Chiacchiere e … cenci!

Zia Pina, mentre con mani sapienti imbastiva, infilzava, cuciva con la splendida vecchia Singer nera a pedale e rifiniva vestiti, gonne, giacche, cappotti, pantaloni, raccontava solo a me, bambina di undici anni con grandi occhi scuri e lunghe trecce nere, di quando era ragazza
Zia raccontava e rideva mentre si muoveva con abilità e sveltezza fra aghi, “sigarette” e rocchetti di filo di ogni colore, enormi forbici nere da taglio e … quantità immense di cenci colorati che cadevano a terra quando usava le affilate forbici sulle pezze di stoffa. Quei cenci rimanevano lì per la mia gioia, sceglievo fra tutti i più belli, i più colorati per portarli a casa e chiedere a mamma di farne vestitini per la mia unica bambola.
Pina era la sorella maggiore di mamma e spesso, quando uscivo dalla scuola media, mi fermavo a pranzare da lei. Mangiavo insieme a mio cugino i piatti preparati dalla suocera di zia, una vecchietta silenziosa dai capelli bianchi sempre coperti da una pezzuola nera … sempre vestita di nero, in un lutto eterno ma con un nome altisonante: Vienna!
Mangiavamo mentre Bali, il vecchio cocker nero di zio, si stendeva sotto il tavolo e ci guardava con occhi pazienti, teneri ed umani che ancora ricordo.
Appena finito di mangiare mio cugino fuggiva da casa fino alla sera, mentre io andavo nella stanza dove zia Pina lavorava e la osservavo incuriosita ed affascinata.
Zia era giovane e con un grande sorriso ma non si curava di se stessa, aveva capelli scuri ed ondulati lunghi fin sotto le orecchie, sempre puliti e “tenuti a posto” con mollette nere e pettinini di tartaruga, per evidenziarne le onde, senza però guardarsi mai allo specchio, se li aggiustava con le mani mentre andava al gabinetto o mentre parlava con qualcuno!.
Piccola e formosa, vestita semplicemente non lasciava mai ago e filo nemmeno per mangiare, la ascoltavo rapita raccontare mentre la radio sempre accesa trasmetteva musica e canzoni.
Le prime ore del pomeriggio erano le mie preferite perché eravamo solo io e lei che parlava solamente a me che mi sentivo “grande”!
Più tardi sarebbero arrivate le clienti, le proprietarie di quelle gonne, camicette, cappotti e mi avrebbero rubato tutta l’attenzione della zia-sarta.
Zia raccontava di aver iniziato presto ad andare ad imparare il mestiere da una brava sarta del paese e di come, ancora piccola, non avesse fatto altro che spazzare la stanza della “maestra”, ripiegare pezze di stoffa più alte di lei, riscaldare sul fuoco pesanti ferri da stiro neri, riavvolgere sigarette e rocchetti di filo. Oltre a prendere brontolate e scappellotti quando non era sufficientemente pronta nel porgere ai clienti gli indumenti da provare, o quando al momento importante della consegna del lavoro i pacchi non erano fatti bene, con cura ed attenzione.
Solo dopo anni le fu dato ago e filo per infilzare ed imbastire, ancora più tardi le fu insegnato anche a rifinire i capi. Rideva quando raccontava quanto tempo c’era voluto per imparare a fare il “soppunto cieco”, il punto che univa le fodere interne al resto del capo di abbigliamento, ma infine aveva imparato tanto che i suoi soppunti non si vedevano né da fuori né da dentro, nascosti, perfetti.
I nonni erano contadini ma a zia non piaceva lavorare la terra, per questo aveva chiesto di imparare un mestiere ed era stata accontentata.
Primogenita di tre figlie con un padre che voleva assolutamente un maschio ed una madre che, dopo la terza figlia, aveva avuto un aborto spontaneo con complicazioni: per il padre alcun figlio maschio al quale lasciare la terra!
Ancora molto giovane zia Pina si era fidanzata, di nascosto dai genitori, con il ragazzo più bello del paese diceva. Raccontava di non essere stata una bellezza però … aveva le sue “curve”, un bel sorriso e delle belle gambe e questo piaceva ai ragazzi. Aveva avuto molti corteggiatori, anche dopo aver scelto il fidanzato, ma era stata una ragazza seria e l’unico amore della sua vita era stato e rimaneva zio Otto.
