L’ULTIMO BALLO

E io qui

a ingozzarmi

del tempo tuo

che è mio.

Del tempo mio

che è tuo.

E tutto quello che ho da dirti

già te l’ho detto.

Tutto quello che ho da dire

senza parlarti mai.

 

<< Bella signora!

Ti chiedo un bacio, ma anche

uno schiaffo.

Va bene uguale;

bella signora,

ti va di ballare

con me? >>

 

E alla fermata del tram …

Perché quello che avevo da dire

io te l’ho detto.

 

<< Ho incontrato i tuoi occhi

ieri.

Per strada.

Devi averli persi!

Li ho raccolti.

Bella signora,

balliamo o facciamo l’amore?

Ho incontrato i tuoi occhi.

Erano soli

nudi

gonfi.

Erano soli

vuoti

nudi.

Li ho incontrati ieri i tuoi occhi.

Li conoscevo da sempre. >>

 

E tutto quello che ho da dirti

è questo.

E molto altro.

Tutto quello che ho da dirti

non te lo dico,

perché ti guardo.

E tutto quello che ho da dire

è guardarti;

forse.

Qui e oltre,

bella signora,

nel tempo mio,

che è tuo.

Nel tempo tuo,

che è mio.


 

IL MIO NOME

Dov’è, dimmi. Il mio nome?

 

Ho preferito perderti,

tra milioni di altri volti.

Poi ti ho perduto

e altri mille volti ancora.

 

Ho preferito cercarlo altrove

il nome mio.

E ancora oltre l’ho cercato:

nelle tasche strappate dei jeans, quelli

che ti piacciono tanto.

Tra le pagine del libro che leggo,

ché non ho mai avuto il coraggio di regalarti.

Nelle primavere di mia madre.

Sotto al cuscino.

L’ho cercato nella lettera d’amore

di un quattordicenne. E poi dentro una canzone.

 

Dov’è, dimmi. Il mio nome?

 

Negli sguardi dei passanti?

Degli amanti

che non si amano?

Al funerale di mio padre.

 

L’ho cercato tra i denti marci dei marinai,

sotto la pioggia e in una poesia.

Nelle notti in bianco,

dentro un foglio bianco.

In un profumo buono e in ogni carezza.

 

Dov’è, dimmi. Il nome mio?

 

Era rimasto là. Dentro gli occhi tuoi che non piangono mai.

Era rimasto là. Tra le tue mani.

E poi lo hai buttato via

(perché non era più

tuo

il nome

mio).

E allora

ora:

 

dimmi dov’è il mio nome!


 

Vent’anni

Come sono ruvidi i tuoi occhi, mamma,

quando si posano sui miei.

Come è ruvido il tuo riso:

sembra una smorfia.

 

Sono solo un bambino io.

E sono caduto per terra, e torno

a casa

con le ginocchia sbucciate

e le mani ferite

e le scarpe sporche di fango.

Come te lo spiego, mamma,

che mi hanno picchiato?:

<< Non sono coraggioso,

non sono forte come papà.

L’ho finito tutto il coraggio

quello che mi avevi dato tu,

quello che mi avevi detto di starci attento.

Scusa.

Me ne dai un altro po’?>>

 

E c’ho sti due lacrimoni,

che mi bruciano

dentro agli occhi.

E poi il mocciolo

fuori dal naso.

Sai che faccio? Lo sposto con

la manica della camicia,

così non te ne accorgi.

 

Cade una lacrima:

 

<<Com’era pesante, mamma,

l’hai vista?

Ci pensi che prima era dentro

ai miei occhi?

Ci pensi che prima era dentro

ai miei sogni?>>.