Da una storia vera

 

Ragazzi del ‘68

 

Se sognare un poco è pericoloso, la sua cura

non è sognare meno ma sognare di più, sognare

tutto il tempo.                    (M. Proust)

 

 

Mio padre faceva il sarto, come suo padre e il padre di suo padre prima di lui. Un mestiere cui ero destinato anch’io, se un giorno, nella nostra bottega, non fosse entrato un prete. Uno tarchiato, con un pancione che lo faceva sembrare una donna incinta e due occhi neri come la pece che facevano paura solo a guardarli. A quell’epoca, in bottega non avevamo manichini per provare i vestiti, così mio padre usava me. Ero io il suo manichino, buono per ogni occasione, e buono anche per quella veste che il prete aveva ordinato. Una veste che mi arrivava sotto le scarpe facendomi sembrare una mezz’uomo, ma che a lui, al mio vecchio, fece invece tutto un altro effetto.

“Sai?”, mi disse infatti, appuntandosi come faceva sempre gli ultimi spilli sulle tasche e guardandomi di sbieco, “io penso che invece del sarto, tu saresti un ottimo prete Mario. Credimi, lo saresti davvero!”.

Io mi avvicinai allo specchio e guardai la mia figura che lo riempiva. “Dici sul serio papà?”, gli chiesi poi con malcelato orgoglio.

“Certo!”, rispose lui, abbassando la testa come un cavallo assetato e facendo più volte segno di si. “E guadagneresti anche di più”, aggiunse, facendomi l’occhiolino, “però penso che alla fine il tuo destino sarà fare ciò che faccio io”. Io gli feci segno di si, che ero d’accordo naturalmente, ma non era vero. Purtroppo per lui, avevo altre idee per la testa e fu proprio quella veste, con le sue pieghe in cui io mi perdevo e quel colore così netto, a suggerirmele.

 

 

Con la mia famiglia abitavamo in un quartiere di case popolari; piccole abitazioni incollate le une alle altre e con i muri che sembravano di cartone. La bottega era molto lontana, un buco preso in affitto da mio padre, quasi in aperta campagna, e trasformato in un buon laboratorio di sartoria. Lì, ci lavoravamo un po’ tutti, da mia madre ai miei due fratelli e anche uno zio, ma io, appunto tra tutti, ero il più restio a imparare il mestiere, tanto è vero che molto spesso l’ago invece di attraversare la stoffa, attraversava i miei polpastrelli, bagnando di rosso i tessuti e suscitando le ire dei miei genitori che dovevano ricomprarli. Le ore passate dietro al bancone a sfilare i fili delle imbastiture, erano per me secoli spesi inutilmente, benedivo invece le ore della mattina, che mi tenevano chiuso in classe è vero, ma che mi allontanavano da quelle stoffe che sembrava volessero soffocarmi.

Quelli sono stati comunque giorni che in un modo o nell’altro mi hanno preparato alla vita, ma dei quali ho pochi ricordi, forse perché la mia coscienza ha fatto di tutto per rimuoverli.

 

*****

 

Oggi, a  ventitré anni, sono proprio ciò che con quella veste di prete addosso, avevo scelto di essere, ovvero un operaio della FIAT, con un sacco di lavoro e tanti debiti da pagare. La sartoria è ancora aperta e ci lavorano i miei fratelli, mentre i miei hanno scelto di vivere gli ultimi giorni in un pensionato dove passano le giornate parlando del tempo e di quel figlio disobbediente che gli ha dato così poche soddisfazioni. Da quando sono stato assunto, ho cambiato anche quartiere. Adesso abito in un altro, più grande e caotico di quello precedente, e la mattina mi alzo presto per andare in fabbrica. La pagnotta sotto il braccio e l’Unità in mano, sono le testimonianze di una vita grama e con pochi compromessi.

Con i miei compagni di reparto abbiamo costituito un Sindacato, uno libero, perché ci siamo accorti che i Rappresentanti degli altri facevano più gli interessi dell’Azienda che i nostri. Le riunioni le teniamo a casa mia, ogni venerdì, e mia moglie Caterina prepara polenta e fritto per tutti. Matteo porta il vino.

