L’utima burrasca

 

E adesso,ancora, infine, tu

altra burrasca per il cuore mio,

l’ultima forse ,quando un porto quiete

era pronto a lenir la sua stanchezza.

E’ stanco il cuore mio…

Questi da lungo tempo avvezzo

ai forti marosi dell’amore

lascia le calme acque e

drizza la prora verso le bufere.

E’ pazzo il cuore mio.

Cerca pertanto  antichi desideri,

sguardi fugaci e tremule emozioni.

E’ vivo il cuore mio.

Ancor nelle bufere, ancor  tra flussi e venti.

Un chiodo fisso in mente;

 averti un poco accanto.

E’ stanco, è pazzo, è vivo il cuore mio


 La mia sera

 

 Per l’anno scolastico della quarta elementare l’aula era ubicata in prossimità di piazza Federico II in una stanza dei locali di Ciccio “Carretta” da cui aveva inizio un tratturo che conduceva agli – “jaz r sp’ns’rat”che tradotto  vogliono significare (ovili di Spensierato)

 Anche questa volta si trattava di un monolocale privo di servizi igienici e con un’unica porta finestra. In aggiunta, oltre ad essere più piccola, era priva di un minimo di riservatezza perchè l’ingresso era molto a contatto con la strada. Tuttavia, le lezioni si svolgevano regolarmente e con sostanziale serenità. Un giorno, però, vi fu una rapida ed improvvisa interruzione che riguardava proprio me e la mia famiglia 

Dal primo banco ed in piedi stavo recitando una poesia, dal titolo “La mia sera” di Giovanni Pascoli quando si aprì la porta e vidi mio padre , vestito di tutto punto, con il cappotto al di sopra della divisa, il moschetto sulle spalle ed un grande borsone. Disse al maestro:-“Vorrei salutare mio figlio”. Mi diede un bacio e sparì oltre la porta. Per lui, appuntato dei carabinieri, diventava necessario trasferirsi, temporaneamente, in qualche paese della provincia per sostituire il relativo comandante di stazione. Di solito andava via di notte per cui al mattino io mi trovavo nel lettone con mia madre che mi diceva: “Papà è andato via per stare lontano alcuni giorni e ti ha dato un bacio mentre dormivi”. Quel giorno però,fu molto rapida l’azione; prima ancora che il maestro avesse dato l’assenso mio padre era sparito oltre la porta. L’aula apparve vuota all’improvviso; quel bacio e quel saluto mi rattristarono molto. Risuonarono in sordina le parole del maestro: “Fernando! Continua!…Su Fernando!”.

Fu molto difficile giungere alla fine delle due strofe assegnate. Queste, a differenza di tante altre poesiole imparate in precedenza, erano difficoltose per me bambino data la loro stessa natura e comprensione“…Le tremule foglie dei pioppi trascorre una gioia leggera…”  ed ancora “..Si devono aprire le stelle nel cielo si tenero e vivo…. Là presso le allegre ranelle, singhiozza monotono un rivo”

( Per anni, a lungo, ho pensato a quella poesia avendone dimenticato parole ed autore fino a quando con i moderni mezzi di indagine sono risalito ad essa e ne ho apprezzato sia il valore poetico che il messaggio universale.)

Ho deciso quindi di impararla nuovamente a memoria e ripeterla moltisime volte fino a recitarla  come un attore ben navigato oltre che accompagnato da un appropriato sottofondo musicale.


 

Sulle orme ungarettiane

 

Il soggiorno quasi decennale della nostra famiglia a Lagopesole fu caratterizzato dalla naturale disposizione di tutti noi a ben integrarsi nell’ambiente castellano. Mio padre, uomo delle istituzioni, riuscì abilmente ad incarnare la figura del tutore della legge con quella di amico in una moltitudine di persone con cui tessere una ragnatela di rapporti di stima e fiducia sfociati a volte in quelle “ comparanze religiose” sotto forma di battesimi e cresime, diffuse nel sud Italia in quegli anni, nonché cariche di aspettative e significati.

Vedevo nel comportamento di mio padre la sintesi delle due esigenze; dalla rituale sistemazione della divisa, compreso il quotidiano spazzolarsi delle scarpe, a quelle attività strettamente private e familiari oggi apparentemente strane e poco consone, ma allora, alla fine della guerra, abbastanza diffuse e comprensibili.