Orgogliosa diceva come lui fosse bello e simpatico, “tutto l’opposto del fratello” sentenziava ridendo, e di come tutte le ragazze anche quelle più grandi, fidanzate, sposate lo cercassero. Terminava con tutta una serie di epiteti poco gentili verso quelle donne perché diceva “lui non si tirava indietro nonostante le volesse bene”. Le sofferenze, i dolori a causa di tutto questo erano stati costanti, così come le litigate, i distacchi ed i ritorni perché lei lo amava e la colpa di tutto erano le donne “non serie”!
Ancora troppo piccola non capivo ma la ascoltavo riuscendo quasi a sentire, vedere quanto lo amasse mentre lo scusava ripetendo più volte che era il bello del paese e quindi costretto spesso a difendersi raccontando bugie. Come, per questo, fosse considerato inaffidabile da molti paesani, compreso mio nonno, mentre lui “rideva e tirava oltre tanto c’era la ciucca a casa che lo aspettava!”.
A questi ricordi zia scuoteva la testa e si rabbuiava ma la tristezza durava quanto il passaggio di una lieve nuvola primaverile davanti al sole, così riprendeva a raccontare, giorno dopo giorno, ed io la ascoltavo sempre interessata, anche quando si ripeteva!
Di mamma diceva che era la più piccola, la “coccola” del padre che riusciva sempre a comprare con un sorriso, un pianto od un lamento secondo la necessità! Dalle parole di zia usciva un ritratto di mia madre giovane sfuocato, leggero, non ben definito.
Una ragazzina che accettava ridendo di vestire la “divisa” del regime al potere perché elegante, di partecipare alle “adunate di piazza” senza mai porsi delle domande in merito. Zia Pina invece opponeva delle resistenze a queste imposizioni del padre ed alcune volte lo accontentava ed altre no.
Ricordava come mamma, ancora molto giovane, accusasse spesso mal di testa o di pancia quando le veniva chiesto di fare qualche lavoro di casa, arrivava a stare talmente male che … le veniva consigliato di andare sul letto, così i lavori di casa finivano per gravare tutti sulle spalle di zia Pina e della nonna!
Proprio questo rifugiarsi spesso dietro malanni, veri o presunti che fossero, di vario genere aveva fatto sì che appena finite le elementari nemmeno mamma andasse a lavorare l’orto ed a vendere la verdura al mercato, né ad imparare un mestiere pesante come era il suo: era stata inviata al convento delle suore del paese per imparare l’arte del ricamo.
Aveva imparato a ricamare sui corredi nuziali che venivano commissionati alle suore, ricamatrici provette, dalle famiglie facoltose del paese e dei dintorni. Aveva imparato a lavorare in gruppo fra rosari e risate, preghiere e chiacchiere. Era diventata una brava ricamatrice e le sue mani piccole, bianche e ben curate si differenziavano da quelle delle altre ragazze.
Giovane ragazza civettuola mia madre che si innamorò molto presto di uno dei ragazzi allora più ricercati dalle donne del paese.
All’inizio, raccontava zia, sembrava che lui non la notasse nemmeno, troppo piccola per lui abituato a essere cercato dalle donne non viceversa. Cominciò così per mamma l’amore, la gelosia, il tormento per quel ragazzo, mio padre. Iniziò la strenua, sfiancante difesa di quell’amore davanti ai genitori, che lo consideravano un povero nullafacente, scioperato e inaffidabile (come zio Otto!) e al piccolo mondo intero.
Mio padre, assicurava zia Pina, era veramente bello, non alto come zio Otto ma “fatto bene” con due occhi neri profondi, un sorriso ed una risata che incantavano, una simpatia ed un atteggiamento che rapiva le donne! Quando cantava le serenate, che gli commissionavano gli innamorati stonati, finiva che le ragazze si innamoravano del cantante! Se si metteva a ballare nelle feste di paese, ballava così bene che “le donne, giovani e vecchie, si litigavano per ballare con lui”, parola di zia Pina!
A queste parole ridevo felice ed orgogliosa mentre lei aggiungeva “ e tua madre soffriva per la gelosia!”.