L’ultimo sciopero che abbiamo organizzato ha bloccato l’Azienda per una settimana ed io e gli altri cinque abbiamo rischiato il licenziamento, ma alla fine, l’abbiamo spuntata e le ore di lavoro sono rimaste quelle che erano, però, adesso, siamo tutti nel mirino e prima o poi ce la faranno pagare. Non si sfidano così impunemente i padroni. Ci sono leggi non scritte all’interno dell’Azienda che non bisogna violare, leggi che anche i Sindacati confederati definiscono sacre, ma che io e i miei amici rifiutiamo

 

*****

 

Come temevamo, la sospensione è arrivata. “Purtroppo un po’ te la sei meritata Mario”, ha detto il mio caporeparto, riprendendosi il tesserino, “e non so se ti daranno la possibilità di rientrare”, ha aggiunto, facendo finta di essere dispiaciuto..

Io ho incartato la mia tuta, salutato gli altri e a piedi ho raggiunto la fermata del bus.

Dio la mandava giù che era un piacere. “Che faccia parte anche lui dei padroni?”, mi sono chiesto, pensando a un disegno preordinato, magari andato in onda proprio mentre usavo la divisa di quel prete per pensare agli affari miei.

Mia moglie mi ha visto rincasare da lontano e mi è venuta incontro. La pancia le pesava quanto un macigno e aveva il fiato corto.

“Sai?”, gli ho detto, “Ricordi tutte le volte che ti ho promesso di andare al mare e non l’ho fatto?”.

“Sì, che me lo ricordo”, ha risposto lei, tenendosi le mani su quella pancia che sembrava dovesse rotolare via, “l’hai fatto un sacco di volte, tanto che ormai non ti credo più”.

“Beh, credo proprio che stavolta al mare ci andremo davvero”, ho replicato, poi l’ho presa in braccio e ansimando come un pastore alsaziano, l’ho riportata dentro casa. La polenta era già sul fuoco.

 

*****

 

“La vendetta è mia”, ha detto il Signore, una frase che ho sentito un sacco di volte durante le prediche di Don Pietro, il parroco del Santo Spirito, ma devono averla sentita anche i Dirigenti della mia Azienda, e gli deve essere piaciuta tanto che l’hanno adottata, sostituendosi a Lui e usandola contro il sottoscritto. Due mesi dopo la sospensione, infatti, è arrivato anche il licenziamento. Io ho provato ad oppormi naturalmente, cercando di far valere le mie ragioni davanti al Giudice del Lavoro, ma non c’è stato nulla da fare: il mio sostituto era già dietro l’angolo, anzi, di sostituti ce n’erano diversi, ma nonostante le loro raccomandazioni, dovranno aspettare ancora un po’ per prendere il posto, magari appena l’Azienda si deciderà a far fuori qualche altro indesiderato.

Dopo quella notizia, la pancia di Anna, almeno così mi è sembrato, è cresciuta di colpo. Lei non riesce più a piegarsi, né a stare a lungo in piedi, e la notte non fa altro che lamentarsi. Il bimbo arriverà a marzo, ma io spero proprio che non sia pazzo come suo padre, e nemmeno che tifi per la Juve. Visto come sono andate le cose con quelli della Fiat, credo proprio che non sia il caso…

Alla fine, la mia signora al mare ce l’ho portata davvero. L’ho fatto il giorno di S. Giuseppe e con l’auto di Matteo, una 1100 mezza scassata. Siamo partiti da casa nostra quasi all’alba, tanto non riuscivamo a dormire, e siamo arrivati a Bogliasco alle 10.00. La spiaggia era deserta e il mare increspato. Anna si è tolta le scarpe e ha camminato sul bagnasciuga, lasciando che le onde gelate le lambissero i piedi. Per la pancia, il vestito un tempo lungo, gli arrivava sulle ginocchia. Era bellissima!

 

*****

 

L’ultima domenica del mese sono venuti a trovarmi i miei compagni di lotta. Avevano una bandiera anche per me e un posto nel corteo che, dalla Mole, sarebbe arrivato in Piazza S. Carlo. Il ’68 era appena cominciato ma prometteva già di essere un anno speciale, un anno che sarebbe rimasto nella mente di tanti e avrebbe riempito capitoli di storia per tutti i tempi a venire. Io volevo seguirli naturalmente e, lanciando garofani, stendere al vento quel drappo rosso che ha custodito i miei sogni giovanili e scaldato il mio sangue, magari cantando a squarciagola l’Internazionale. Per me, che mi sentivo un figlio adottivo del grande Marx, era un’occasione imperdibile, ma avevo qualcos’altro da fare quel giorno, un impegno a cui sinceramente nessuna protesta o ideale, sebbene grandissimo, avrebbe potuto sottrarmi.

