusione, affanno, martellate nelle tempie e poi…il nero.
Di nuovo, mi è accaduto di nuovo.
«Massimo ma ti sembra questa l’ora di tornare a casa? Sono le cinque passate!».
«Lo so mamma» ti prego non chiedermi nulla.
«Lo sai quanto mi hai fatto preoccupare? Stai bene?».
«Si…» non insistere mamma, lasciami solo con le mie paure.
«Guardami e assicurami che stai bene…».
«Ma sì mamma, ho solo bisogno di andare a letto… domani devo svegliarmi presto».
«Come ti trovi con lo studio? L’esame è tra una settimana…».
«Sono a buon punto, però se mi lasci andare a dormire forse riesco a riposare per domani». Non riuscirò a studiare domani lo so, non avrò la forza di alzarmi dal letto e forse quando verrai a svegliarmi ti chiederò di nuovo chi tu sia.
«Scusami tesoro…vai pure».
Di nuovo, è successo di nuovo. Di nuovo aprendo gli occhi, sono sprofondato in un presente senza ieri. Un uomo senza identità non ha ragione di vivere. Un uomo che non sa dove rintracciare se stesso è dannato, è un maledetto senza speranza.
E’ iniziato tutto diversi anni fa, quando ho cominciato a registrare le avvisaglie di questa malattia bastarda. Di lì le prime cure, i primi ricoveri, i primi smarrimenti. Avevo conosciuto te quel periodo; una bambina ancora, nel volto e nel cuore. Ti avevo lasciato andare, da vigliacco, per paura di trascinarti in quella che credevo essere la mia fine. Non capivi i miei rifiuti, credevi non ti avrei mai amata. Non sapevi nulla. Un altro, per disgrazia mia, ha rubato la tua ingenuità e ti ha portata via da me. Non sai quante ore ho passato scrivendo il tuo nome; pagine e pagine, giorno dopo giorno, tra delirio e razionalità. L’unica cosa che avevo paura di dimenticare era il tuo nome. Mi aggrappavo alla tua immagine, sognavo i tuoi occhi di rugiada, i timidi sorrisi che mi ancoravano alla vita. Senza saperlo sei stata la sola ragione di ogni mio risveglio. Uscito dall’ospedale, ho cercato di costruire un incauto futuro, scavando un senso oltre la tua assenza. Ormai per te ero solo un amico, una cotta adolescenziale da riderci sopra. Continuavo a farti sentire la mia presenza, sostenevo le tue silenziose cadute, contavo i passi di quella che stava diventando una donna meravigliosa. Ho avuto occasione di incontrarti di nuovo, ma da inetto, non sono mai riuscito a dimostrarti nulla. Tra le mie banalità e la tua ritrosia, sono passati anni senza che riuscissi una sola volta ad accarezzare la tua pelle. Scendevi dall’auto voltandomi le spalle, lasciandomi con la rabbia verso me stesso per non averti trattenuta.
Avevo bisogno di anteporre a te altri pensieri, nuove occupazioni. Ripresi gli studi, ricominciai a seguire lezioni su lezioni, ma la malattia era sempre lì a braccarmi. Mi aggiravo come un automa nell’università, suscitando ilarità e compassione per i passi traballanti e gli svenimenti frequenti. Ti volevo il giorno della laurea ma, anche allora, ero solo. Non mi sentivo più padrone di nulla. Tentavo di fregare il dolore imponendomi divertimenti e vizi che non facevano altro che sottolinearne la mia estraneità, le forzature evidenti.
Io, sempre uguale a me stesso, sottostavo ai tuoi cambiamenti (quel fumare che ai miei occhi ti deturpava la candidezza) facendoli miei.
E come per rendermi più uomo ai tuoi occhi, emulavo le tue innocenti trasgressioni, sperando si sentirmi uomo per te, di essere visto uomo da te. Inutilmente.
Ero riuscito a raggiungere, nel frattempo, una minima indipendenza dividendo un appartamento con degli amici. Sfruttando una fortuita coincidenza, ti ho avuta nella mia stanza per una notte. Chi può conoscere quanto me il modo in cui sorridi mentre dormi? Chi ha contato le lentiggini sulle tue guance? Conosco ogni angolo del tuo viso, ogni singola increspatura delle labbra, quel neo al principio del seno, quel boccolo che sfugge proprio lì, sopra l’orecchio, quando raccogli i capelli. Nessuna modulazione della tua voce mi è estranea, quelle dita un po’ storte, i polsi sottili, le collane che adori e che abbracciano il collo diafano. Chi adora la tua fragilità? Chi ride amorevolmente della tua rabbia quando scopri di essere caduta in uno scherzo? Chi piange della tua dolcezza? Impazzisco al pensiero degli sguardi che ti contaminano, ruggisco di rabbia se immagino il tuo corpo tra lenzuola umide. Ho trovato altre donne come tue caricature, come dimostrazioni deludenti della tua unicità. A fatica ti cercavo nei volti che hanno incrociato il mio cammino ma. bastava una canzone alla radio, una chioma bionda tra la folla, per cancellare tutto.
Il coraggio richiedeva troppa fatica, troppe energie. Mi crogiolavo estasiato nel vortice dell’autocommiserazione. Guardavo dentro di me per distruggermi, per marcare le mancanze e i limiti. Tormentato per quello che credevo essere un futuro negato, esultavo nel dolore, mai ebbro. Abituavo il cuore all’oscurità, vestivo i miei giorni di ingombri; e più mi sentivo un peso per me stesso e per gli altri, più deponevo le armi, quasi fiero.
Un giorno, forse, non avrò più paura; ma tanta paura poi perché? Perché vivrò di ruggine e solo? Anche se non sarai con me mai, riuscirò a scavalcare queste mura? Ora no, non riesco a crederci.
Questo buco di cuore, così poco sole accoglie. C’è solo la tua luce qui e, di questo strazio, ce n’è di più quando si muore. Sono così stanco, stanco di convivere con lo spettro del futuro, di questo mondo di specchi fallaci, di questo segreto che nessuno vuole sapere. Oltre te che prospettiva posso avere? Quale donna posso incatenare alla mia personalità sbriciolata? Nessuna mai sceglierebbe di accollarsi questo peso, nessuna mai potrebbe solo accostarsi a te e tu nemmeno lo sai. Maledizione quanto sei bella. Devo dirti quanto sei importante per me, devo raccontarti il mio bisogno di te. Forse mi regalerai il mondo, forse mi darai occhi nuovi per sopportarlo, mi darai la tenacia della speranza. Devo provare. Non resterai a lungo un’ipotesi, una probabile via d’uscita, una bugia che invento a me stesso. Voglio sentirmelo dire, voglio guardarti negli occhi mentre dici che non mi ami, altrimenti continuerò ad annaspare nelle ragnatele di questa trappola di utopie. Cosa ho da perdere? Non certo te, non ti ho avuta mai. Il mio orgoglio? Ha perso da tempo le sue radici, si libra nel turbine della mia inettitudine.
Sto tremando sotto questo lampione. Stai camminando verso me. Tutto il mio domani incede, traballando, sui dieci centimetri dei tuoi tacchi.
«Massimo io… ho pensato tanto questi giorni. Ho pensato molto a te, a noi e…».
Si gira di scatto verso di me, ma io non sento più la sua voce.«Massimo! Massimo mi senti? Ti senti bene?».
«Chi sei?».