-Mamma non sapeva ballare e nemmeno voleva imparare quindi, alle feste rimaneva a sedere sulle sedie e pretendeva che anche il fidanzato non ballasse. Considerato che lui non ci pensava proprio, alla gelosia si aggiungeva la rabbia nel vedere che il ragazzo che amava non la accontentava come invece aveva sempre fatto il padre davanti ai suoi dolori.
Zia Pina commentava sempre “mia sorella era un po’ scema perché l’unica cosa che ottenne fu che tuo padre andava a ballare senza invitarla, senza nemmeno dirglielo e lei rimaneva a casa”.
Quando raccontava della guerra zia rideva molto meno, anche se affermava che tutta la sua famiglia non ne aveva risentito tanto. La guerra aveva solo lambito il paese e loro, giovani ragazze, avevano continuato la loro vita senza troppi traumi. Zia e mamma in questo periodo però avevano condiviso uno stesso dolore, una stessa ansia: i due fidanzati erano stati chiamati a fare il militare e, di fatto, erano andati in guerra.
Poche le notizie che riuscivano ad avere, rare le lettere che arrivavano finché mamma, per circa due anni, non ricevette alcuna notizia del e dal fidanzato!
Mi raccontava come, nell’ultimo anno di guerra, giovani soldati tedeschi facevano la “ronda” alle ragazze più giovani del paese e chiedevano alla sorella, allora ventenne, se fosse fidanzata, alla sua risposta affermativa scoppiavano a ridere dicendole “E dov’è? Diccelo che lo prendiamo, è un traditore! E’ prigioniero? Il tuo fidanzato o è morto e non tornerà, o se la sta spassando con altre ragazze in qualche paese lontano perciò divertiti con noi”.
Zia parlava di giorni di paure giovanili e di pianti condivisi.
Quegli anni tristi passarono, i fidanzati ritornarono raccontando uno, zio Otto, di avventure di guerra mirabolanti, l’altro di essere stato prigioniero e di aver temuto per la propria vita.
Ritornarono in un paese dove c’era solo miseria per giovani come loro.
Zia Pina continuava a fare la sarta e sposò velocemente il “suo amore” che si arrangiava a lavorare là dove trovava.
Dopo poco i nonni fecero sposare anche mamma, che non aveva commesse da ricamare, con mio padre che si arrangiava a fare il “falegname con poco lavoro” perché in paese abbondava solo la povertà!
“Erano finiti i sogni della gioventù, la speranza nel futuro, solo miseria e fatica non ci abbandonavano mai” sentenziava zia, continuando alacremente e velocemente quel lavoro che le permetteva ancora di portare avanti la sua famiglia: un marito, due figli e la suocera che se ne prendeva cura mentre lei lavorava … lavorava …
Arrivò il tempo in cui zia divenne più taciturna ed iniziò a ridere più raramente; aveva sempre meno clienti perché i paesani più facoltosi iniziavano ad andare a comprarsi i capi più importanti e costosi nelle botteghe di abbigliamento che aprivano sempre più numerose nella vicina città.
Zio Otto per altro continuava a non trovare un lavoro fisso definendosi ogni volta “uno spirito libero”!
Continuava però a raccontarmi come mia madre non lavorasse perché doveva stare in casa ad occuparsi di me e di mia sorella, ancora piccola, mentre mio padre faceva il falegname e riusciva appena a far mangiare alla meglio la famigliola.
Lei ed i nonni, quando potevano, aiutavano mamma, i nonni portandole i prodotti dell’orto e ogni tanto un pezzetto di carne, zia cucendo di notte vestitini nuovi bellissimi per me e mia sorella ricavati dalla stoffa delle “pezze” che le clienti le portavano quando venivano per qualche ordine! Sosteneva che una brava sarta doveva essere brava a cominciare dal “taglio”, mamma ricambiava aiutandola nelle rifiniture dei capi e ricamando i vestiti estivi delle clienti.
La prima media terminò, io fui promossa mio cugino no per zia fu l’ennesimo cruccio!
Zia Pina aspettava il terzo figlio ed il suo lavoro diminuiva, zio Otto continuava ad avere problemi di lavoro mentre la suocera era morta … nell’estate di quell’anno tutta la famiglia partì per “cercare fortuna”.
Il mio terzo cugino nacque lontano dal paese e da tutti noi, in un’isola bella ed aspra all’ombra di alberi da sughero!