 

 

Le vicine di casa arrivarono alle tre del pomeriggio e l’Ostetrica mezzora dopo. Mia moglie invece alla disperazione c’era arrivata già dalla notte precedente. La pancia sembrava dovesse sollevarsi tanto era diventata enorme e portarsi lei appresso. Io non facevo altro che vagare per casa combattuto tra il sedermi sulla veranda, con le dita ficcate nelle orecchie naturalmente o l’assistere al parto. Alle 4.00, dovetti optare purtroppo per la seconda ipotesi e piazzarmi davanti al letto, pronto ad afferrare il pargolo appena si fosse deciso a uscire.

“Mi raccomando”, suggerì a mia moglie che non faceva altro che lamentarsi per i dolori, “fai qualche bel respiro a bocca aperta e spingi quanto più ti è possibile, hai capito? E vedrai che così facendo lui tra poco si rompe e viene fuori”.

“Ah si?”. Lei pero che era diventata viola per lo sforzo non accolse quelle esortazioni con entusiasmo. “E come l’hai scoperta questa cosa?”, mi rispose.

“Ho letto qualche articolo e il Ginecologo dava sempre lo stesso suggerimento alla madre: spinga, spinga signora, le urlava, collabori, non stia a concentrarsi solo su quei maledetti dolori. Prima si libera e prima le passeranno”.

“E la madre che cosa gli rispondeva?”.

“E perché non vieni a spingere tu che sei tanto bravo?”.

“Che donna intelligente!”.

“Resta comunque il fatto che tu devi farlo se vuoi che nasca”.

“E se anch’io ti rispondessi come la signora di prima?”.

Detto, fatto. Per dimostrarle che la mia teoria era esatta, abbandonai la posizione che avevo tenuto sino a quel momento, mi misi dietro la sua testa, e poggiando le mani aperte sui lati della pancia, cominciai a massaggiargliela con forza, spingendo dall’alto verso il basso. E continuai così per un’ora abbondante, finché la mia costanza non fu premiata.

Esattamente alle 6.00 infatti, un pezzettino della testa del nuovo arrivato fece capolino tra le gambe tremanti della mamma, dopo di quello fu la volta della fronte e degli occhi, due grandi e bellissimi occhi blu, e quindi del naso, della bocca e di tutto il resto. Un quarto d’ora dopo, un lungo sospiro della mia signora sancì la fine della tortura e lei si lasciò andare su quel materasso di paglia che a quel punto le sembrò un sogno. Anch’io mi stesi accanto a lei e insieme guardammo quel marmocchio che si agitava tra le braccia dell’ostetrica. Mio figlio Andrea, luce della mia vita, era nato!

 

 

La manifestazione andò bene, almeno così mi dissero i miei compagni. A parte qualche cranio incrinato dai manganelli e una discreta quantità di occhi arrossati dai lacrimogeni, la cosa riuscì a meraviglia, e da Torino a Napoli, si fece un gran parlare della protesta di studenti e operai. A me rimase il dispiacere per non esserci stato naturalmente e nei giorni successivi non feci che pensare agli altri che avevano combattuto anche per i miei diritti. Una cosa insopportabile a quel tempo per uno come me che di ideali e colori ne percepiva solo uno.

Andrea si attaccò al seno della mamma già dal primo giorno e se lo lavorò meglio di quanto avesse mai fatto il suo papà. La FIAT mi mandò gli auguri e la liquidazione, cosa di cui, con quella nuova bocca da sfamare, avevo proprio un gran bisogno.

