Cantiere d’amore

C’è un vivo cantiere nel mio cuore
un intenso gioioso lavorio:
abbattere pareti divisorie,
ritagliare finestre larghe e chiare,
posare piastrelle un po’ più tonde,
amalgami di tinte granulate,
legni duri di noce profumato …

Per ridare all’amore forza e spazio
che si effonda in baluginii di quadri
e renda netti i contorni e sicuri;
perché lieviti in aliti di frutti,
spinga lievi le tende trasparenti:
come vele le gonfi. E così pronti
c’introduca per rotte lunghe e nuove
a riscoprire lidi or quieti or aspri:
scomparsa è la paura ov’ei conduce.


Nella piazza grande

Nella piazza grande del mio paese
a volte chissà,
la gente ancora attende
per non restare sola.
Faccia di roccia ispida al mento
occhi grandi al riflesso di luna
sangue amaro del padre, dell’avo,
non senti il passo del domani.
Sotto il calice del crepuscolo
malinconia dipinge i volti di ricordi
nelle case vuote di silenzio sacre
ricostruisci il mondo come vuoi.
Sopra un letto di brace
abbandonato ai pensieri
non sai volare leggero:
preferisci precipitare.
Nella piazza grande del mio paese
con tanta gente che attende
io so restare solo
immembranato nel vuoto
un infinito gelido,
la mia persona.
Come voi, santoni delle nicchie,
ho teso uno sguardo nervoso,
ho atteggiato un falso naturale;
non voglio fare più male.
Oh santoni di pietra disarmati
il vostro odio è stato crudele
la vostra rabbia è stata miseria
tanto rossi gli occhi avete al sole.


Il giardino

Nino intervenne a spiegare la strana facciata della sua casa: a lato dell’ingresso s’innalzava, di poco obliquamente e ad angolo convesso rispetto a quello, come una grande edicola raffigurante l’immagine per intero della Vergine Consolatrice e antistante ad essa stava un’ara di pietra bianca su cui ardeva un fuoco vivo, continuamente alimentato: simbolo – diceva – dell’espiazione purificatrice della quotidiana corruzione.
Insisteva Nino sagacemente su quella collocazione delle fiamme così come le aveva volute suo figlio, il pittore: un preciso monito all’uomo che niente avrebbe potuto senza l’aiuto della Santissima Matri. I suoi occhi neri, come neri i riccioli del suo capo fino a qualche tempo fa, esprimevano una convinzione inconfutabile, tenace segno di fede tribolatamene conquistata.
Nino, o ziù Ni’ come ormai lo chiamava la gente del paese, tanto minuscolo quanto solido di nervatura e sveglio di mente, era diventato un uomo di massimo rispetto per i viddani suoi compaesani che stavano sazi solo se tre giorni della settimana riuscivano a ‘dduarisi come braccianti nelle campagne dei padroni. Adesso viveva agiatamente dedicandosi al suo laboratorio di quartararu. Ma da giovane, Nino, era stato uno scapestrato, senza arte né parte, fino a quando non aveva deciso di dar pace all’armuzza santa di suo padre che gli era apparsa in sogno mentre piangeva di lui. Quella apparizione era stata uno sconquasso nella sua vita senza senso, piena di vizi e leggerezze. Per penitenza si diede a digiunare per mesi fino a ridursi secco come una forcella. E intanto aveva costretto il suo cervello a rintracciare la sua indole profonda e a configurarla nella sua nuova identità. Fu dopo questo tempo che lo ziù Ni’ divenne quello di adesso, con un filo di baffo sopra il labbro superiore, il suo sguardo incupito rivolto all’infinito, la sua fronte rugata sempre più incombente su quella faccia di vecchio saraceno.