Molti a Lagopesole, come in altri paesi, svolgevano più mestieri oppure all’attività principale associavano altre meno importanti ma utili per “tirare avanti” e migliorare le condizioni di vita. Le attività agricole, come la cura degli orti, erano molto diffuse ed altre attività secondarie assumevano un’importanza particolarmente efficace. Il maestro Curto si dedicava al suo mulino sulla via Nazionale…,il maestro Bochicchio integrava l’insegnamento con dei trasporti per mezzo di un camioncino rosso “Tigrotto”…..

Per mio padre qualche derrata si ricavava da un minuscolo orticello contiguo al Castello- si accedeva da una porticina presente ai piedi della parete sud in corrispondenza del Mastio. Alla base della stessa parete una modesta porcinaia consentiva al personale della caserma di allevare dei maiali ed anche io, a volte, ho portato il secchio col pastone per l’alimentazione del nostro dalla casa del borgo, riposandomi spesso lungo l’aspra salita. Mia madre , aggiungeva alle faccende domestiche la cura di alcune galline nello stanzino di casa e grande fu la meraviglia quando dalla schiusa di un uovo covato venne fuori un pulcino con quattro zampe; la sua vita durò pochissimo- giusto il tempo di mostrare la rarissima specificità ai vicini. E’ certo, comunque, che, quel padre carabiniere seppe svolgere questo mestiere particolarmente delicato,riuscendo ad armonizzare entrambe le esigenze ed a raccogliere la stima ed un certo apprezzamento da parte degli abitanti di Lagopesole e delle frazioni vicine. Traspare, quindi, come quell’attività particolare assumeva della sfaccettature diverse a seconda della funzione specifica svolta: dalle situazioni in cui si metteva a rischio la propria vita a quelle in cui si faceva del bene al prossimo con una quotidiana umanità. 

In famiglia l’umore cambiava a seconda delle situazioni in cui egli doveva operare; l’apprensione era intensa quando mancava la notte per piantonare un cadavere o per catturare dei rei latitanti; diventava più serena quando doveva svolgere delle funzioni più tranquille. Noi familiari avevamo imparato a riconoscere le situazioni belle e brutte dal suo umore a tavola: se canticchiava tutta la casa era serena; quando, invece, poggiava pensoso le guance tra le mani e rifletteva in silenzio, allora le situazioni erano serie e ci si preoccupava molto.

Nel 1954 nacque la terzogenita Rosanna. Fu un gennaio freddo e nevoso. In quella circostanza molte persone, secondo una certa usanza, espressero la loro gratitudine portando a casa dei piccoli regali. Non dico cosa portarono! Restai sinceramente meravigliato di quella cordiale e genuina “vicinanza”!

Un anno dopo finì il servizio a Lagopesole. Ciccio “Carretta” con il suo camion ci portò a Calitri ,un paese della Campania fornito di una Scuola Media e di un Istituto Tecnico necessari alla prosecuzione dei miei studi.

Ce ne andammo senza tanti saluti, così come succedeva quando si andava in vacanza nel Salento per poi ritornare di lì ad un mese. Ma non fu così. In quel mite febbraio nella valle dell’Ofanto i mandorli in fiore mi dicevano che una nuova stagione stava per cominciare non solo per quel paesaggio naturale, ma anche per me. Dopo circa 40 chilometri l’autocarro cominciò ad arrancare per i ripidi tornanti di una strada a girandola (definizione del poeta Ungaretti per l’‘introduzione della sua poesia Calitri) fino a giungere in questo nuovo e più grande paese. Qui sarei vissuto per altri due lustri; in esso avrei incontrato altri vicini e coltivato nuove amicizie; sarebbero sorte anche nuove “comparanze”. Tutto questo,tuttavia, non sarebbe riuscito giammai a cancellare quella genuinità di affetti che avevano caratterizzato la nostra vita castellana degli ani ’50. Pensando a queste care persone a me vicine negli anni dell’infanzia come altre identiche ed affettuose incontrate durante gli anni giovanili vissuti a Calitri, sento di poterle umilmente gratificare usando termini poetici che solo la grandezza di Ungaretti poteva esprimere:

Calitri:

“ Deposto da un torrente

C’è un macigno ancora morso

Dalla sua nascita di fuoco.