Alla vita di disoccupato tardai però ad abituarmi, ma quando lo feci, mi travolse completamente, rendendomi insofferente a tutto. Caterina mi aveva assegnato dei compiti precisi, investendomi del ruolo di mamma in seconda e mandandomi pure a fare la spesa, ma non mi bastava. Avevo troppo tempo a disposizione e niente che mi appagasse veramente. E poi c’era il denaro che cominciava a scarseggiare. Io e lei tiravamo avanti praticamente a pane e verdura, lasciando le risorse maggiori al bimbo che sembrava non saziarsi mai, ma a sei mesi di distanza dal mio licenziamento, finimmo con l’arretrarci anche con l’affitto della casa e la bolletta della luce. Ero arrivato alla disperazione e non vedevo spiragli né vie d’uscita, ma fu proprio in quel momento, in cui credevo che tutto sarebbe finito a puttane, che Don Pietro mi diede un consiglio.

“Pensa alla Bibbia”, mi disse sibillino, “c’è un passo che potrebbe fare proprio al caso tuo”.

Io da comunista conoscevo bene “Il Capitale”, ma con il libro di Dio avevo pochissima confidenza. Fu mia moglie, fervente cattolica anche se scarsamente praticante, a illuminarmi e mettermi, come si suol dire, sulla retta via…

Ci decidemmo un sabato mattina, vestimmo Andrea con i suoi panni migliori, noi con l’unico vestito della festa, e ci avviammo. La giornata era bella e spirava un leggero vento di scirocco. A metà percorso però, ebbi una piccola crisi e stavo per tornare indietro ma mia moglie con un pizzicotto mi convinse a continuare. La sartoria dei miei fratelli spuntò all’orizzonte dopo una buona mezzora. Il più grande mi adocchiò da lontano e si avvicinò alla porta, chiamando poi anche l’altro.

A me guardandoli tremavano le gambe e batteva forte il cuore. Erano otto anni che non entravo nella bottega di mio padre e il tempo aveva sfumato i ricordi, rendendoli quasi irriconoscibili. Con Caterina eravamo pronti a sorbirci occhiatacce e rimproveri di ogni genere, e pensammo che ce li saremmo anche meritati, ma poi, per nostra fortuna, la strada del pentimento e dell’umiliazione fu molto corta e non accadde nulla di ciò che temevamo.

“Toh, il figliol prodigo!”, si limitò infatti a dire mio fratello Carlo quando gli fui vicino, “E questo chi è?”, aggiunse strappandomi mio figlio dalle braccia.

“E’ praticamente tuo nipote”, risposi io, abbassando la testa e ingoiando amaro. Lui si portò dentro Andrea e lo mise a sedere sul banco, mettendogli in mano un rocchetto di cotone. Poi tutto andò come speravo e il lunedì successivo tornai a fare quello che facevo prima, il manichino praticamente, ma promisi a me stesso che da quel momento in poi, qualsiasi cosa fosse successa, avrei fatto di tutto per evitare sogni pericolosi e colpi di testa.

Mi decisi anche a battezzare Andrea. Era un impegno che avevo preso con Don Pietro e intendevo mantenerlo. E quando Matteo meravigliandosi mi chiese come aveva potuto un comunista come me sottostare ad un patto del genere, io gli risposi che l’avevo fatto perché avevo capito che lo Spirito Santo era diverso dai padroni della Fiat, era uno garbato, che se pure sbagliavi, non ti licenziava affatto.

Il più felice però del mio ritorno in sartoria fu mio padre. “Bravo figlio mio!”, mi disse, quando andai al pensionato a trovarlo, “Era destino che tornassi con noi”. Io lo abbracciai e, nonostante quel nodo che avevo in gola, non potei che dargli ragione. La bandiera finì in un ripostiglio. Per l’amore che portavo a mia moglie e mio figlio, da quel giorno in poi, le mie guerre le avrei combattute solo con il puntaspilli.

Sperando sempre naturalmente che in bottega non si trovasse a entrare un altro prete…


Contro gli orrori della guerra

 

Chi è senza peccato?

 

Ho letto pochissimi libri in vita mia e l’ultimo, con la foderina nera lucida e le scritte dorate, l’ho tenuto sul comodino per mesi prima di finirlo. Lo prendevo solo qualche volta la sera, quando tornavo dai campi insieme a mio padre, e le mani, ma soprattutto gli occhi, desideravano accostarsi a qualcosa di diverso che non fosse una balla di fieno o una manciata di sementi.

