Veliero
L’ultimo gruppo di turisti era sceso e già le loro voci si affievolivano perdendosi fra i vicoli del porto, certamente erano diretti al vecchio pub all’angolo della piazza dove sorgeva la torre campanaria che spiccava rossiccia fra i tetti .Amava quell’ora del giorno, sedeva sul grande rotolo delle corde ruvide e pregne di salsedine e con il viso alla brezza dolce e profumata della sera restava ad osservare il cielo che scuriva sfumandosi all’orizzonte. Adesso però era tutto un rincorrersi di nere nuvole che rosseggiavano di lampi che ne incendiavano i confini , quasi vi fosse lassù l’infuriare di una battaglia con un continuo avvampare di fuoco e rimbombo di spari come tuoni che dardeggiavano cupi .Adam pensò a quando l’uomo, ancora ignaro di tante conoscenze scientifiche, volgeva lo sguardo tremante, impaurito e immaginava davvero dei, come forze della natura, alla presa con le loro personali controversie a fronteggiarsi a suon di fulmini e saette…quanta poesia! Ma lui voleva restare invischiato ancora, nonostante e malgrado i suoi titoli accademici, a questa libera interpretazione del mondo .
Aveva abbandonato tutto, già da qualche anno, sì tutto : carriera universitaria, il bell’appartamento , l’auto potente e di prestigio, gli amici, le feste, le serate a teatro, tutto. Solo Spiffero, il caro e ormai spelacchiato cane aveva voluto portare con sé in quel porto sul mare del nord .
Raramente tornava al suo passato: se n’era andato senza alcun rimpianto e non aveva ancora il desiderio di tornare e chissà mai se lo avrebbe mai avuto.
Respirò la tranquillità di quelle onde placide, socchiuse gli occhi al leggero rollio del suo legno e sorrise ripensando a quel giorno in cui decise, così, all’improvviso, su due piedi , di investire gran parte dei suoi risparmi acquistando quel vecchio e malconcio veliero.
Arrivato la mattina, era sceso dal pullman con il suo borsone da viaggio e Spiffero ubbidiente al guinzaglio: tutto il suo passato raccolto nel palmo della mano, aveva fiutato l’aria fredda del porto e aveva deciso di andare a cercare una pensione dove alloggiare. Si lasciò guidare dai passi ed arrivò davanti agli ormeggi. Quel piccolo veliero di raggrinzito legno scuro, dondolava sbatacchiando i fianchi stanchi mentre dai tre alberi pendevano vele grigiastre e butterate. Pensò che doveva aver visto tempi migliori e per un momento lo vide lucido e fiero solcare il mare .Lesse : “in vendita “ed uno sbiadito numero di telefono. Al cellulare gli rispose una voce ruvida : poche indispensabili parole e la mattina dopo, alle 9.30, saliva da proprietario sul ponte macilento mentre Spiffero, guardingo ma festoso , annusava avido ogni angolo.
Gli ci vollero parecchie settimane per ripulire e ridare vita a quel brutto anatroccolo che si distingueva fra le imbarcazioni ormeggiate per il suo aspetto macilento. Ma armato di tanta buona volontà, con tutto il tempo della libertà a disposizione , era riuscito nella trasformazione. Era orgoglioso e soddisfatto del suo lavoro: ancora si guardava intorno e apprezzava il legno lucido, le candide vele, che quando si gonfiavano erano il suo stesso respiro. Sottocoperta era la sua dimora: pochi metri quadrati che lo tenevano piegato in due con il suo metro e novanta, un tavolo proprio sotto l’oblò, due sedie, un piccolo angolo cottura e un letto spartano. Ma i libri erano sparsi ovunque e il suo Pc lampeggiava a lato. Ecco a questo non aveva rinunciato: alla sua finestra sul mondo che galleggiava con lui di fiordo in fiordo.
Stava iniziando a piovere, si tirò sulle spalle la cerata, si calcò meglio il berretto e rimase quasi immobile a fissare il gocciolio sempre più intenso che rendeva spumeggiante il mare. Il ticchettio cresceva mentre tutto intorno, ogni altro rumore cessava….orami tutti erano rincasati, le altre imbarcazioni restavano mute e spente…nessun altro aveva eletto a domicilio la propria barca.