 

Gran Canyon

Elena spinse lo sguardo fino al punto ultimo, fin là dove poteva arrivare ed esclamò con voce fioca: “Questo spazio bello e immenso m’invade … mi rende immensa”.
Giuliano, immobile al suo fianco, osservava anche lui lo spazio che aveva di fronte e le rispose con tono quieto, sommesso, ammirato: “Questa immensità m’invade l’animo … quasi mi spaura, mi fa sentire piccolo”.
Entrambi affascinati dallo spettacolo offerto da quell’infinito angolo di terra tortuosa, scalfita a fondo dagli eventi della natura e del tempo che si perdeva a vista d’occhio in quel cielo azzurro e terzo. Così lontani dalla loro “terra madre” che conoscevano sotto ogni aspetto, dove l’occhio trovava un limite a ogni scrutare.
Erano partiti in aereo una settimana prima e ora erano lì, dove lei aveva voluto essere, lì nell’immensità di quello spazio, di quello stupore, di quel silenzio che non osavano infrangere.
Elena era nel posto del suo sogno infantile. Da bambina aveva iniziato a desiderare di volare, non con palloncini, aerei o elicotteri ma con il suo corpo. Desiderava sentire la forza dell’aria unita alla dolcezza del suo sorreggerla, il vento sferzarle il volto con lo sguardo attento verso tutto ciò che poteva vedere, curioso verso ciò che poteva anche solo percepire.
Ricordava il tempo passato da piccola a osservare le evoluzioni delle rondini, dei piccioni, dei corvi neri che giravano intorno alla punta del campanile mentre cresceva il suo desiderio di volare. I suoi sogni dove diventata libera, si librava nell’aria guardando quel suo piccolo mondo dall’alto, fuggendo da tutti i limiti cui la costringeva.
Elena si colmò della sensazione di trovarsi proprio in quello che era divenuto, con gli anni, il luogo ideale per il suo volo. Lasciò scivolare lo sguardo su quello spazio, l’orecchio sempre attento a quel silenzio, toccò con la mano quella terra rossa assorbendo il calore che le trasmetteva. il sole già alto scaldava il suo corpo e illuminava quello splendore di paesaggio e di situazione … magica, irreale, difficilmente immaginabile per chi non vi arrivava con un grande desiderio dentro sé.
Si abbandonò a quella sensazione mentre la mente vagava in quell’immensità a volte correndo, altre sostando o danzando.
Le sofferenze della sua vita giunsero in corsa al suo animo ma non ebbero il tempo di fermarvisi, le ignorò, per una volta, perché le percepì troppo piccole rispetto allo spazio da cui si sentiva avvolta.
Strano, si ricordava ogni attimo dei suoi dolori e ogni volta che loro giungevano, riusciva a rinverdire le sensazioni, le emozioni, i sentimenti che avevano suscitato in una rivisitazione continua, senza sosta. Adesso no, tutto scorreva velocemente per non turbare lo stupore dell’attimo.
Con lentezza, dolcezza giunsero anche le situazioni serene, forse felici, del suo vivere. L’amore che aveva ricevuto e donato, l’amicizia continuamente trovata e a volte perduta, gli attimi di gioia immensa immortalati e fissi nel suo essere, suo padre che la guardava con il suo sorriso immenso, sua madre che la osservava sorridendo ma che non capiva quel suo essere affascinata dal tutto!
Respirò profondamente e lentamente Elena, si viveva leggera e finalmente nel posto giusto al momento giusto. L’aria entrando nei suoi polmoni le inviò un’altra sensazione, molto forte.
Era come se, insieme all’aria, fosse entrata in lei tutta l’umanità che aveva vissuto nei secoli in quegli spazi.
Da anni percepiva di appartenere a un’umanità che non aveva un inizio e non avrebbe avuto una fine fino a quando un solo essere umano avesse calpestato la terra. Sentiva in sé di essere il frutto di quell’umanità che l’aveva preceduta nel tempo e l’origine di quella che sarebbe vissuta dopo di lei.
Era forte in lei l’energia di tutti quelli che l’avevano preceduta, la respirava, se ne saziava e apriva tutto il suo essere per accoglierla, senza paura.
