REUCCIO

CATANIA STAZIONE CENTRALE 1941

Il piccolo Luca, di 4 anni, da tutti chiamato “Reuccio”, aveva gli occhi neri e i capelli

biondi. Era un bimbo vispo, il giovane padre lo abbracciava per l’ultima volta prima

di partire per il fronte. La moglie non riusciva a staccarsi dal marito per uno strano

presentimento che solo le donne avvertono. Il treno sbuffava impaziente, rullavano i

tamburi e la fanfara suonava marce militari: il tricolore era posto in ogni angolo,

seduceva gli animi facendoli sentire nel giusto, spronati dall’autorità con altisonanti

discorsi patriottici e con la benedizione delle autorità religiose.

Dopo la trionfale partenza, le notizie dal fronte russo erano scarse, solo tre lettere in

sei mesi. L’ultima era straziante, parlava delle lande sterminate gelate, del rigido

inverno russo, della nostalgia per la mite primavera siciliana. Il piccolo Reuccio se lo

sognava tutte le notti, pensava alla dolce moglie e tante altre cose.

Dopo non si ebbero più notizie, la moglie sembrava una gatta che aveva perso i

gattini: andava sempre in giro nel cortile, sperando di avere qualche notizia che

nessuno poteva darle. Aspettava puntuale il postino, e, capiva dallo sguardo, che non

c’era posta. Lei continuava a scrivere con più frequenza, ma niente, nessuna risposta.

La guerra era finita, i soldati rientravano dai vari fronti, ma il suo Antonio no.

La vita riprendeva la normalità con il carico delle ferite lasciate dalla guerra, il

Reuccio andava a scuola. Finita la terza elementare fu affidato ad un benefattore (si fa

per dire), che gli faceva fare lo sguattero per un povero pasto quotidiano nell’osteria

di “Portaranni”, situata in via Vittorio, all’altezza di via Recupero.

L’oste era un uomo di media età, taciturno. La moglie, sovrappeso, aveva problemi di

salute e stava sempre sdraiata su una poltrona in fondo a quel tugurio, freddo e scuro.

Il ragazzo non aveva amici, non gli era permesso, non andava più a scuola perché

l’oste diceva che la terza elementare era sufficiente. I momenti di libertà erano

quando andava a riempire presso la fontana, la pesante “quartara” e, nell’attesa,

scambiava qualche parola con gli improvvisati amici del quartiere… ma se ritardava,

veniva violentemente redarguito dal burbero oste. Il ragazzo era ormai destinato a

fare lo sguattero. La madre non abitava più da tempo in via Recupero, nessuno

sapeva dove fosse. Qualche malalingua diceva che era finita alle “case chiuse”,

ridotta a fare la prostituta. Il ragazzo era stanco di quella vita… ironia della sorte, tutti

lo chiamavano Reuccio, ma lui si sentiva uno schiavo e come una rondine ansiosa di

migrare, un giorno prese il volo. Si sparse la voce che il ragazzo fosse fuggito e fosse

stato ritrovato alcuni giorni dopo, infreddolito, stanco e affamato. La gente era

solidale con l’oste, diceva che la pianta si addrizza quando è piccola e in questo caso

il ragazzo meritava una sonora lezione, che il religioso oste, che teneva santini in

ogni angolo della casa, non fece mancare.

La vita per il ragazzo era diventata impossibile, tanto che tentò ancora una volta la

fuga. Fu rintracciato e questa volta rinchiuso presso il convitto di via Crociferi. Fu

cosa buona per lui, perché lì si assicurava l’istruzione e un mestiere. In seguito, del

piccolo Reuccio non si seppe più nulla.

Negli anni ’50 rientravano, pietosamente ricomposte, le salme dei militari dispersi in

Russia, alla presenza delle autorità. Discorsi senza enfasi, solo di circostanza. Non

c’erano rulli di tamburi, ma soltanto un malinconico silenzio dei presenti, rotto dai

rintocchi lenti al suono delle campane a morto.


