Racconti
IL CAVALLO
Come una ventata improvvisa, nel grande cortile del castello si levò uno strano trambusto, confuso e crescente: le voci si intrecciavano stridule, alcune grida si alzarono, unite a qualche singhiozzo. Ma più alta si era udita la voce di una donna, che aveva gridato: “Hanno ammazzato un uomo, hanno ammazzato un uomo, è stata una bomba, è morto anche il cavallo,il cavallo!”.
Questa seconda morte aveva dominato di colpo la mente di tutti. Quasi ubbidissero a un ordine, si videro uomini rientrare veloci nelle stanze, e le donne con loro, e riuscirne portando coltellacci, seghe, oggetti taglienti e recipienti, fasci di carta e stracci…
Era quella la corte di un castello in provincia di *, in piena campagna, e le contesse mogli dei due conti fratelli lo abitavano con varie persone di città, sfollate in stanze prese in affitto. C’era la guerra: e molto più contava la morte di un cavallo colpito che quella dell’uomo che lo montava. Cavallo morto voleva dire carne, carne finalmente!
Al primo gridare, la giovane donna si era spaventata. Nell’unica stanza che fungeva da cucina, tinello, bagno (il gabinetto era esterno e la camera da letto andava raggiunta percorrendo, pure esternamente,una rampa di scale) stava sbattendo in una bottiglia un po’ di panna avuta da una contadina, per farne una pallina di burro che sarebbe servita per la sua bambina di poco più di un anno. Aprì la finestra e ad una donna che passava chiese: “Cosa succede?”. “Ah,signora, stamattina hanno trovato un cavallo morto stramazzato e l’uomo sopra anche lui, là, sullo stradone verso*, è stata una bomba. C’è carne, c’è carne…”.
Veloce la giovane si tolse il grembiule, diede una voce alla ragazza che l’aiutava con la bambina e disse: “ Teresa, guarda tu se si sveglia, stalle attenta e se scende mio marito digli che sono andata con gli altri”. Cercò un recipiente adatto per un pezzo di carne, e si avviò.
Se dall’alto si fosse guardato al castello, si sarebbe vista quella mattina una fila di persone che, passato il ponte levatoio e il fossato, si snodava disordinata seguendo il percorso del torrente, tra i pioppi e le erbacce, come un lungo serpente. E ognuno cercava di superare gli altri, di essere tra i primi, perché certo la voce di un cavallo morto stramazzato si era sparsa anche nel resto del borgo, e ci sarebbe stata altra gente…
Anche la giovane donna camminava in fretta, ma senza affanno.Quella carne, se fosse riuscita ad averne, non sarebbe servita per la sua bambina, troppo piccola, ma per il marito, non in buona salute. Non pensava a sé che pure, dicevano tutti, appariva pallida e magra.
Via via il vocìo della gente aumentava. La strada costeggiava il torrente, ampio e sassoso, tra filari di pioppi. A un incrocio altri contadini si unirono al gruppo con voci di saluto e di contentezza. Dell’uomo morto con il cavallo sembrava non importasse a nessuno, si sapeva che i parenti lo avevano portato via.
Ben presto il chiacchiericcio cessò. Avvicinandosi la meta ecco affrettarsi i passi, spintonare, sorpassare, quasi correre: ognuno voleva più carne. La giovane fu dapprima sospinta, poi quasi travolta, portata avanti da chi, dietro, di fianco le stava addosso. Alfine su uno spiazzo d’erba a fianco della strada, scoperto di alberi, videro l’animale morto. Probabilmente l’uomo che lo cavalcava o conduceva aveva cercato scampo, sentendo avvicinarsi gli aerei, fuori della strada, sotto gli alberi. Ma non aveva fatto in tempo a salvarsi.
Il cavallo giaceva su un fianco, sembrava un grande giocattolo di legno che un bambino avesse abbandonato dopo il trastullo. Le zampe erano rigide, la coda disegnava un ampio ventaglio sull’erba. Era stato colpito alla testa: del muso affilato rimaneva un ammasso informe e sanguinante.
La gente gli fu intorno, disordinata, agitata, ma subito due uomini robusti attrezzati di validi strumenti gridarono : “Fermi, state buoni, state calmi! Siamo macellai, fatevi da parte e lasciateci lavorare: avrete la vostra carne, calma, calma…”. La giovane donna, cui la baraonda faceva girare la testa ed un senso di nausea impediva di guardare, si sedette su una pietra e aspettò.
