Fobie.

S. Martignano 1/9/1980

Questo posto finirà col farmi impazzire: il silenzio, il buio quasi irreale per chi passa tutte le sue sere e le sue notti fra i rumori che salgono dalla strada e per contrasto, un concerto di grilli e qualche volta anche una civetta che, chissà perché, decide di scegliere, quale palco d’onore per il suo canto notturno, il balcone della camera al primo piano. Il cielo è ancora nella sua veste di fine estate ma nelle sere come questa le costellazioni bucano il buio appena offuscate dalla mezza luna.
Allora, cosa non va in questo paradiso? E’ terribile: farfalle. Pazienza quelle colorate che di giorno sono attratte dai fiori… Sono qui, sola, alle dieci di sera – ed è come se fossero le due di notte-, sotto la luce al neon della cucina: lievi colpi contro i vetri della finestra e della porta. Falene, orride, scure, immonde falene, dal corpo tozzo e peloso. Dalle ali spesse color del fango, sbattono senza sosta contro il vetro della porta, nel tentativo di entrare e suicidarsi al calore della luce. Mi faccio coraggio e scosto la tenda d’ingresso, le vedo. Ce ne sono di piccole, chiare e quasi innocue, di medie più scure e di grandi come il pugno della mia mano, tutte tese all’obiettivo: entrare. Rabbrividisco e penso a cosa succederebbe se potessero entrare: mi vedo assalire da questi corpi volanti come dalle sozze Arpie di mitologica memoria. Mi torna alla mente quel racconto di fantascienza di Philip K. Dick, in cui le farfalle dominano il pianeta e bucano lo scafo dell’astronave…la realizzazione dei miei incubi più atroci. E quella volta che, nella cena romantica sulle colline di Finale, la sozza falena, dopo aver tentato di atterrirmi e rovinarmi l’incontro –potevo mai far vedere al mio lui di allora la debolezza estrema: “…oddio la nevrotica ha paura delle falene”?- dopo che, a prezzo di notevoli sforzi di autocontrollo, ero riuscita a mascherare il tutto in aria di finta indifferenza compiacente dell’atmosfera “nature”, la sozza dicevo, riuscì a demolire le mie difese piombandomi sul piatto di ravioli (l’unico scelto fra tanti avventori con piatti e senza fobie) e costringendomi all’allontanamento urlante fra le meraviglie e la sufficienza di tutti….
Va bene, credo di sapere esattamente cosa è. Paura, certo, lo vedo bene dalla pelle delle mia braccia. Fobia sepolta, inconscia inutile e incontrollabile, tanto più forte quanto più senza ragione, per qualche cosa che non potrà mai far danno reale a nessuno se non a chi, quella presenza volante e silenziosa, deve averla associata, chissà quando, chissà dove, ad un momento traumatico della vita. Che evidentemente non voglio proprio ricordare.