Il giorno in cui arrivò la cartolina ero a casa, nella mia stanza e stavo appunto leggendo, perché la pioggia aveva inzuppato i campi. Mio padre, che già faceva il matto per la giornata persa, la strappò di mano a mia madre che aveva osato leggerla prima di lui, fece salire lei sulla sua Atala e pedalando sotto la pioggia come un forsennato, raggiunse il Municipio. Da lì, arrivò alla caserma dei Carabinieri che era a due passi e quindi a Don Rosario, il vecchio parroco dell’Annunziata, ma nessuno volle ascoltarlo, finché la disperazione che gli stava facendo esplodere il cervello, gli suggerì di andare a trovare il Dottor Castriota, il medico condotto del paese.

L’uomo, già ottantenne e vedovo da un decennio, fu abbastanza gentile,  gli offrì un bicchiere di alchermes nel suo salotto e poi, dopo che ebbe finito di bere, gli domandò: “E allora Pietro dimmi, cosa posso fare per te?”.

“Io dottore vorrei che lei mi scrivesse un certificato”, rispose mio padre singhiozzando per l’ansia.

“Ah si? e perché? sei ammalato?”.

“Chi io? No, assolutamente. In quel certificato lei dovrebbe affermare che è mio figlio ad essere ammalato e di testa, e che sale sui treni solo per pisciare fuori dai finestrini”.

A quelle parole, la faccia del Medico divenne paonazza, gli si gonfio lo stomaco e le labbra già piccole e strette, si assottigliarono ancora di più, come se avesse deciso di mangiarsele. “E quale sarebbe il motivo di questa falsità se non sono indiscreto?”, urlò al poveraccio che aveva di fronte e che nel frattempo si era fatto ancora più piccolo di quel che era.

“Perché io voglio che quando lui si presenterà davanti alla Commissione del Distretto, sia riformato”.

“Dio mio!”, il richiamo al Padreterno sembrò d’obbligo in quel frangente, “Ma tu non vuoi bene all’Italia?”, chiese Castriota a mio padre, squadrandolo con occhi satanici dalla testa ai piedi, “Perché se non vuoi bene al tuo paese, non sei un italiano”.

Mio padre smise di martoriare il suo berretto di panno e dopo essersi passata una mano sulla faccia sudata e i capelli ubriachi di olio d’oliva, rivolse al dottore un’occhiata di rimprovero.

“Io lo amo parecchio il mio paese dottore”, rispose quindi tirando fuori tutto l’orgoglio che un contadino che s’è consumato tra le zolle della sua terra può provare, “forse pure più di lei, ma amo anche la mia famiglia e so che se parte mio figlio, moriremo tutti di fame. E’ questo che vuole l’Italia? farci morire di fame?”.

Il medico prese un toscano da una scatola argentata che teneva accanto alla foto del Duce e lo accese, sputando il fumo in faccia a mia madre che non diceva una parola.

“Per carità”, replicò poi tirando uno di quei sospiri nervosi che l’avevano reso famoso in tutto il paese, “io lo so che tu sei un brav’uomo Pietro e pure un lavoratore, e conosco anche le condizioni della tua famiglia, ma la patria è la patria figlio mio, e quando chiama, noi dobbiamo solo obbedire”. E alzandosi di scatto dalla sua sedia, sollevò in alto il braccio destro e senza tanti preamboli, lo congedò.

Il 10 settembre del ’41, vestito di lana verde marcio e salutato da mille fazzoletti bianchi, salì sull’Italico, il treno dell’Esercito, infilai a forza la mia valigia di cartone nel vano portabagagli e andai a sedermi in 3° classe, accanto ai miei commilitoni. I miei rimasero a guardarmi impietriti dal marciapiede, con gli occhi gonfi di lacrime e la sensazione nel cuore che non mi avrebbero più rivisto.

 

 

Alle 6.00 di ogni pomeriggio, Giulia viene a portarmi la cena, bussa alla porta della mia baracca e aspetta con calma, come se l’ospite che vi alloggia avesse il potere di decidere se aprirle o meno, poi entra, poggia il vassoio d’alluminio sullo sgabello e mi saluta con il più tenero dei suoi sorrisi. Tante volte le ho fatto segno di restare, chiedendole di raccontarmi qualcosa di lei o del suo paese, e altrettante volte lei mi ha detto di no.

I miei fratelli mangiano invece tutti insieme nella baracca grande. Hanno costruito un tavolo lunghissimo abbattendo degli alberi di betulla e da dove sono io, li sento ridere e scherzare, come se questa guerra infame fosse per loro solo un passatempo e l’occasione per una gita con gli amici.