Così cominciò lo squartamento del cavallo. Ad un tratto era calato il silenzio. Si udivano solo i colpi precisi con cui i macellai sezionavano l’animale e talvolta, per il contraccolpo, il suo collo si rialzava e nugoli di mosche e moscerini si levavano da esso.
Il sole era ormai alto. Ma la natura sembrava violata, avvolta in un avvilito distacco e un velo luttuoso si stendeva sui pioppi, sulle pietre del torrente che ora scorreva come in un pianto: era la triste resa alle necessità della guerra.
Tutti, o quasi, furono accontentati: ci furono spintoni, qualche litigio, ma alfine, stanchi per l’agitazione e l’emozione dell’evento, insieme tornarono a casa. Assai più silenziosi che nel venire: il cavallo, per ognuno di loro animale prezioso, era ora a pezzi grandi e piccoli nei loro recipienti.
Tornata al castello, la giovane trovò la ragazza in lacrime, perché la bambina piangeva e lei aveva cercato di calmarla in tutti i modi davvero signora mi creda non sapevo come fare le ho dato tanti baci ma piangeva e piangeva…
“Tranquilla Teresa, ora ci penso io” e allungò alla ragazza il recipiente con un pezzo di carne avvolto in carta insanguinata. “Mettilo in un luogo fresco, deve rimanerci qualche giorno”. E poi, vista l’espressione dell’altra: “È carne di cavallo, sai ti farà bene, sei così magra! Faremo lo spezzatino con la polenta, che dici? ”.
Ma Teresa, figlia di contadini abituata a mangiare soprattutto pollo e coniglio, non mostrò entusiasmo.
Nel frattempo, richiamato dagli strilli di sua figlia, era sceso il marito. Vedendo che qualcosa di inusuale stava accadendo, ne chiese ragione. E la giovane donna gli raccontò. Egli si arrabbiò: “ Non fare mai più una cosa simile! Da sola, mescolata a gente che poteva nella calca farti cadere, fragile come sei ora, e andare a rischio di svenirmi nel vedere quella scena…dovevi chiamarmi, avrei deciso io…”.
“ Tu dormivi ”, rispose lei dolcemente, “ non volevo svegliarti ”. E intanto guardava gli occhi azzurri di lui, che smentivano la severità delle parole.
“ Va bene, va bene ”, disse il marito. E attirandola a sé sussurrò, tra il goloso e il furbesco: “E come lo mangeremo, questo povero cavallo?”. Per tutta risposta ella gli conficcò, abbracciandolo, il capo nel petto
La giornata si svolse poi come sempre. Nel cortile si erano incrociati commenti e si era finalmente parlato anche del pover’uomo morto con il cavallo. Era un sellaio di un paese vicino che stava venendo all’alba al borgo per suoi affari, padre di molti figli ancora piccoli. Tutti provavano pietà ora, ma la morte aveva da tempo perso ogni straordinarietà. Al castello ci si sentiva più protetti, mentre dalla città giungevano notizie angosciose.
Anche quella sera la giovane donna e il marito avevano sigillato le finestre, che nessuna luce trapelasse. Poi avevano segretamente ascoltato radio Londra e si erano coricati,la bambina in mezzo a loro. Come sempre erano rimasti a occhi spalancati a lungo, tendendo l’orecchio al mondo esterno: il timore era diventato uno stato d’animo. Infine il marito si era addormentato. Lei, no. Sentiva il respiro della piccola contro il suo corpo, quello regolare di lui accanto.
Quanti pensieri. Dall’evento del cavallo aveva tratto un misto di angoscia, pietà e disgusto: quella carne certo lei non l’avrebbe mangiata. Ma anche altro la teneva sveglia. Da alcuni anni ormai durava la guerra e proprio ad essa doveva la propria felicità personale. Come infatti avrebbe incontrato il bell’ufficiale dalle tempie brizzolate, più grande di quasi vent’anni, se non fosse stato rimpatriato malato dall’Africa, per poi incrociare il suo sguardo sul pubblico passeggio? Ed ora egli giaceva al suo fianco. Pensava, la giovane donna, a quanto ancora della sua vita le fosse ignoto. Di lui sperimentava la tenerezza, la passione, ma cosa occupasse la sua mente quando, silenzioso, sedeva più a lungo davanti alla porta, in cortile, non sapeva. Aveva davanti agli occhi la foto che lo mostrava all’entrata in caserma, nell’atto del saluto militare, e quella foto le procurava ammirazione ma anche disagio, come se essa ritraesse un uomo sconosciuto. Altre due guerre lo avevano coinvolto: quella di Libia, a vent’anni, e la prima mondiale, sul Carso. Egli non ne parlava mai. Né lei faceva domande: c’era una parte di lui, lo sentiva,che andava lasciata a lui solo.