Il compleanno

Mariannin si era svegliata presto quella mattina o almeno così le pareva, dato che aveva trovato ancora al suo fianco Tonino che si rigirava lentamente per trovare la posizione giusta w scendere dal letto. Finalmente con un lamento riuscì a mettersi in piedi: la gamba, dopo l’incidente che aveva avuto più di dieci anni prima, non riusciva a portarlo oltre le tre, quattro camere che dividevano con il figlio e la nuora. Mariannin lo guardò stupita per un attimo, non riusciva mai a ricordarsi perché Tonino faticasse tanto ad alzarsi, quando lo aveva sempre visto saltare in piedi alle quattro del mattino per arrivare in tempo ad aprire, alle cinque, il bar, “semmu vëgi aua” pensava Mariannin e il bar lo avevano ceduto…dieci anni prima? Quindici? Tanto tempo prima, comunque, questo lo ricordava, la Carlina era ancora una bambina e adesso invece…Dov’era la Carlina? Doveva dire le orazioni del mattino, si nascondeva sempre: non sarebbe mai diventata una “figetta” come si deve, se continuava così. Anche Mariannin si era alzata e girava la stanza con aria sperduta e la lunga camicia che penzolava per quelle quattro ossa che ancora sostenevano un corpo di cui non aveva più conoscenza. La Carlina e il bar erano già scomparse dalla sua mente per lasciare quel vuoto che da tanto la accompagnava, una specie di attesa come quando si è al buio in una stanza e si sa che qualcuno, di lì a poco, accenderà la luce.
La luce si accese subito ed entrò la Zita.
-Nonna Mariannin come andiamo oggi? Svegliata presto, eh!- La portò in bagno mentre lei sorrideva dicendo:
-Che tempo fa oggi? eh, che tempo fa? e lei come sta?- ma non riusciva a ricordarsi bene chi era quella signora che la accompagnava nel bagno di casa sua, che impudenza, che vergogna! Si sentiva molto confusa che qualcuno la lavasse, la pettinasse i pochi, radi capelli bianchi sulla cute levigata della testa e glieli appuntasse dietro con la retina… e questa signora adesso le frugava anche nell’armadio cercandole i vestiti e continuava a parlare come se la conoscesse bene.
– Oggi mettiamo questo- diceva la Zita- perché è un giorno speciale.-
Mariannin non riusciva a ricordare se avessero assunto qualche nuova domestica, certo questa era impudente, frugava negli armadi e decideva sul vestito che si doveva mettere, lo avrebbe detto a Tonino, anzi lo avrebbe detto a lei, alla Zita… Ma le sorrise, le tornò la confusione di quando la stanza era al buio e in fondo in questi casi forse ci voleva una domestica che l’aiutasse. Perché lei ormai era vecchia, lo sapeva, da tanto tempo, ed era stata anche malata, prima ma adesso stava meglio.
Zita l’accompagnò in cucina e si diede da fare per la colazione. Mariannin andò alla finestra e si sedette su una sedia con le mani in grembo a guardare la figura che si muoveva dal fornello al lavandino e dal lavandino al fornello… e improvvisamente fu contenta, subito, perché sapeva che quella era la Zita, la moglie del suo figliolo Paulin, ah, una donna veramente in gamba, certo il Paulin, grosso e goffo come era, non avrebbe potuto trovare di meglio. Si sentì contenta: quella era la sua casa, con il suo Tonino, il Paulin e la Zita e le “figette”2,era tutto a posto. E ripiombò nel buio.