 

MATRIMONIO PER PROCURA

ESTATE 1946

Nelle lunghe serate, calde a afose dell’estate catanese, il cortile di via Labirinto si

animava: la gente, per sopportare meglio l’afa, usciva dai tuguri e si sedeva davanti

l’uscio di casa, chiacchierava, rideva, insomma c’era un brusio piacevole. I ragazzi si

radunavano nel cortile, i più piccoli giocavano, i più grandi si raccontavano storie. La

fontanella di via Recupero era affollata, ragazzi con recipienti vari, bottiglie, boccali,

bummuli e quartari, facevano la fila per un po’ di jacqua frisca. La fruttivendola

vendeva ghiaccio a pezzi per rinfrescare l’acqua, che con l’aggiunta di alcune gocce

di anice, diventava una bevanda gradevole e dissetante. Qualche radio diffondeva

nell’etere canzoni napoletane, allora erano in voga “Munasteru e Santa Chiara”, “A

tamburriata nera” o balli americani come “buchi uchi”, “rumba”, “raspa”, “samba”,

ecc. Don Saru vendeva coni gelato al costo di 5-10 lire. Nell’arena Eldorado, cinema

all’aperto situato in via Vittorio, altezza via della Palma, proiettavano il film “Gilda”.

Le ragazze e i ragazzi stavano un po’ appartati, alcuni erano fidanzati, alle prime

esperienze giovanili. Tutto avveniva sotto gli occhi vigili delle madri che tolleravano

quelle effusioni, poiché i ragazzi erano ancora piccoli e ingenui.

Lucia allora aveva 12 anni, era una bella ragazza bionda, con un ovale da pittura: la

chiamavano “la tedesca”. In Sicilia nei secoli passati c’è stato un incrocio di razze e

Lucia ne era la dimostrazione. Si era fidanzata con un ragazzo di qualche anno più

grande e si erano giurati sin d’allora eterno amore. Gli anni scorrevano lenti, lui si

chiamava Janu, lavorava come apprendista presso la bottega di Don Puddu Fiorello,

valente artigiano scultore e intarsiatore in legno.

Lui passava intere serate sotto la sua finestra. Era un bel ragazzo, si era fatto crescere

i baffetti alla Henry Fonda, attore protagonista del film “Il massacro di Fort Apache”,

che a quei tempi spopolava in tutte le sale cinematografiche.

Era un periodo poco felice, la povertà del dopo guerra spingeva la gente a emigrare.

La famiglia di Janu, che era abbastanza numerosa, decise di emigrare in Australia. Un

giorno triste d’autunno, i due ragazzi si salutarono, e, con l’impegno di ritrovarsi

ancora, si diedero il bacio d’addio. In quel momento un velo di tristezza scese nella

casa di Lucia e la sua finestra rimase quasi sempre chiusa e muta. Non si sentivano

più le sue canzoni cantate durante le faccende domestiche. Quella casa era come una

gabbia muta, l’usignolo non cantava più. Gli anni passavano uguali e grigi, una volta

al mese lei riceveva una struggente lettera di Janu, e gli rispondeva amorevolmente.

Siccome i suoi erano contrari a questo rapporto epistolare, Lucia chiese al postino di

darle le lettere di nascosto. Adesso lei aveva compiuto 18 anni, i familiari erano

preoccupati per il suo futuro. Consultarono valenti “ruffiani”, ma tutti i pretendenti

venivano puntualmente respinti. A quei tempi, le ragazze che superavano i vent’anni

d’età erano ritenute vecchie zitelle e difficilmente dopo trovavano marito. Il suo Janu

scriveva lettere di fuoco, si trovava a sud dell’Australia, in un’azienda agricola.

Intanto gli anni passavano. Un giorno Janu spedì una lettera dicendole che tanti

emigranti si sposavano per procura. Adesso che lei aveva raggiunto la maggiore età

poteva farlo e lui le indicò il percorso burocratico da seguire. Quando Lucia riferì ai

suoi familiari le sue intenzioni, successe un dramma, erano tutti contrari, ma lei ormai

era decisa. Le spese sarebbero state a carico di Janu.