La bambina si mosse, si lamentò. Allora le sussurrò qualcosa, la ninnò un poco finché si riacquietò, con una piccola bolla di saliva al lato della bocca, come accade ai bambini piccoli.
In quel mentre uno sparo lontano la richiamò ad un altro dolore: suo fratello, il più giovane che, quando aveva indossato la divisa, sembrava un bambino alla prima comunione, era partigiano. Allorché sentiva gli spari di notte come sferzate nel buio, un’angoscia la prendeva che a volte la faceva piangere. E rabbrividiva quando si spargevano voci di corpi ritrovati, giustiziati, e ora l’immagine di quel cavallo colpito a morte si sovrapponeva nella sua fantasia a quella possibile del fratello , morto, buttato da un dirupo come un sacco di carne… Quel ragazzo gentile, dedito agli studi, la cui risata risuonava nella casa, l’avrebbe rivisto? C’era un prete che ogni tanto veniva al castello, ufficialmente per visitare gli sfollati e confortarli. Quando entrava nel cortile con la veste svolazzante sulla bicicletta, la giovane aveva un tuffo al cuore. Sapeva che, con noncuranza, sarebbe entrato da loro prima che dagli altri, con il pretesto di complimentare la bambina e, con un gesto fugace, le avrebbe messo nella tasca del grembiule un biglietto; poi avrebbe continuato il suo giro di visite e lei, con il cuore a mille, avrebbe cercato per prima cosa la firma del fratello sul foglio. Poi ne avrebbe parlato al marito, che già una volta era stato chiamato in città e interrogato per un giorno intero, perché non appariva naturale che non sapesse dov’era suo cognato…Quella volta avevano creduto alle sue parole, ma cosa sarebbe potuto accadere?
Di nuovo la bambina s’inquietò, di nuovo ella s’impegnò a calmarla. Nel farlo, il suo braccio sfiorò la mano del marito, che dormiva supino: la sentì appoggiata sulla bimba, mentre la giovane, voltata su un fianco, la circondava con il braccio sinistro. Allora con la mano libera, lieve lieve per non svegliarlo, risalì il suo braccio dal polso alla spalla, in una lunga carezza, seguendo la vena azzurra che ben conosceva. Percepì la forza del suo uomo, abbandonato nel sonno, ma anche intuì, come altre volte era accaduto, che dietro quel piglio virile si celavano delle fragilità; capì che nel tempo sarebbero emerse e che lei avrebbe dovuto far fronte.
La più forte, ora, era quella piccola creatura tra loro, che saldava la catena dei corpi ed emanava calore. Con questo pensiero alfine si addormentò. Sognò suo fratello bambino sul cavallo della giostra davanti a casa, poi il cavallo divenne vero, grande e scuro, s’impennò, cadde a terra mentre la giostra esplodeva…La giovane donna si svegliò. Nasceva l’alba di un nuovo giorno: un altro giorno di guerra. Era l’estate del 1944.
Sera di venerdì
Rientrando, l’automobile scivolava sull’asfalto della stradina, stretta e bordata da cespugli bassi; le
luci erano già accese e il giardino non grande pareva luminoso. Non c’era nessuno. Ormai era fine
luglio, e venerdì sera per giunta. Chiuse con cura il garage, tolse un fuscello dall’automobile nuova
L’ascensore frusciava oleato, perfetto. Primo, secondo… quinto piano: guardava sempre i bottoni
che si illuminavano, anche quando saliva in altre case. La chiave nella toppa, giusto il tempo di
vedere il triciclo abbandonato sulla porta accanto.
Fu quando accese la luce dell’ingresso. Non ebbe subito veramente coscienza di quanto
succedeva: sentì solo un disagio, l’ombra di un malessere. Si tolse la giacca e allentò la cravatta,
sbuffando: maledetto l’ufficio. E intanto l’occhio che scorreva le pareti gli rimandò un’immagine
Passò in cucina. C’era stato un temporale nel pomeriggio e un battente della porta a vetri s’era
chiuso. Anche il terrazzino portava segni di disordine, come se ci fosse passato un gatto in corsa.