C’e un posto nel paese in cui i piccoli proprietari terrieri incontrano i mercanti per vendere la loro produzione annuale, oppure ingaggiano braccianti per i lavori stagionali. Il posto è noto come pagghiareddu, l’ incrocio tra i due corsi principali. E’ qui che conobbi Nino Schembri che cercava un ommu per il suo giardino.
Io ero appena arrivato da qualche giorno da Qena dove vivevo con mia madre e le mie due sorelle più giovani di me. Da quando mio padre era stato trovato morto dentro la sua feluca dalla bianca vela triangolare impigliata in un canneto della riva occidentale del Nilo, l’economia della famiglia era talmente decaduta che ci permetteva appena di vivere. Fu così che decisi di raggiungere la Sicilia. Partii una mattina buia e ventosa. Mia madre mi confermò solo con gli occhi quanto mi amava. Ebbe solo la forza di ricordarmi la sua maggiore pena: “Silahdar…le tue sorelle, senza di te…”. “Non le abbandono” risposi e l’abbracciai. I dromedari della carovana, che mi avrebbe accompagnato fino a El Ghardaqah, erano nervosi per la sabbia che il vento soffiava sulle loro narici.
Non conoscevo bene la lingua del posto, ma Nino si fece capire benissimo: mi avrebbe fatto lavorare nel suo aranceto per un mese intero e, se fosse rimasto contento, addirittura per un anno. Mi ritenni fortunato per essere stato scelto tra i tanti altri locali che chiedevano di lavorare.
Più tardi sarebbe stato lui stesso, in una tiepida sera d’estate mentre le stelle accorrevano sempre più numerose su di noi che stavamo seduti nel patio davanti alla casa, a confidare ai suoi familiari: “Silahdar è per me il terzo figlio che ho sempre desiderato. Dal primo giorno che l’ho visto l’ho capito guardando nel profondo dei suoi occhi neri, il suo sguardo sincero, il suo fisico allegro…”. In realtà io ho trovato lì una nuova famiglia, senza dimenticare mia madre e le mie sorelle rimaste laggiù, nella valle del Nilo, ad intrecciare vimini.
Nino aveva avuto da sua moglie Mena due figli: Pino il maggiore, appassionato di arte, insegnava disegno nella scuola di una città vicina, ma era soprattutto noto come pittore i cui oli su tela venivano esposti nelle mostre delle principali città siciliane. La seconda figlia, Marcella, era una ragazza agile, bruna, la pelle profumata di frutta, gli occhi grandi baluginanti, la bocca lievemente aperta al sorriso e, nonostante fosse stata abituata ad ogni lavoro pratico, le mani lievi come farfalle.
Spesso la domenica accompagnavo Pino a Catania, Ragusa, Siracusa, Taormina dove partecipava con i suoi quadri alle mostre locali. Ero attratto dalle rappresentazioni di quelle figure umane: rapite da un’estasi di luce abbagliante, sembrava che attendessero pazienti a trasfigurarsi in esseri vivi e vaporare lievemente nelle piazze barocche simili a veli sospinti dall’aere. Nella buia notte del ritorno, rotta dai fari polverosi, la sua voce rauca confusa al rollio del motore, mi narrava degli amori giovanili avvolti nel silenzio degli aneliti, dell’inaspettata morte della madre dopo aver partorito Saèla, come lui chiamava la sorella, dello smarrimento inesorabile del padre sempre più posseduto da una smania ineffabile, della pena che gli vegliava le notti per quella sorellina che avrebbe voluto felice e lontana dalla decadenza che aveva invaso la loro casa.
Fin dall’inizio il giardino mi inebriava con i suoi profumi e mi portava lontano fino al mio villaggio, a rivedere la casa sotto i palmizi, a risentire i suoni che l’abitavano, le nenie meste della madre, il ridere fragoroso delle due fanciulle, lo sferragliare della carrucola, l’oscillare baldanzoso del secchio che scende, il grondare sotto tensione del salire. Ogni fine mese avevo sempre pronto un bel gruzzolo per farle felici. Le zagare alitavano fin dalle prime luci un ammasso allucinante e dolciastro che attirava nugoli ronzanti di api. Mi dedicavo al lavoro con meticolosa ossessione. Con precisione geometrica tessevo le trame di conche concentriche ai tronchi. Conche collegate a bracci. Bracci collegati a canaletti longitudinali che percorrevano in pendenza il terreno. Sciabordando sui sassi e cantando i suoi gorgheggi l’acqua raggiungeva ogni albero fino a morire sul livello più alto del solco. La pompa a motore ruggiva in lontananza con monotonia mentre la convogliava dai recessi del pozzo al punto più alto. I nuovi germogli si aprivano con tenera lucentezza e un penetrante odore di fresco.
Fu in una di quelle luminose mattine di giugno che lei mi apparve, come in sogno per l’aria tremula di caldo. Vestita di bianco si avvicinava leggera e morbida sfiorando il suolo. Portava con sé una caraffa di cristallo e un sorriso smagliante a cingere il candore dei suoi denti. Avanzava al galoppo, nell’immenso silenzio azzurrino del cielo, e nell’indugio il bruno dei lunghi capelli affidava alla luce il fascino bianco dell’incavo del collo e del petto. Mi penetrava il cuore la furia della sua bellezza e mi lasciava inerte. Entrava con impeto. Sbaragliava d’immenso. Bruciava i miei tempi. Marcella non era un fantasma d’amore, ma l’amore vero, l’amore per cui tu desideri perderti, su cui vuoi abbandonarti e riposarti, a cui rispondi d’istinto pur non senza pudore.

