Poesie e racconti
L’ultima cosa che resta da fare
Forse l’ultima cosa che resta da fare è sparire,
nascosto tra i sogni come in un fossato,
tutto intorno il deserto di un campo minato;
ricordi sepolti che non devi sfiorare
se non vuoi che ti esplodano addosso,
che le schegge impazzite di risa e di baci
ti strappino il viso e ti dilanino il cuore.
Nascosto in attesa che arrivino i nostri,
che qualcuno in comando mandi i soccorsi,
e se invece nessuno dovesse arrivare
– so già che c’è il rischio, lo posso accettare –,
se dovessi restare nascosto per anni,
da solo ed al freddo, all’ombra dei sogni;
un bel giorno uscirò – sarà un giorno di sole –
e correndo tra i campi con gli occhi socchiusi,
un ricordo esplosivo mi riporterà a casa,
un’ultima immagine prima del buio,
con l’obolo in bocca, e a Caronte andrà bene
se al posto del freddo, antico metallo
sopra la lingua terrò stretto un nome.
Istanti
Colgo istanti di vita,
li assaggio,
e me li lascio alle spalle.
E voi,
come corvi,
ne mangiate il ricordo.
Tutto il suo amore
Era come se tutto il suo amore si fosse concentrato in un unico punto, in un unico istante; anche l’amore che non sapeva di possedere. Una quantità d’amore inimmaginabile, tutta insieme.
Era impossibile descrivere quella sensazione. Iniziò a piangere. Pianse tanto e senza un vero motivo. Pianse per amore, pianse sull’amore, sul suo amore sconfinato che ora stava lì, di fronte a lui e si mostrava indistruttibile e fragile al contempo, a un passo dall’implodere ed ingoiare tutto, o dall’esplodere e cancellare ogni pensiero.
Le uniche parole possibili erano le lacrime.
E le usò tutte, quelle parole salate, le usò da solo. La stanza si riempì di parole e lacrime, parole mute, lacrime urlanti. Come a sottolineare che tutto intorno a lui era carico, saturo di quell’amore che incombeva come una stella al collasso.
Anche lo spazio parve arretrare per rispetto a quanto stava accadendo. Così la stanza divenne un non luogo, divenne semplice teatro della scena, perse ogni familiarità: si trasfigurò in mille stanze, mille piazze, mille bar, mille auto parcheggiate davanti al portone. Anche la stanza piangeva.
Poi niente.
Lentamente le parole silenti scomparvero nei muri, le lacrime smisero di urlare, l’amore accecante, al centro del suo sistema solare, si calmò; come fosse esausto anche lui. Una stella stanca. Quella energia inesauribile, che nessuno avrebbe potuto consumare, parve sparire.
Sapeva, l’amore, il loro amore, che nessuno avrebbe potuto fermarlo, sapeva di essere più forte di ogni altra cosa, di lei, di lui, delle loro stesse vite. L’aveva voluto dimostrare. Aveva per un attimo deciso di far capire davvero di cosa fosse capace, di dare una visione della sua forza.
Poi, pian piano, era diventato più piccolo, gestibile. Quella infinita energia era tornata da dove era venuta (chissà dove poi…).
L’amore era di nuovo quello di prima, un amore normale, quello che un uomo può sopportare, quello con cui un uomo può convivere.
Ma per lui nulla sarebbe stato lo stesso: aveva visto tutta la potenza del loro amore, l’aveva subita. Ne era uscito spossato e sconvolto, ne era uscito distrutto ed inerme, ma impressionato.
Non avrebbe più amato meno di così, non si sarebbe più accontentato di un amore che fosse meno sublime, meno perfetto e meno terribile. Sapeva, però, che era stata un’eccezione, che non era possibile amare tanto, non una seconda volta. Sapeva di essere condannato a vivere in un ricordo, in una irraggiungibile ricerca. Sapeva che questa ricerca equivaleva a una promessa: la promessa dell’infelicità e dell’eterna inquietudine.
“Comunque andrà finire questa storia” – pensò – “nulla sarà più lo stesso”.