Prima di tutto controllò se la collaboratrice domestica avesse fatto ogni cosa: le lasciava sempre
un elenco (“Quant’è preciso, dottore, più di una donna!”) e come sempre fu scontento. L’abito blu
doveva preparare, gliel’aveva detto, aveva un impegno di lavoro lunedì con gente di fuori, svizzeri,
voleva comparire. Questa mancanza della donna, e figuriamoci se non aveva fatto mezz’ora in
meno, chi la controllava?, lo infuriò. Riattraversando l’ingresso, si guardò nello specchio.
Aveva quarantacinque anni. Nel volto un po’ tondo, vagamente infantile, il naso troppo grosso
strideva. La fronte era alta (la mamma, sempre, ne era stata orgogliosa) e appena cominciavano a
imbianchirsi le tempie. Gli occhi, chiari, dicevano poco. Meglio le labbra, che si atteggiavano a
ironia, a volte, senza che lui lo sapesse. Glielo aveva detto quella ragazza: “Mi piaci per come sei
amaro!”. Si valutò: già, non era un grand’uomo. Ma insomma, neanche male, ben fatto, nel pieno
della virilità. Mentre gonfiava il busto, lì, davanti allo specchio, sulla nuca, preciso, avvertì uno
spillo. Solo una puntura. D’istinto guardò dietro di sé, voltò la testa e la rigirò: al diavolo l’aria
condizionata dell’ufficio. Ma il fastidio, la presenza di qualcosa sulla nuca, seguiva i movimenti del
Ginnastica ci voleva: le ferie tra una settimana e tante belle nuotate e dormire senza l’ansia del
lavoro, avere davanti le giornate che si sgranano sulle cose buone, sul caffè portato a letto, sulla
curiosità in cucina (“Mamma, che si mangia oggi?”) e poi parlare con gli amici, raccontare delle
cose, beh, cambiandole un po’, si capisce, e far vedere che stava diventando qualcuno. Qualcuno.
Qualcuno lo stava guardando dritto sulla nuca.
Dal piatto fu in piedi, la forchetta in mano. Pazzo, ma cosa stava diventando, pazzo? Come quei
vecchietti delle cronache, che gli ha dato il caldo alla testa. Ora aveva una sete tremenda. Non
stava bene, no. Ecco, già, lui era fortunato, lui, non stava bene adesso, che doveva andare in ferie.
Buttate in là le vivande, si sentì il polso, si toccò la fronte: era fresca. Eppure gli cresceva
un’inquietudine irrefrenabile, aveva la nausea e la puntura sulla nuca era come un coltello puntato
sulla carne. Andò in bagno, tolse lo specchietto dalla mensola, si mise con le spalle allo specchio
del lavabo: niente si vedeva. Lisciò, toccò, palpò: niente. Eppure c’era. Si sentiva al limite del raggio
di un cerchio, infilzato. Avvertiva l’occhio limpido e impietoso, consapevole e giudicante. Là, nel
bagno, si sentì perduto. Sgomento del proprio panico, incredulo eppure sicuro dell’assurda realtà,
chiuse le mani intrecciate sul collo e strinse fino a farsi male. All’intreccio delle dita, appuntito, lo
Avanti, su, ma che diamine, che uomo era? a quarantacinque anni, eccolo lì, nel bagno, madido e
tremante perché una stupidissima puntura, chissà, un insetto, gli infastidiva la nuca. Volle darsi
dignità, si eresse e camminò sghimbescio fino alla poltrona. Indifferente, ecoo come doveva
essere, indifferente. Lui guardasse pure, c’era poco da guardare.
Accese il televisore: calmo, su, calmo. Beviamo un goccetto: ghiaccio, ottimo, così. Dal video un bel
viso sorrideva, cantavano, balenarono giovani corpi luccicanti. Ed egli fu conscio che, a guardare,
erano in due. Meglio: fu conscio che il suo essere era dietro, teso indietro, a cercare quell’altro che
O mio Dio, aiuto. Spense il televisore. Ora, alzandosi, gli parve che il suo non fosse un corpo solo.