La sera, il cielo sul campo si colora di rosso e il vento, che in queste zone non manca mai, solleva un nevischio gelato e leggero che taglia la pelle e penetra nelle ossa.

Come rimpiango lo scirocco umido di casa mia! Quell’aria afosa e pesante che prima odiavo perché di notte mi faceva perdere il sonno e mi riempiva la camera di zanzare, ora mi manca, e darei tutta la mia paga per risentirla scorrere sulla mia pelle anche solo per un momento.

Gli ultimi dieci sono stati giorni lunghi, giorni di piena solitudine e di pensieri. Mio padre e mia madre l’hanno fatta da padroni popolando i miei sogni e riempiendomi di domande alle quali non ho saputo rispondere. Tutti in questo periodo mi fanno domande. Anche gli amici di un tempo. E vorrebbero sapere il perché del mio comportamento così fuori dalle regole. E poi, dopo le domande, mi guardano con i loro grandi occhi mettendomi in imbarazzo, e di me scrutano ogni più piccolo particolare, cercando di capire di cos’è fatta una nullità. Un traditore.

 

 

Oggi pomeriggio sono riuscito a dormire e ho visto Giulia solo quando andava via. Il fruscio del suo bel vestito somigliava ad un panno di petali che scorre sul pavimento tanto era leggero. Prima di uscire, si è fermata sulla porta e mi ha sorriso più a lungo delle altre volte, come se avesse qualcosa da dirmi.

“Che c’è?”, ho provato a chiederle io, ma lei ha girato lo sguardo verso il campo ed è sparita. In silenzio, come sempre.

Tutto ciò che è diverso dal solito, oggi mi fa paura. Mi fa pensare. Che quelli che adesso chiamo miei fratelli siano arrivati ad una decisione? mi chiedo. Si, forse l’hanno fatto. Hanno deciso mentre dormivo o mangiavo, e tra poco magari qualcuno di loro busserà alla porta, entrerà e si metterà sugli attenti davanti a me.

“Michele Capoferro?”, mi chiederanno, come se non lo sapessero già da tempo chi sono.

Io mi alzerò dalla branda, mi aggiusterò alla meglio questa divisa che ho addosso da una vita e risponderò al saluto.

“Presente!”.

Poi tutto ciò che dovrà essere, sarà. Con buona pace di tutti.

 

 

Domenica mattina ho avuto una sorpresa. E’ venuto a trovarmi un prete, ma non uno dei “nostri”, un russo con gli occhiali d’osso e la barba lunga e grigia. Ha detto che lo mandava il Tenente e che dovevo perdonarlo per la sua pronuncia imperfetta.

Don Salvatore, il Cappellano del Reggimento, è morto un mese fa, colpito da una scheggia. Non ero mai andato a confessarmi da lui.

Con Vassilj, così ha detto di chiamarsi, abbiamo parlato di tutto: del tempo, della gente di Russia e perfino di calcio, uno sport che lui ha praticato da giovane. Poi, dopo un silenzio che è durato più di quanto entrambi desiderassimo, mi ha chiesto se temevo la morte.

“Come la temono tutti i miei compagni”, ho risposto io, trattenendo a stento lo sgomento che quella domanda mi aveva provocato, “né più né meno”.

Mi ha sorriso.

“Però so che se accadesse”, ho aggiunto, “sarebbe per una giusta causa… almeno così mi hanno detto”.

“La guerra non è mai una giusta causa Michele”, ha risposto lui serio, “altrimenti tu non saresti qua dentro”.

Il mio nuovo amico aveva spalle larghe e mani grandi e piene di calli, come le mie pressappoco. Le mani di uno che nella vita non fa solo il prete e che probabilmente sopravvive facendo qualche mestiere pesante e di poco conto.

“E la tua famiglia?”, mi ha chiesto ancora, spostando la sua sedia e mettendosi proprio di fronte a me, “Loro sanno quello che ti è successo?”.

“No, al mio paese nessuno sa nulla di questa situazione. E vorrei che qualsiasi cosa mi accada, resti chiusa in questo campo. Tanti di noi si sono già persi e non torneranno più indietro, se finirà come penso, sarò soltanto uno di quelli”.