Voltò lo sguardo verso il compagno e lo percepì, anche lui, dentro di sé in quella leggerezza d’essere Elena spiccò il volo e si alzò su quello spettacolo immenso e unico della natura.
Solcò con ali ampie quelle gole che alcun uomo aveva tracciato, scese fino in fondo a quei canaloni avanzandovi con volo greve, lento per non perdersi nulla di quello che vedeva, che provava, che viveva. Si alzò sempre più in alto per gioire della mappa affascinante formata da quei solchi, dell’aria limpida, pura, profumata di terra, del sole così caldo, luminoso.
Era grande per quanto tutto ciò che la attorniava era “grande”.
Planò infine lentamente, serena accanto a Giuliano.
Notò il suo sguardo azzurro perso in quel tutto, il sorriso sereno delle sue labbra, il suo volto rilassato nel pensiero, il suo corpo abbandonato sul terreno poggiato su di un fianco la testa volta verso l’immenso.
“Che cosa stai sentendo?” chiese.
“Il tutto che mi penetra e mi spinge a ripensare molta parte della mia vita … mi sento piccolo ma forte.”
Giuliano tese la mano forte e tenera verso di lei che la raccolse nella sua. Si strinsero forte divenendo quasi un tutto con quell’immensità in cui si donarono amore.
Lui si alzò continuando a guardare avanti e pronunciando quelle parole che erano completamente avulse da quello che stavano vedendo e vivendo ma, necessarie per trovare la forza di staccarsene: “Dobbiamo andare, ci stanno aspettando.”.
Voltarono le spalle all’immenso e si avviarono verso l’auto, le ombre si erano allungate … da quanto tempo?
Sorriso e lacrime di gioia sul volto di Elena quando salì sulla vettura: aveva volato, aveva esaudito il suo sogno, si era unita con quell’immensità cui sapeva di appartenere.
Giuliano chiuse la carrozzina e la mise nella bauliera poi sedette alla guida, tutto con calma, quasi a non voler interrompere l’attimo importante che ognuno di loro aveva vissuto nel proprio intimo.
Non ci furono parole fra loro tanto gli animi erano sereni e sazi: lui con il suo essersi vissuto “piccolo” ma forte, lei … con il suo essere “grande” nel suo vivere quotidiano.


 

Nulla finisce, tutto si trasforma.

In famiglia non si parlava di politica, mamma e nonna sempre intente alla casa, a noi bambini, alla chiesa. Babbo preso dal suo lavoro di imprenditore e dal benessere della famiglia. Anche il paese sembrava farne a meno e la vita scorreva pigramente fra lavoro, bar e domeniche sempre uguali, scandite da riti prevalentemente religiosi e familiari.
La incontrò quando si trasferì in città per frequentare l’università.
Partecipava alle assemblee universitarie per comprendere, approfondire, conoscere i problemi di tutte quelle persone, diverse fra loro, che si confrontavano anche duramente su concetti e principi di vita, pronti a lottare per porli al centro della vita sociale di ogni giorno.
In solitudine e quiete rifletteva a lungo su quegli argomenti per poi partecipare con convinzione a manifestazioni di protesta, o alle attività di associazioni alle quali donava tempo e capacità.
Attraversò così quella parte della sua vita radicando in sé valori e principi che la portavano ad aiutare gli altri a conquistare e affermare diritti sociali che sembravano non ancora alla portata di tutti gli esseri umani.
Non aveva timore di esprimere e sostenere le sue idee, le sue nette prese di posizione sempre motivandole, la sua coerenza di comportamento e le conseguenti scelte di vita.
Carla non amava i compromessi nella sua vita personale e ne stava volutamente lontana, nella vita sociale li fuggiva come fossero una malattia da evitare e sempre in agguato.
All’inizio degli anni novanta fu cercata da un partito per essere candidata alle elezioni regionali. Si stupì della proposta ma comprese subito di poter diventare un punto di riferimento in grado di catalizzare un buon bacino di voti: era disabile, donna, giovane, laureata ed era divenuta “visibile” con il suo lavoro nel settore del volontariato.
Le spiegarono, a grandi linee, che i candidati alla Regione erano cinque, e il capolista sarebbe stato certamente eletto. Chi era in lista al secondo posto, ex sindaco di un paese vicino, sarebbe stata sicuramente eletta data la carica svolta in quegli ultimi anni mentre, il quarto e il quinto in lista sapevano di non avere possibilità perché semplici “numeri”.