La mano che premeva il bracciolo, erano due, lo sentiva. Le spalle così stanche d’un colpo, erano
doppie. Lo specchio: ecco la salvezza: come non averci ancora pensato? Il cuore in gola, fu allo
specchio: niente niente niente: solo un viso pallido, le occhiaie nere e lo sguardo allucinato. Folle,
incapace di reagire, ogni dignità lo abbandonò: tutto, meglio tutto, piuttosto che quella cosa
tremenda. Chi lo stava guardando, chi gli si sovrapponeva nei gesti, negli atti sgangherati e
inconcludenti che andava compiendo, fuori di sé, dal salotto alla camera, dalla cucina al bagno?
Ecco ecco, sicuro, ecco cos’era quella sensazione strana, quell’attesa che era cominciata
imboccando il vialetto d’ingresso. Ecco perché non aveva risposto al saluto del portinaio, perché
un’ansia sottile lo aveva spinto a casa subito, senza nemmeno fare un giretto in centro. Ora
sapeva: era atteso. Dallo sguardo.
Uscì sul balcone, seguito dall’altro. Sedettero sulla sdraio. Sotto, la città sciorinava nell’afa le sue
luci, gli giungevano i suoi singulti attutiti. S’accese una lampada; al terzo piano della palazzina di
fronte, una donna discinta abbassò le tapparelle. E allora fu così, dopo un tempo non valutabile,
ch’egli “sentì” l’altro. Assorbito, risucchiato all’indietro, i suoi occhi furono gli altri occhi. E vide.
Qell’uomo tozzo, tozzo sì, non ben fatto, malamente seduto, con la camicia incollata alla pelle, con
i capelli brizzolati (non alle tempie, no, tutti) era lui. Lo vide alzarsi e camminare, pesante,
muoversi senza disinvoltura in un salotto. Un salotto da esposizione da quattro soldi. Finto antico
e moderno grossolano, uniti a caso. Finto antico il tavolo tondo in un angolo, il buffet con i piatti, e
moderno il divano di grosso velluto. Orrido il tappeto finto persiano, atroce il letto finta paglia di
Vienna, tremendo il dopobarba in confezione avveniristica.
Quella era la casa del dottor X, laureato quarantacinquenne di provincia, impiegato in un’impresa,
conformista per vocazione, conservatore per comodo, dunque votato al compromesso. Lo
specchio, chiuso in tubi luccicanti, rimandava una fronte sfuggente, non alta, e la smorfia delle
labbra non era ironica, bensì convogliata su una dentatura irregolare. Il diploma di laurea
inquadrato ricordava colui che a prezzo non modico l’aveva scritta e la busta di pelle, lasciata sulla
mensola dell’ingresso, conteneva tre carte d’ufficio. Di quell’ufficio in cui il dottor X era qualcuno
in virtù dell’amico del padre, a sua volta legato all’onorevole della città natale, per il quale l’amico
del padre, in tempi lontani… La fotografia incorniciata dei genitori, sul cassettone della camera,
stava accanto ad alcune riviste pornografiche, e la vestaglia non rozza e non elegante proponeva
l’incompiutezza di chi l’indossava. L’appartamento era nuovo, ma gli infissi non avrebbero avuto
avuto vita lunga e alla luce del giorno il giardino sapeva più di periferia metropolitana che di
Affacciato al balcone, ora egli vedeva una città in cui la casa che abitava, il posto di lavoro che
occupava, erano segno dell’appartenenza a qualcosa, cui tutti volevano appartenere. E vedeva
come si sarebbe alla fine sposato, perché no, con la figlia del ragionier Y, funzionario di banca,
mediamente ricca, mediamente bella, mediamente intelligente. E con gli occhi dell’altro, vide
come alle cose, mai a sé, egli sarebbe appartenuto. E nella città, la gente: come lui, a coppie, a
famiglie, a rioni, la gente che apparteneva alle cose.
Un conato di vomito lo fece ripiegare sulla sdraio. Ora, lento, tornava in sé. La puntura sulla nuca si
risolveva in torpore, poi si stemperò in un tocco, come di piuma, poi più niente. Fu preso da un
sonno pesante. Quando riaprì gli occhi, la brezzolina notturna scuoteva l’unico geranio e le luci
della città erano scialbe. Potevano essere le tre.
Abbaiava un cane mentre egli, chiudendo la finestra, si diceva che era uno stupido, un vero
stupido: che razza di sogno era andato a fare! Mai più avrebbe preso, alla tavola calda, e d’estate
per giunta, l’osso buco coi piselli!