Prima dell’alba di quel giorno di luglio un rombo assordante mi svegliò e mi tenne immobile sul pagliericcio grumoso. Per una interminabile mezz’ora gli aerei sorvolarono le tegole brune del tetto e diffusero il terrore dell’impatto. Ma nessun impatto, nessuno scoppio, nessuna sventragliata di mitraglia. La luce cominciò a filtrare tra le canne del soffitto e ad insinuarsi con forza negli spiragli dell’anima. Il silenzio gelido aveva occupato il vuoto opaco del rimbombo. In mattinata giunsero di corsa le prime famiglie dal paese. Ziù Ni’ aveva offerto ricovero ad amici e parenti in quella casa di campagna e sarebbe arrivato presto anche lui. Nessuno aveva sospettato che la guerra potesse toccare la Sicilia. Voci di uno sbarco anglo-americano a Gela, di una pronta reazione del reparto mobile di Niscemi, del contrattacco tedesco di Caltagirone si diffondevano a frammenti. Continuavano ad arrivare altre famiglie che avevano scampato per poco il pericolo delle granate. Balbettavano che non era più il momento di stare fuori, all’aperto. Io speravo che Marcella e la sua famiglia non si fossero allontanati dalla casa del paese. Stavamo seduti per terra, uno accanto all’altro, uomini con sguardi persi, donne che abbracciavano i bambini. Il tempo sospeso su di noi sembrava dovesse esplodere a momenti. Io mi risolvetti di andare a cercare Marcella. Tutti mi sconsigliarono di andare, ma fu inutile. Mi infilai per il campo di stoppie di Martorana, l’orzo era stato mietuto da poco e attraversarlo mi metteva allo scoperto. Ma sapevo che potevo incontrarla per quella scorciatoia: l’avevamo percorsa insieme varie volte. Mancavano ormai pochi metri alla chiesetta di San Giusippuzzu ‘Tanasiu alla grata della cui finestrella quadrilobata Marcella aveva spesso intrecciato rametti di cedronella e boccioli di rose profumate. Camminavo spedito, quando il cingolare di un carro armato tedesco mi attraversò la strada. Ebbi il tempo di acquattarmi dietro il tronco massiccio d’un ulivo. Si scatenò l’inferno. I soldati americani paracadutati prima dell’alba avevano teso un agguato proprio lì dove la provinciale con una serie di curve sale alla collina da cui è possibile afferrare con un solo sguardo tutto il paese raccolto a pugno, casa su casa, fino al culmine che svetta con le due chiese barocche nella piazza, Santa Maria dell’Odigitria e l’Addolorata, mentre più a sud, in direzione di Ponte Olivo, si staglia netta la torre quadrata del campanile di Sant’Antonio. Gli spari, gli scoppi, il sibilare delle schegge, il fuoco misto a polvere, coprirono gli squarci dei corpi, i gridi di morte, gli ultimi addii vaporati in cupo fumo. Quando giunsi alla chiesetta non vidi solo corpi dilaniati di soldati: due donne sporche di terra e di sangue avevano finito di pregare per sempre. Distese di traverso l’una all’altra non avevano trovato riparo dietro gli eucalipti ai fianchi del sacrario. Tra loro non potei riconoscere subito Marcella tanto le forme erano state sfigurate.

Marcella! Marcella mia! Marcella mio amore! Con strazio adesso grido e impreco e supplico: Marcella! T’avvolge fredda la terra e il vento non verrà più a sussurrare brezze ai rigidi capelli e il sole a riscaldare l’ormai pallido seno! Anzi il sorriso della morte ha cinto di freddo le labbra e spento il volo lieve delle mani. Il corpo agile a me sì caro muto rimane al mio richiamo vano! Il silenzio mi ferisce e mi tortura: pietrifica i ricordi. Ti cerco. Ti cerco nell’abisso, nel profondo abisso di Qena. Il fischio rotto della carrucola lancinante divora il mio tempo. C’è solo un abisso magnetico nell’occhio languido del fondo del pozzo, del fondo buio, e mi viene voglia di annegarci la febbre delle nenie lamentose, le nenie incantatrici della mia vecchia madre.