La Zita portò le tazze sul tavolo e si guardò i due vecchi con aria serena e condiscendente, sorridendo tra sé e pensando che erano lindi e puliti come due neonati a cui erano state da poco cambiate le fasce. Mariannin superava di poco il tavolo della cucin in altezza e assomigliava di più ad uno scheletro ambulante che ad una persona vera, con quelle ossicine sottili coperte solo più da una pelle lieve come una carta velina, quegli occhi neri che sporgevano dal viso scarno: sembrava l’esempio vivente di uno stato di forte carenza nutrizionale, per chi non l’avesse vista mangiare regolarmente e abbondantemente ad ogni pasto. Nessuno l’avrebbe detto, a vederla ora, la madre del Paulin, “grande grosso e gaioffo” quanto lei piccina e minuta; nessuno l’avrebbe immaginata com’era stata, negli anni senza il buio, una donnina piccola ma dal carattere ferreo, deciso, capaci di emergere risoluta da dietro il bancone del bar per affrontare senza mezzi termini i “camalli” che, giocando a carte al tavolo e bevendo vino, avevano osato bestemmiare. Il Paulin quasi quasi la temeva ancora adesso, quella sua madre piccola e decisa, che le arrivava alla cintura eppure sarebbe stata ancora capace, se la sua mente avesse potuto pensarlo, di alzare le mani per suonargliele di santa ragione, come aveva fatto per quasi trent’anni, del resto.
Nella cucina ci fu un po’ di trambusto quando entrò la angela, la figlia più piccola, che adesso stava lì con il marito perché le ave vano dato lo sfratto e non aveva ancora trovato una casa dove abitare. Tonino cominciò a girare innervosito con il suo bastone senza trovare l’angolo giusto perché le donne avevano da cucinare e sembrava sempre che lui ingombrasse.
– Eh, Tunin- disse piano Mariannin guardando di sfuggita la Angela che prendeva il caffè visino al suo barbuto marito- chi l’avieiva ditü ch’emü cuscì povii da duviei fitâ ‘e stanse aa ggente…”
– Eh? Cûsse? Il Tonino non ci sentiva mica più bene, ed era una fortuna.
La Zita si voltò incuriosita:
– Ma non vedi. È la Angela, con suo marito, possibile?
La vecchia si sentì un po’ presa in fallo e ci rimase male, poi, più per abitudine che per convinzione, cominciò il solito rassicurante ritornello:
– Eh, eh, bella a mee figetta, brœva a mee figetta” sorridendo mentre congiungeva le mani per dare veridicità alle parole
A mezzogiorno erano già tutti a tavola, una bella tavola con la tovaglia ricamata e tanta buona roba sopra: Mariannin era al suo posto, il Tonino, al solito, a capotavola e la Carlina, la nipote prediletta con il marito, vicino a loro, e poi tutti gli altri intorno. A Mariannin sembrava un giorno diverso, con tanta gente e più cose da mangiare e tutti parlavano tanto ed erano allegri. Poi ci fu una torta piena di candeline, tante candeline che la coprivano quasi tutte, erano trentasette intorno ad una grossa con sopra il numero cinquanta in mezzo, tutte accese.
– Soffia, nonna! Esprimi un desiderio!-
– Dai mamma, bevi!- il Paulin le aveva riempito il bicchiere di un vino bianco spumeggiante-
– Tütu te fa ma’, nú lu beive, tütu te fa ma’! – diceva il Tonino, preoccupato
Mariannin prese in fretta il bicchiere e lo vuotò di un fiato, era buono e dolce.
– Brava! Così si fa!-
-Mariannin capì che la festa era per lei e fu felice, tanto come non ricordava di essere stata, e le sembrava tutto chiaro: era il giorno del suo compleanno e tutti in famiglia se lo ricordavano, come sempre, come ogni anno.
Si girò anche verso il Tonino, con aria maliziosa e cercò di dirgli quando, l’anno scorso o più indietro, lui le aveva regalato un grembiule nuovo da cucina, e lei lo aveva messo subito anche se era festa e il Tonino, quello spudorato, le aveva toccato la “natura” sul grembiule, davanti a tutti:
– E mia in pêtin cüssa ti ghee qui, sûttu û scûssaa…-
Invece non disse nulla ma si mise a ridere, a ridere battendo le mani lentamente per tutta quella gente che stava intorno al loro tavolo, seduti vicino a lei e al Tonino.