Così Adam restava solo, ogni notte, nel piccolo porto addormentato.
A volte pensava di esserne l’involontario custode, soprattutto quando un rumore inatteso lo svegliava richiamandolo dal sonno senza sogni in cui sprofondava con una serenità che non conosceva da tempo, oppure quando ascoltava, ancora nel dormiveglia, i primi richiami dei marinai, il primo accendersi del motore dei pescherecci che uscivano nella bruma mattutina.
Vecchio giardino
15 aprile 2015
Una villa antica nascosta nella vegetazione del giardino che racconta del tempo passato. Rallento il passo fino a fermarmi e m’incanto ad osservare quel groviglio di vecchie piante, di alberi dai tronchi contorti, di cespugli di specie ormai introvabili, di resti di aiuole dove fiori, piantati chissà quanto tempo fa , fioriscono in una piacevole e totale anarchia. Vi sono piante di glicine, cariche di una moltitudine di fiori, che si abbarbicano ai terrazzini colonnati, all’interno di uno dei quali, vi è il portone d’ingresso. Sui gradini di pietra scurita dai troppi inverni, appassiscono erbe mal tolte. Qua e là,in uno spruzzo di sole si scorge un piccolo spiazzo erboso dove è all’ancora un vecchio salottino in ferro battuto bianco, ora maculato di ruggine. Tutt’intorno giacciono riversi nelle più strane e bizzarre posizioni , vasi di coccio o di pietra spugnosa che traboccano di erbe odorose: rosmarino, salvia, lavanda, , menta, erba cipollina, forse ciò che rimane di un piccolo orto. Neppure manca la fontanella, con una vasca in cui l’acqua non sgorga più ma rimane a ricordare gorgoglii di frescura nelle estati afose. Forse alcuni pesci rossi deliziavano la curiosità di bambini che ora sono diventati vecchi e chissà mai dove saranno andati a far riposare le loro ossa consunte e le loro anime, dimentiche dei giorni più felici. Un putto della primavera, o dell’autunno, adorna l’ingresso al giardino, appena dopo il cancello di ferro battuto, nero di tempo passato. Sembra voler fare un inchino ed invitare ad entrare il viaggiatore stanco e curioso. Vi sono le coroncine splendenti delle margheritine che indisciplinate si mescolano alle violette mentre già spuntano i primi tulipani ad occhieggiare il passeggio…chissà quali amorevoli mani hanno piantato quei bulbi tenaci, che nonostante l’incuria ancora rivendicano il loro posto fra le magnolie giganti , il nodoso ulivo e il salice piangente, che ancora si sporge sull’orma lasciata dal vecchio stagno, dove rane e raganelle gracidavano festose nelle sere estive Lo sguardo si spinge dietro la casa e vi scopre il ciliegio fiorito, accanto vi è il pesco, poco più in là il caco e il fico. Chi più raccoglierà nel cestino i frutti dolci e sugosi, nello scorrere interminabile delle stagioni ?
Ma ciò che più mi sorprende è come la vita di questo giardino, così decaduto, così abbandonato all’incuria e ai capricci del tempo, riesca a sopravvivere in un disordine che tale appare solo a chi lo osservi con occhio critico, ma che in realtà costituisce un equilibrio mirabile fra esigenze diverse. L’edera ingentilisce il vecchi pozzo di pietra scolpita dove ancora dondola il secchiello arrugginito che oscilla incauto fra i riccioli di ferro che lo adornano : la catena tintinna e dà voce al silenzio, accompagna il fremito delle campanule azzurre, i discreti non ti scordar di me e il leggero reclinare dei mughetti inebrianti di candore.
Dai vecchi cornicioni , dagli anfratti dei camini fuligginosi sbuffano ciuffi d’erbe e ramoscelli da cui fanno capolino piccoli becchi aperti nel vuoto : sono nidi, quelli più sicuri che né uomo, né intemperie o capriccio del vento sono riusciti a distruggere. E così nel tramonto o nelle prime luci del mattino vi è tutto un cinguettare felice fra i rami più alti e il tetto paziente : tutto il giardino è ridente e festoso nell’accogliere grato ogni raggio di sole.
