A MIO PADRE

Sempre il pensier mio vaga e ti cerca nei ricordi stinti

ed il cor sussulta al rimembrarti vagheggiar il mio futuro

col volto acceso.

I pomeriggi estivi solevi coricarti nel tuo giaciglio

e nell’onirico oblìo vedevi gli agognati traguardi

raggiunti da tuo figlio.

Ahi, quanto, quanto pesò la tua dipartita al tenero virgulto!

I progetti onde cotanto ragionammo, teco sprofondaron

nelle sabbie mobili della quiete sempiterna.

Perché, perché, chiedo al fato, un sì vil fendente al core?

Come un fanciullo spiegarsi puote tal tremenda sorte?

Seppur cruda, la realtà del viver terreno dice che quel fanciullo,

oggi uomo, d’allor parlò con la tua immagine incisa sul marmo

freddo del sepolcro.

Ed or sovviemmi quando al capezzal la mia man stringevi,

sì forte ch’i’ lasciai la presa.

Le tue paternali con iraconda voce per le biciclette lasciate al sole.

Rimembro la paterna figura che mi rassicurava con sarcasmo pel

mio timor del buio, che ancor in me si palesa.

Sovviemmi le invernali partite a carte vicini alla stufa accesa.

Quale angoscia al pensier che tutto è passato e tu su tutto.

Giammai nei giorni di fanciullo immaginai che vita è sì crudel!

E’ opinion comune fra le umane genti il sopravvenir della

rassegnazione al fato, eppure il cor mio urla ancora di dolore.


A ROBERTO E MIRCA

Non ci eravamo ancora abituati al tepore di quel Settembre

quando la tremenda novella dello schianto il cor c’avvolse.

Nei minuti e nelle ore seguenti si alimentava la speme

nostra di sapervi altrove nel fatal istante!

Ma, ahimè, infin s’apprese che la mietitrice colse, inesorabile,

anche le vostre giovani vite.

E d’allor un vuoto tremendo, quale lingua mortal dir

non puote, attanaglia e trafigge l’alma straziata de’ cari

e de’ compagni vostri.

Il tempo corre e pare obliterar ogni cosa.

Ma quanti vi conobbero ancor rimembrano le terrene esistenze.

E giammai tali ricordi, seppur simulacri, cadràn nel baratro

dell’oblìo.


AL MIO CANE CHARLIE

Or che nel tuo regno terreno tutto tace

a me sì dolce e caro sovvien il suono

de’ tuoi latrati. Distrugge il core la rimembranza

delle tue corse gaie e spensierate.

Grande e incolmabile il vuoto che in noi lasciasti.

Ora vai Charlie, corri a perdifiato nei prati celesti

e sconfinati.

Eterna e indelebile la tua dolce imago rimarrà nel

cor mio e di quanti ti amarono.

E ferma la speme di rivederci un giorno per

giocar insieme come un tempo.


IL CROCIAIO

I fanciulleschi meriggi estivi del paesello

solevan trascorrer lenti e pieni di giochi,

litigi, segreti confessati e sentimenti platonici

mai confidati.

Rieccheggia ancor il suon della voce di mia madre,

che da materno amor preoccupata il mio nome

pronunciava, invitandomi a concluder la

ludica giornata.

Tanti in quel luogo ebbero spensierati e gioiosi momenti,

benché situato sulla pubblica via fu teatro di fantasie intraprendenti.

Di tutti lor e anche dei di lor, ahimè, trapassati ho ricordi assai presenti,

quasi come di giochi appena cessati.

Nel paesello quel luogo, punto d’incontro fra strade

diverse, da sempre ebbe il nome di crociaio,

posto in fronte all’antico macellaio,

onde si svilupparon scorribande fanciullesche

e premature amorose tresche.

Ancor oggi il cor mio sussulta nell’attraversar quel

teatro degli anni miei verdi, al rimembrar le grida, le corse,

le pubere illusioni e financo le giovanili tensioni.


IL MICIO NERO

Icona del mistero, occhi languidi che paiono impetrar aiuto,

pur se sul divano se ne sta tranquillamente seduto.

Atteggiamento fiero, mai domo, egli è il suo padrone, non l’uomo.

Ma quando vien il tempo del vitto e delle libagioni,

ecco che d’un tratto il felino riconosce i padroni, e con

felpato ma deciso passo si dirige alla dispensa e par

che dica: “Accorrete, ho fame e di attender sono lasso!”


ALLA FIGLIA JENNIFER

16/02/1993

Ah! Finalmente la luce i tuoi occhi videro e io udii il tuo vagito.

Il cor tremò d’un sublime sussulto di rara felicità ed or la mente

già vagava sull’avvenir tuo.

Jennifer, la mia prima discendenza, oggi nacque!

Tanta fu la gioia alla vista di lei che lagrime copiose

solcaron il dolcissimo viso di Emiliana, metà essenziale

dell’alma mia e di lei madre!

Dir non posso, ora, com’i saprò esserti padre, ma

già so che senz’amor la tua vita sarà giammai.


LA MONGARDESCA TERNA

Fu Jennifer, primogenita della Mongardesca terna,

ad aprire i giochi, prima al nido e, in seguito, alla materna.

Seguiron poi, nell’ordine, Antonio e William

i quali, ripercorrendo della di lor sorella l’esperienza

sublime del nido, vero giardin d’infanzia, al par di lei

scopriron come già in fasce la vita sia bella.

Le educatrici del nido, sorprese per l’insolita frequenza,

si chieser se ai genitori fosse inflitta una divina penitenza.

Al volger del tempo divenne chiaro che i birbanti avevano

nel cuore l’asilo nido e le loro insegnanti.

Vuoi perché tre bimbi son tanti, vuoi per impegni di lavoro

o semplicemente perché così son loro, i genitori

della famosa terna son depositari del ricorrente difetto

di non aver mai a regime l’armadietto.

Non di rado Jennifer, Antonio e William han dovuto

a lungo attender che allo scader del tempo

mamma e papà, quasi rapiti da onirico oblìo,

ridestandosi d’improvviso, verso il nido si precipitassero alla velocità del vento.

Ed ora, appena trascorsa la dipartita di Antonio,

l’inerosabil cammin del tempo dice che anche per William, ultimo della terna,

è dell’addio giunto il momento.

Così si chiude un ciclo iniziato due lustri or sono;

l’esperienza vissuta dai tre ne ha forgiato i caratteri volitivi, decisi e raramente sottotono.

Un aspetto dell’esperienza del trio valse a ciascun di lor una fama ancor oggi indimenticata,

di tal guisa che quando un fanciullo del nido si ciba con avidità si usa accostarlo ad un di quei tre là.