A lei era offerto il terzo posto della lista, questo significava: conquistarsi l’elezione a Consigliere Regionale. Forse poteva non essere eletta subito, continuarono, ma … a distanza di due anni si sarebbero svolte le elezioni politiche e il capolista vi avrebbe partecipato con la certezza di essere eletto in Parlamento. Se fosse riuscita a mantenere il terzo posto … Chiaro ragionamento logico studiato a tavolino e molto pragmatico, pensò Carla.
Era un’esperienza che le mancava, un’esperienza per conoscere dal di dentro quel mondo che guardava con diffidenza ma che poteva offrirle l’occasione per portare avanti le problematiche dei più emarginati dalla società. Cittadini troppo spesso cercati da esponenti politici in prossimità di elezioni varie e dimenticati subito dopo.
Accettò.
Due pomeriggi a settimana le misero a disposizione un ufficio, munito di tutto ciò che era necessario, dove riceveva i cittadini che volevano conoscerla e esprimerle i propri problemi. Oltre a questo doveva partecipare a tutte le manifestazioni che il capolista aveva nel calendario elettorale, sul territorio provinciale.
Davanti la porta di quell’ufficio non c’era la coda quando c’era lei ma, anche se a ondate, alcuni cittadini la volevano incontrare per parlare di studio, lavoro, sanità, diritti, rifiuti, trasporti … problemi, problemi, problemi!
Alcuni li conosceva, altri erano sconosciuti che a volte la mettevano in imbarazzo a causa della sua ignoranza rispetto ad alcuni temi sociali che però si prefiggeva immediatamente di colmare.
Erano caldi pomeriggi estivi in cui Carla si concedeva agli elettori e imparava da loro molte cose sulla vita quotidiana, vite anche molto diverse dalla sua ma ricche di conoscenza spendibile, eventualmente, a livello di politica regionale.
Dopo ogni incontro, con carta e penna come amava fare, fissava concetti, sensazioni, proiezioni, linee di ricerca, voleva divenire “capace” nell’eventualità: doveva mettersi all’altezza del compito offertole.
La porta dell’ufficio si aprì e la voce sempre esageratamente allegra della ragazza che le avevano messo temporaneamente a disposizione per la campagna elettorale disse “C’è una persona che ti vuole parlare … ascoltala con attenzione”; la ragazza si fece di lato per far entrare un signore chiudendo la porta dietro di lui.
Nel guardarlo Carla percepì una strana sensazione di turbamento, tutti i suoi sensi erano all’erta quasi temendo un pericolo.
Era un uomo di mezza età senza alcunché di particolare con un atteggiamento tranquillo, umile e con un sorriso appena accennato.
Prima di sedersi le porse la mano e gliela strinse con forza quasi a far male, a quella stretta volitiva rispose con una stretta altrettanto decisa, ferma.. L’uomo sorrise in modo più evidente e lo sguardo divenne da umile deciso. Parlò infine con voce chiara guardandola in faccia.
“Prima di tutto voglio congratularmi con lei, è molto giovane e sta affrontando un’esperienza importante e impegnativa senza una forte base di conoscenza di questo mondo”.
Carla ringraziò ma non aggiunse parola, voleva capire chi era quello strano personaggio solo apparentemente innocuo, secondo lei.
Continuò, “Faccio un lavoro che porta divertimento fra le persone, giro le piazze d’Italia, monto e smonto strutture per il piacere di grandi e piccini. Siamo in molti e, una volta all’anno,ci riuniamo tutti per decidere una specie di calendario degli spostamenti tenendo conto di ricorrenze, feste cittadine e scadenze nazionali varie. Io e la mia famiglia in questo periodo siamo qui, dove abbiamo la residenza, e ci rimarremo tutta l’estate”.
Allungò una mano per offrirle alcuni biglietti omaggio per usufruire delle sue strutture montate sul lungo mare.
Visto che Carla non allungava la mano per riceverli li appoggiò sulla scrivania che li divideva. Il suo sguardo era mutato ancora, ora era visibilmente irritato e il tono della voce era duro mentre continuava.
“Siamo una grande famiglia e per lavorare bene abbiamo bisogno di persone che ci facilitino spostamenti e stazionamenti in piazze centrali di città e cittadine”.
