La morta

A Lei,
superfluo dire chi

Le gambe lattescenti le escono da un foro nel legno, come un pupazzo rotto ficcato a forza dentro l’immondizia. E’ mia madre. Nella bara.
La chiesa puzza di gomma resina, l’odore dei luoghi senza santità. I colori virano a grigio, nonostante sul matroneo destro bivacchi un oblò a lapislazzuli.
Un colpo di cannone ricorda che è quasi mezzanotte. In punto.
Mio padre, sulla linea dei santini, sfoggia un lutto impeccabile. Va di moda essere in tinta con gli umori del fegato. Vorrei abbracciarlo ma mi fa cenno di telefonargli dopo il funerale. Me l’avrà detto cento volte: le ferite vanno tenute sotto il cappotto.
La Chiesa abbraccia un sacco di gente, ma forse mi sbaglio.
Intravedo il poeta locale che innaffia un abbecedario di fiori secchi. Due file dietro, inginocchiata con un bocchino di radica tra le carie, c’è la tabaccaia comunale. Ho sentito dire che si sta curando il cancro con il bicarbonato, si vede che funziona.
Scorgo anche il prete, con il cranio rasato e le gambe storte come gli angeli. E’ nervoso, fa capolino dalla sacrestia per vedere a che punto è la creazione. Credo si aspetti che la messa si faccia da sé. Pover’uomo. Ogni credente, in fondo, ha il diritto di pretendere una cosa così.
Chiudo gli occhi. Ma è questione di un istante intrappolato tra le ciglia. Quando li riapro, sono dentro una bara anch’io. Cazzo, si sta stretti, è come fare due più due. Di fianco c’è mio fratello, agghindato con il tight aziendale di quando si è sposato. E’ un giorno qualsiasi dei suoi trentatré anni. E’ tutta colpa del monco, urlo mettendomi il cuscino sulla bocca. Lui lo sa di che parlo, però mi fa notare che stiamo esagerando. E’ il maggiore, non mi ha mai perdonato di essere nato.
Poi, ecco, accade l’impensabile. Nel tremolio di tutti i lampadari, mia madre si alza dal feretro e, roteando a mezz’aria come la sottana di un derviscio, ci si fa sotto. Arborea. Sdentata. Scaduta. Sembra un ritratto di Tim Burton. Quant’è bella, penso. Ci accarezza la fronte e ci rimbocca il lenzuolo come quando eravamo piccoli. Noi muoviamo le zampette, gattini emozionati.
E’ la notte di San Nicodemo, le stelle cadono come capelli. L’estate parte per l’altro emisfero e ha l’aria di chi se ne va per sempre.
Appare con la telecamera il compagno di banco del liceo. “Facciamo un documentario”, propone sudato. Ha portato la macchina del fumo. M’illustra il piano. La bara che emerge dalla nebbia, il cosa. La notte, il dove. La madre del regista, il colpo di scena. Ha studiato dagli inglesi, ci tiene a farmi sapere.
“Se lo ridici, ti spacco la faccia” gli sputo contro come per darmi un tono. Ma lo so che può funzionare, non sono mica stupido.
D’improvviso, un fulmine si specchia irato nei neon della navata centrale. Ora la situazione è tutta blu. L’idiota per sbaglio gira l’interruttore della macchina del fumo. Non vi dico: c’è chi piange, chi starnutisce, qualcuno non la smette di tossire. Il prete, da copione, si rimette nelle mani di Dio. Quando la coltre dirada gli officianti, in rima gregoriana, salmodiano la morta che è tornata al proprio posto. Ci sono cose cui non sappiamo rinunciare. La tristezza, ad esempio.
Quattro marinai, con il codino di gelatina, mi chiedono il permesso. Io so già tutto ma faccio finta di essere confuso. Quello più grosso si pulisce la bava mentre solleva l’acagiù della cassa. Gli altri non si guardano negli occhi, come i corpi speciali. Del resto la morte non è un colpo di stato?
“Batte bandiera stellare”, sussurra un povero cristo mentre la bara ci passa accanto, spettinandomi. Beata mamma, penso, farà il giro del cosmo.