Un giorno di primavera, Lucia fece volare l’usignolo che era chiuso in se, salutò uno

per uno familiari e parenti, per l’occasione radunati tutti a casa sua: abbracciò il

nonno quasi centenario, i fratelli, i nipoti, gli zii, la madre. Non erano saluti felici,

sembrava quasi un funerale, si piangeva ma non di gioia. La madre era sicura che non

avrebbe più rivisto la figlia adorata, anche se Lucia diceva, per incoraggiarla, il

contrario. Il bastimento partiva da Napoli, la ragazza non volle essere accompagnata,

l’ultimo abbraccio lo diede al padre a lei molto legato, che in lacrime, dopo averla

benedetta, disse: “Va figliola, va dove ti porta il cuore”.


 

LA SOLIDARIETA’

CATANIA, ESTATE 1946

I muri erano ancora tappezzati di manifesti monarchici e repubblicani; il re

Umberto, da qualche giorno aveva lasciato il suolo italiano, con profonda

costernazione dei monarchici isolani.

In quello scenario dell’immediato dopoguerra, il tessuto sociale era fortemente

logorato. Si faceva fatica a vivere, la povertà aveva colpito duramente anche il ceto

medio, specialmente gli anziani, alcuni ridotti a chiedere l’elemosina. Allora non

esistevano le protezioni dello stato sociale, c’erano altre forme di protezione, ma

erano insufficienti. Una di queste era l’elenco dei poveri, dove il comune erogava un

piccolo sussidio.

Allora avevo sette anni e ricordo un vecchietto che, con un filo di voce, chiedeva

l’elemosina. Era asciutto, viso scavato, baffetti curati, vestiva dignitosamente con

cravatta e cappello, anche se sgualciti e scoloriti dal tempo. Nel cortile di via

Labirinto passava una volta a settimana, non era del quartiere, risiedeva in un paesino

dell’entroterra catanese. Si venne a sapere che da poco era rimasto vedovo, aveva un

figlio disperso in guerra, inghiottito dalle acque dell’Egeo e per questo portava una

vistosa fascia nera al braccio, in segno di lutto. La figlia non sapeva che il padre

chiedeva l’elemosina, era fidanzata, ma rimandava la data delle nozze perché il suo

corredo era incompleto e lei ci teneva a completarlo, come tutte le ragazze dell’epoca.

Un giorno, il pover’uomo si sentì male e confidò ad una donna del cortile la

situazione che lo affliggeva. Subito scattò il passa parola, innescando una gara di

solidarietà fra la povera gente del cortile.

Iniziò la “Cosittara”, che diede parte del corredo e il velo da sposa della figlia Rosa,

uscita fuori di senno, in seguito, si diceva, ad una delusione d’amore. La madre la

teneva amorevolmente a casa, con le conseguenze critiche che ciò comportava e non

voleva che fosse ricoverata in quei “lager” dei manicomi.

La signora Viola, che abitava al terzo piano di via Recupero, il cui interno si

affacciava nel cortile, da poco separata in quanto il marito emigrò in America, donò

un po’ di mobilio e la batteria da cucina.

La “Scarparicchio”, così chiamata perché moglie del calzolaio, donò delle scarpe

usate, ma come nuove.

La signora Nunzia donò biancheria intima, set di tovaglie e altre cose che il marito

vendeva facendo l’ambulante.

Insomma ci fu una vera e propria gara: anche il fornaio “Spampinato” preparò è donò

dei dolciumi particolari e don Filippo Baudo donò dei confetti, poiché lavorava nella

premiata ditta dove venivano prodotti.

Don Tanu, l’ebanista, donò le sue fedi. A tutti aveva fatto credere di averle donate

alla patria, come a suo tempo avevano fatto tutti, volenti o nolenti; invece lui, essendo

tirchio, le aveva nascoste e non le aveva più messe, per non essere discriminato.

Adesso, finalmente, con questo dono, era contento di aver fatto una buona azione.

I miei, se ricordo bene, donarono un vestito da uomo rivoltato dal sarto Tanu Tabita.

Inoltre, mia madre, aveva una piccola collezione di bomboniere, che donò con tanta

generosità.

Tutto venne caricato nel carretto di don Felice, il carbonaio, che portò quei doni fino

a Misterbianco, dove risiedeva il vecchietto che, non conoscendo i donatori (essendo

tutto coperto dall’anonimato) e non sapendo chi ringraziare, si mise in ginocchio e