Dall’angolo del muro di cinta, scrostato dalle intemperie, un vecchio gatto guardingo, avanza cauto e silenzioso, perlustra attento ogni anfratto, annusa sospettoso il ramoscello trovato di traverso al suo passaggio, aggira lento la pigna ormai marcita. S’arresta un attimo, in ascolto di chissà quale rumore tra il ronzio delle api e di qualche mosca inquieta. Riprende poi il suo andare con piglio più deciso, di certo intento a inseguire il suo obiettivo o spinto da una curiosità improvvisa e scompare così tra il rododendro e l’erba alta.
Ma ecco che il giardino si trasforma sotto la coltre di nubi minacciose: le corolle dei fiori si richiudono , gli uccellini si rifugiano e tacciono al rombo del tuono che giunge, tutte le piante paiono stringersi timorose con le loro radici, chi al terreno sassoso, chi al muro screpolato, chi alla pietra scoperta come un dente candido. Nel silenzio che tutto pervade, all’improvviso, da una finestra lasciata aperta dal tempo, si spande nell’aria gravida di pioggia, un canto leggiadro e solitario che s’accompagna alle note struggenti di un pianoforte. Subito pare che quella voce dia conforto a tutto il giardino che resta ancora sì attonito e trepidante, ma confortato nell’attesa che ritorni la quiete, passata la tempesta.
Quando i cespi di lillà si asciugheranno intorpiditi, i primi girasoli rialzeranno li loro capi di sole e ancora le ginestre proteggeranno le umbratili bocche di leone, là dove tra i sassi e un vecchio annaffiatoio verde, le ortensie, accanto a ciò che resta di una vecchia altalena che oscilla cigolante alla lieve respiro del vento, ricordano ore di risa e di pianti .
Un velo di nostalgia si stende ora su tutto questo rigoglio, quasi che sguardi stanchi rimembrino le malinconie e le speranze, le partenze e le attese, le gioie ed i dolori, le nascite e le dipartite. Tutto è rimasto nella memoria di questo giardino, vi è qui custodito ed intrappolato a dispetto del tempo che fuori da questo cancello scorre ignaro o dimentico o indifferente.
Mi allontano quasi stordita da quell’ intimità, così offerta al viandante, ma mi scivolano accanto solo persone che vanno di fretta , rinchiuse nelle loro bolle di pensieri e allora saluto l’incanto di quel giardino con questa promessa : resterai al sicuro nello stupore del mio cuore.
Breve storia in salita
Camminava sul ciglio della strada mentre le poche auto passavano lente, incerte nella nebbia che lei respirava piano, quali volesse usare il suo respiro con parsimonia. Sembrava così immenso il mondo che poteva esplorarlo solo ad occhi chiusi, fingendo che quel velo grigiastro fosse solo un sipario lieve che ondeggiava al vento freddo che le sfiorava la pelle.
Le mani in tasca erano conchiglie fragili come la sua disperazione.
Lei che se andava via e pensava alla vita delle farfalle: chissà se nella loro breve vita esploravano quella porzione di mondo a loro assegnata..facevano tutto per benino? Nessuna mai cambiava fiore assegnato o direzione? E poi c’era davvero qualcuno che indicava loro il percorso da seguire…pensieri inutili mentre il naso colava tristezza e gli occhi sbarrati su quel futuro tutto da costruire si spingevano pochi metri più in là.
Finalmente un lampione arancione sbucò da quel nulla. Tornava così in mezzo alle case di un quartiere di periferia. Era veramente quello che voleva? Voleva davvero ritornare fra la gente, quell’anonima massa di persone che non sapevano nulla di lei, non avrebbero mai comunque saputo nulla di lei, di quella ragazza stretta nel giubbotto troppo corto, troppo leggero, troppo nulla per proteggerla dal freddo di una vita senza attese, senza ricordi .