Carla lo guardava e ascoltava attentamente senza capire ancora che cosa voleva quell’uomo da lei, di un’unica cosa era certa: continuava a diffidare di lui.
Lo sguardo dell’uomo divenne duro, di sfida, la voce ferma e quasi intimidatoria quando disse “Lei ha davanti a sé cinquecento voti certi che la mia categoria le offre per poter essere certamente eletta in Consiglio Regionale. A lei accettare o rifiutare”.
Quelle parole le giunsero incredibili, come si permetteva quell’uomo di farle quella proposta per lei inconcepibile? Chi lo aveva mandato proprio da lei?
Il primo impulso fu quello di invitarlo a uscire poi, invece, volle saperne di più. Abbassò lo sguardo sulla scrivania, sui “biglietti omaggio” e li prese in mano apparentemente osservandoli mentre rallentava il respiro per calmarsi e riacquistare il suo equilibrio.
Quando rialzò lo sguardo sull’uomo, che continuava a guardarla con comportamento di sfida, con calma accompagnata da un ampio sorriso chiese “Ammesso che accetti la sua comunità, dopo, che cosa chiederebbe in contropartita?”
“Niente!” rispose lui senza mutare atteggiamento.
Carla accentuò il sorriso nel ripetere la domanda.
La risposta iniziò a mutare “Niente, niente rispetto a cinque anni di incarico regionale”.
Il silenzio che seguì fu voluto da Carla, era giovane vero ma sapeva che “nulla viene dato per nulla”, c’era sempre una contropartita da pagare.
L’uomo riprese, “Ovviamente ogni tanto, almeno una volta l’anno, ci presenteremo per farle conoscere il nostro “calendario degli spostamenti” e lei dovrebbe dimostrare la sua riconoscenza agevolando la nostra presenza nelle migliori piazze regionali!”.
Ancora una volta frenò il suo sdegno continuando ad ascoltare. “Mi hanno indirizzato da lei perché non ha la certezza di essere eletta ma, con cinquecento voti certi …”.
Carla si alzò dalla sedia e porse i biglietti all’uomo che li guardò dicendo “E’ un rifiuto?”
Il silenzio e lo sguardo parlarono per lei. L’uomo si alzò e con un sorriso di scherno le disse “Li tenga e venga a divertirsi dopo la mandata elettorale, ne avrà bisogno”. Carla li strappò davanti a lui gettandoli a terra e avviandosi verso la porta che spalancò invitandolo con gesto perentorio a uscire.
Lui, con flemma e sorriso sardonico, si mise in testa il cappellaccio di paglia che aveva girato fra le mani tutto il tempo e uscì senza degnarla di uno sguardo e senza rispondere ai saluti ossequiosi della ragazza del partito. Ragazza che, voltandosi verso di lei, chiedeva con rabbia che cosa era successo.
Carla, mentre recuperava la sua borsa per andarsene, rispose “Dì al tuo capo che non mi mandi altre persone del genere, sono abituata a lottare per la vittoria e per la sconfitta che non temo perché da essa imparo. Digli anche che la sera, quando vado a letto, dormo serena perché in accordo con i miei principi e i miei valori e intendo continuare così”.
Uscì a testa alta e schiena dritta passando davanti a un volto allibito che la seguiva a bocca aperta!
Nella sua famiglia non parlavano di politica, la sua politica si era costruita nel tempo vivendo fra le persone che le avevano fatto conoscere valori e coerenza, se ne rese conto proprio davanti a quell’uomo che si “offriva” scambiando quell’azione squallida per “potere”:
Arrivò terza a quelle elezioni a pochi voti di distanza dalla seconda, se avesse “accettato quei voti” sarebbe stata seduta sugli scranni regionali. Ne rise, non era pronta nè sarebbe stata pronta in futuro.
A qualche anno di distanza da quelle elezioni il mondo politico crollò per corruzione. Giornalisti e media decretarono la morte della prima Repubblica festeggiando la nascita della seconda, come ora sanciscono la fine della seconda auspicando la nascita della terza.
Carla continua le sue lotte sociali sulla base di principi, valori e diritti e con una conoscenza in più: nulla finisce, tutto si trasforma … solo principi e valori possono rimanere e attraversare il tempo umano.