Aveva portato con se un libro su cui c’era stampata un’icona a forma di croce, chiuse gli occhi e lo strinse forte tra le mani, mormorando alcune parole nella sua lingua che io non riuscì a capire.

“Mi sta assolvendo padre?”, gli chiesi allora.

“E chi sono io per assolverti?”, ha ribattuto lui quasi inquietandosi, “Solo Dio ha il potere di farlo”.

“E allora che c’è venuto a fare?”, stavo per chiedergli, ma non ho fatto in tempo, perché lui si è alzato e mi ha abbracciato così forte che per poco non mi spezzava le reni.

“Io sono tuo fratello Michele”, mi ha sussurrato in un orecchio, “come tutti gli altri in questo campo, e un fratello si ama e basta, qualsiasi cosa abbia fatto”.

Quando è uscito, sono andato alla finestra, e guardando quel mondo che ormai non mi apparteneva più, mi sono messo a piangere come un bambino. E non mi sono vergognato di farlo.

 

 

Il giorno è arrivato! Me l’ero immaginato tante volte come doveva essere e così è stato. Nella mia baracca sono entrati in tre, il Tenente e due commilitoni. Sulle loro facce, stanche per l’insonnia e smagrite per il poco cibo che ci passano, c’era solo la voglia di chiudere in fretta una questione dolorosa e da dimenticare.

Io mi ero già vestito e mi ero pure tagliato quella barba incolta che mi faceva sembrare un accattone, perché se devo incontrare la “signora”, voglio farlo con dignità e il mio aspetto più decente.

Chissà dov’è mio padre in questo momento, ho pensato mentre mi portavano via, magari riverso sul suo campo a tirare via quei minuscoli fili d’erba che solo lui riesce a vedere, e mia madre? Lei sarà sulla soglia di casa nostra, con la mano davanti agli occhi per proteggerli dal sole, aspettando con pazienza che suo marito ogni tanto volga lo sguardo dalla sua parte e la saluti.

Avrei dovuto sparare a quel giovane russo, senza pietà, perché lui di pietà non ne ha avuta, e mentre io abbassavo il fucile risparmiandogli la vita, lui ha imbracciato il suo e ha ammazzato Andrea, il mio amico.

“Signore, di me hanno detto che sono un vigliacco e mi mandano a morire perché non ho ucciso, ma io ho obbedito solo a un tuo comandamento e alla mia coscienza”. Solo che non era tempo per farlo.

 

 

C’è un posto che tutti chiamano il mattatoio. Si trova a due chilometri dal campo, vicino a un torrente che scorre velocissimo e va a gettarsi in una scarpata. Lì, ci portano i nostri che si sono macchiati d’infamia e li ammazzano.

Quando ci siamo arrivati, dal camion sono scesi in dieci e si sono schierati davanti a me che ero addossato al muro. Erano tutti poveracci, estratti a sorte per fare quello che non avrebbero mai voluto. Il comandante del plotone era un Capitano di Asti, un brav’uomo pure lui. Gli scarponi battevano il tempo sulla terra coperta di neve e il freddo tremendo spaccava le labbra facendole sanguinare. Il Capitano si è avvicinato con in mano una benda nera.

“Hai un ultimo desiderio Capoferro?”, mi ha chiesto nell’unico gesto di umana compassione che gli consentiva il Regolamento.

“Si Capitano”, gli ho risposto io, riuscendo persino a sorridere, “vorrei riempirmi le tasche di sementi e spargerli sulla terra a fianco di mio padre, prendere mia madre sottobraccio e portarla in paese a fare spese,  fare la corte alle ragazze, sposarmi e magari avere pure un paio di figli, e poi invecchiare con dignità e tenendo sulle gambe i miei nipoti, godermi ciò che ho saputo costruire. Nient’altro”.

“Mi dispiace Michele, ma posso offrirti solo una sigaretta”, ha replicato lui.

“Purtroppo non fumo Capitano”.

 

 

Alle 11,02 di un giorno terribile, dieci uomini che dovevano essere senza peccato, ne hanno ucciso un altro che di peccati ne aveva uno solo: la pietà.

Giulia dall’altro angolo del muro mi ha mandato un bacio che grazie a Dio ho fatto in tempo a raccogliere.

Poi, nei miei occhi, solo nuvole.