Accese un fiammifero e, con le dita irrigidite, si portò una sigaretta alle labbra. Tiepido quel calore guizzò sulle sue guance, riflettè un attimo e poi prese la sua decisione. Passò davanti alle finestre ancora accese, ma non si fermò ad immaginare ciò che neppure vedeva…semplicemente andò dritta per la sua strada. Il peggio in fondo era già passato.
In metropolitana
E’ il rito collettivo di ogni mattina: scendo veloce, saltando i gradini a due a due , compiendo azzardati ed acrobatici sorpassi fra signore appesantite da valige come macigni, studenti ingobbiti da zaini straripanti e compiti e seriosi uomini in giacca e cravatta, armati di valigetta 48 ore in una mano e cellulare aziendale nell’altra. Capita a volte che debba spazientirmi dietro alla suora indecisa su quale linea della metropolitana avventurarsi e, in questi casi, ma solo in questi, sfodero il mio più ammaliante sorriso e mi offro per un’indicazione .Forse, in cuor mio, provo l’ingenua e fanciullesca soddisfazione di aver fatto la mia buona azione quotidiana. Mi carambolo in tempo per salire sulla vettura prima che le porte automatiche chiudano tutti in un serraglio di lamiere luccicanti e l’orrendo mostro serpeggi verso le profondità più oscure della città, sparendo nel cunicolo che tutto inghiotte fra le fauci nere e spalancate .Rimango appeso alla maniglia, lasciandomi dolcemente cullare dal rollio dei motori. Dopo due fermate, si liberano vari posti e decido di appollaiarmi su una postazione da dove poter sbirciare i titoli dal giornale che un signore di mezza età legge con molta attenzione. A chi mi vede , ammesso che ci sia qualcuno disposto ad alzare lo sguardo dal proprio cellulare o dal proprio ipad , devo ricordare un falco pronto a spiccare il volo, con quelle mie gambe lunghe e magre che non riesco mai a tenere ferme , gli occhiali dalla montatura nera ad ingrandire due occhi scuri segnati dalle immancabili occhiaie ( lo sanno tutti ormai che dormo pochissimo ) in bilico sul naso aquilino che svetta al centro del viso scarno che termina in un mento appuntito.
Un’ altra fermata e un fiume di persone si riversa sul marciapiede appena in tempo per lasciarne entrare un altro, colorato e vociante. Accanto a me sì è liberato un posto e attendo curioso di vedere chi , fra gli ansanti maratoneti, riuscirà a conquistarlo. Quasi non mi ero accorto di una ragazza che tiene al guinzaglio un cagnolino pezzato di bianco e marroncino che punta deciso , fra la foresta impenetrabile di decine di gambe , proprio al sedile rimasto vuoto vicino a me. Gli si infila sotto quasi con un moto imperioso di possesso e a quel punto tutti devono scostarsi e lasciare passare la giovane donna. Si muove lentamente ma con eleganza, i suoi gesti sono misurati e precisi , quasi come un felino si siede e subito mi solletica un piacevole delicatissimo profumo di gelsomino. Non posso fare a meno di osservarla incantato dalle sue mani , piccole farfalle bianche , che agili sistemano il guinzaglio, stringono in grembo la borsetta ,quasi come una carezza sfiorano la cerniera e sicure sfilano un cellulare in cui in un soffio esala alcune brevi frasi. Ho appena scorto gli occhi, parzialmente nascosti dalla frangetta scura,che incornicia il viso a cuore dalla pelle ambrata, me li aspettavo indagatori, curiosi e attenti , invece sono lenti, limpidi, tranquilli, sembrano aperti su un abisso di niente.
Solo adesso , dopo qualche minuto che la guardo , mi rendo conto che è cieca. Rimane composta, silenziosa, sorride gentile a chi si complimenta per il suo cagnolino così carino ed educato.
Ma non volge il capo, non alza lo sguardo e all’improvviso è una sottile membrana invisibile che mi separa da tutti gli altri e mi racchiude insieme a lei in uno spazio ovattato dove le chiacchiere piano piano non si odono più, i corpi diventano veli che vibrano di calore ed io solo percepisco una quiete senza confini, la pace del tutto racchiuso dentro il cuore.