Non pecca in bilico sul baratro

Se non per l’emigrare della luce

Movendo ombra alle case

sopra la frana ferme

Attinto, il vivere segreto

Col sonno della valle non si sperde.

Da ottenebrate cicatrici, isola lo spavento;

ingigantisce”


Respiri

 

Ed ecco il tuo respiro accanto al mio

Dopo tanti anni cavalcati insieme,

e molto ancora, ringraziando Iddio

che ci ha donato un benedetto seme,

quei  nostri figli di bontà riempiti

costantie orgoglio  per annate intere

e i nipotini garruli e compiti

che recano allegrie di quelle vere.

Quindi  la notte, ritorna il respirare

a volte rumoroso, spesso fioco e lento,

ma sempre caro nel  farci augurare

quel  che ci resta con dolce sentimento.     


 

Mani unite

 

Forse non potrò dire t’amo

a  te che piano piano

hai  invaso la mia mente

mandando in aria tutti i miei pensieri.

Sembrava tramontar la vita mia,

quando un tuo sguardo e delle dita strette

mi  han riportato ai tempi dell’amore.

Ed ecco tornar gli antichi sentimenti,

nuove emozioni ed ansie,

sere con luna in cielo.

Chissà, se un canto d’amore o dolci note

Daran  respiro a mani unite, fuori dal mondo,

ribelli e senza tempo.

                      Fernando Cuppone


               Luigi:un Carabiniere negli anni ‘50

Dal mio libro:” All’ombra del Principe. Un’infanzia castellana”

                   “ LUIGI: UN CARABINIERE NEGLI ANNI ‘50

 

Era ancora buio quando nel freddo mattino invernale i tre uomini scesero dal Castello e si addentrarono tra le casette del borgo. Si fermarono in quella del carabiniere – un monolocale privo di acqua e servizi- per bere un po’ di liquore e poi continuare a piedi il lungo viaggio; destinazione Avigliano.

Una volta in casa mia madre servì i tre bicchieri su un vassoio. Mio padre, Il carabiniere, e Vito Verrastro si servirono ma il terzo uomo restava immobile lasciando il bicchiere pieno sul vassoio. Quando mio padre se ne accorse disse a mia madre ” Dagli tu da bere! non vedi che ha le manette ai polsi?”. Lei non si era accorta che si trattava di un detenuto. Sicuramente un brivido le attraversò la schiena perché con mano tremante portò il bicchiere alla bocca del malcapitato e gli fece bere il liquore. Quindi i tre uscirono e si avviarono per l’innevata via Mazzini.

Il carabiniere Luigi Cuppone, aveva scelto di arruolarsi all’età di 20 anni perchè quella era una delle poche vie per uscire dal suo assolato paesino del Salento -Sannicola -per un posto ed uno stipendio sicuri. Sapeva svolgere il mestiere di suo padre,selciatore,consistente nella costruzione dei trulli e dei muri a secco oltre a quello di agricoltore per il quale aveva seguito i corsi delle famose cattedre ambulanti; ma queste attività davano redditi incerti oltre che modesti.

Pertanto, dopo il corso di apprendimento alla Scuola Allievi di Moncalieri e i primi servizi in Italia:Calabria,Veneto e Romagna, seguirono le missioni coloniali in Somalia ed Eritrea, quindi la guerra in Grecia ed Albania, e la prigionia in Germania. Nei primi mesi del ’46, giunse per lui, quasi come un premio, l’assegnazione della sede di lavoro in un paesino abbastanza tranquillo della Basilicata, CastelLagopesole, e questa volta insieme alla sua famigliola.”

Si partì di primo mattino e si viaggiò con quei treni di metà secolo dotati di “carro appresso” su cui furono trasportati i pochi mobili. In molti ci accompagnarono alla stazione;gli ultimi bagagli spinti sulle bici; il buio dell’alba ancora lontana; la voce del nonno: “Fernandu ! Tanne nu baciu allu nonnu!” Ed io a rispondere: “ Nu bisciu”.