Dicembre 1978


L’amante

Ester accostò la macchina al marciapiede, spense i motore e si accese una sigaretta. Il fumo riempiva l’abitacolo e appannava appena il vetri; la casa di Sergio, così vicina, e mai come quella sera accessibile, era buia dalla parte posteriore, da dove ora la guardava, ma le luci del soggiorno erano accese, le aveva viste mentre saliva il lieve pendio dalla parte opposta del marciapiede.
Sergio la stava aspettando, lei non si decideva a scendere. Le giravano per la testa le parole che lui le ave va detto al telefono dieci minuti prima: “Perché mi hai combinato tutto questo casino? Non dovevi telefonare a casa, era l’unica cosa che ti avevo chiesto di non fare!”
Un’ora prima infatti le aveva risposto la moglie e da lei aveva saputo che quella sera lui sarebbe rimasto solo a casa, ad accudire alla piccola Lisa. Più ci pensava più si convinceva che la prima telefonata era stata una sfida al suo divieto, al suo voler proteggere ad ogni costo l’atmosfera e la sua vita familiare da qualunque interferenza esterna che potesse minacciarla. Adesso in auto era combattuta fra il desiderio di correre su da lui e la vergogna di non essere all’altezza delle aspettative e dei desideri di quello che ormai considerava l’uomo della sua vita, insieme al timore di averlo deluso, infastidito, seccato forse: certamente l’avrebbe guardata ora con occhi diversi… Si guardò gli occhi per l’appunto, nello specchietto dell’auto: gli occhiali erano completamente macchiati dalle lacrime profuse a fiumi fino a poco prima e sotto si intravedevano le palpebre ancora gonfie. Era veramente un mostro. Sospirò, si ripulì le lenti e si accorse che non aveva portato gli occhiali da sera con le lenti chiare: tanto meglio, così quelle affumicate le avrebbero fatto da maschera protettiva.
Usava spesso questo trucco: gli occhiali per nascondere il viso, l’espressione, per dire agli altri “non guardatemi oggi, sono dietro agli occhiali”, e questo perché lei gli occhiali non li portava sempre: aveva solo un lieve grado di miopia, quel tanto che bastava per non distinguere le scritte pubblicitarie sui cartelloni stradali, per non mettere a fuoco il viso delle persone che incontrava o le targhe delle macchine, e fin qui nessun problema, a parte alcuni inconvenienti che ne derivavano, come quello di salutare gioiosamente come era solita fare con gli amici, qualcuno che la guardava stupito e che si rivelava essere, a giusta distanza, assolutamente sconosciuto, o soffrire le pene dell’inferno vedendo l’auto di Sergio con il Sergio appunto tutto appiccicato ad una favoloso, sicuramente favolosa ragazza, salvo poi verificare, a lenti sul naso, che non era lui e che i numeri della targa non corrispondevano (ma chissà quanto altre volte, incontrandolo senza lenti e non sospettando che si trattasse di lui, non l’aveva riconosciuto.
In questi casi le maledette lenti avevano un’importanza vitale, più ancora che al cinema o durante i viaggi, quando il paesaggio le si proponeva come una macchia confusa e allora la rapida ricerca nella borsa del magico astuccio significava vedere le foglie nuove degli alberi ad una ad una e tutto ciò che la circondava come disegnato da una matita con la punta fine e precisa.
– Hai un’aria terribilmente intellettuale con quegli occhiali nuovi-
– Mi piaci quando hai gli occhiali e sembri tutta seria-
-Stai bene con quegli occhiali-
Avrebbe voluto cambiare montatura ogni giorno solo perché lui potesse dire qualche cosa, ma poi c’era l’altra faccia della questione: montature e lenti costavano sempre più care e a lungo andare gli occhiali pesavano sul naso, d’estate lo facevano sudare e lasciavano un segno antiestetico che sembrava una deformazione dell’osso nasale; comunque, anche senza queste esagerazioni, tenerli sempre finiva per darle quell’espressione un po’ stupida che tutti gli occhialuti hanno nel momento in cui gli occhiali se li tolgono per pulire le lenti o strofinarsi gli occhi…o per asciugarsi le lacrime. Lo aveva ben presente: tutte le persone che le erano apparse carine con gli occhiali avevano rivelato, in quei critici momenti, in quegli attimi di pausa, una espressione goffa, sperduta, brutta e imbarazzante, come se fossero rimaste per un po’ disarmate, o nude in qualche modo. Chissà, forse con delle lenti a contatto… e la pupilla no si sarebbe troppo dilatata? Già, ma poi come avrebbe funzionato con le lacrime. Si vedeva destinata a piangere per il resto della vita, della sua vita senza il “suo” Sergio che l’avrebbe odiata, o peggio tollerata…basta, si sarebbe comprata delle lenti scurissime, le più scure possibili, le “antiruga non guardatemi” tipo Greta Garbo… e le avrebbe poi dimenticate nei momenti in cui le sarebbero servite.
Si guardò ancora nello specchio: il mascara si era sciolto e aveva formato sottili rigagnoli lungo le guance, la bocca sembrava una macchia. Si pulì meglio con un fazzolettino, raccolse la borsa e scese. Le scale le salì molto lentamente ed entrò quasi con timore dalla porta già aperta. Sergio non le disse nulla per un po’, finché la Lisa non fu sistemata nel suo lettino e addormentata. Allora finalmente le tolse gli occhiali che per tutto quel tempo Ester aveva risolutamente tenuto e, come faceva di solito, la baciò sugli occhi dolcemente.

Novembre 1979.