L ST&FOUND
Adesso parto! – mi dico. Preparo armi più‘
che bagagli, avviso tutti e poi resto qui, inebetita dalle
responsabilità. Inquietudine. Di chi deve, ma non ci sa stare.
Irrequietudine. Di chi va, ma solo con la testa. Il corpo fermo, a
fargli da zavorra. Prendo la valigia e parto! -incalzo. Porto con me, i
miei quarant’anni, le mie idee e vado. Eccomi son pronta! Ma sono
ancora qui. Nonostante mille partenze, mille approdi. Viaggi lunghi
la proiezione della mia mente. Chissà dove, chissà come, a
raggiungere te. Sto arrivando! – urlo. Ti prenderò per mano e
correremo insieme, in quello stadio, a quel concerto zingaro che ci
ha consacrato tali. Null’altro che cielo e stelle su di noi. Le nostre
mani unite, i nostri pensieri proiettati in alto a creare una linea unica
verso il sogno. Randagi felici nella coda, ci ritroviamo per perderci in
vicoli e risate. Rosicchiamo, affamati di vita, il nostro osso. Come
neuroni a cercare specchi di se, io mi ritrovo in te, perso di me.
Come calzini spaiati, tu ed io, nel bucato della nostra esistenza. Ma
ci sarà un senso se il passato non passa, se un futuro non sarà
neanche dopo, e il presente è sempre assente? Ci sarà’ un senso per
noi, tregenda di mine vaganti, condannati al moto perpetuo
dell‘inquietudine? Cosi sia, dunque! In viaggio ancora, per perdersi
e ritrovarsi all’ufficio oggetti smarriti. Oggi il mio viaggio ferma qua.
Senza capolinea. Domani nel rimbalzo dalla realtà partirò ancora da
questa casa vintage che è la mia vita, da questa collezione di vecchi
pezzi a inseguire la luce di un nuovo viaggio.
Reverie
Quarant’anni, suonati e stonati.
Stonati sì, tutta casa, famiglia e lavoro e la vita che va anche senza di me.
Certezze e sicurezze, un comodo rifugio per molti, non per me.
Adesso più che mai un’ attrazione nuova, una pulsione primordiale,
mi spinge verso l’ignoto , l’avventura, il mistero. Sopra ogni cosa il
bisogno irrequieto e irrefrenabile di essere, di esprimermi, di farmi spazio
camminando in avanti, lasciando indietro il certo per l’incerto.
Sola, con le mie gambe atrofizzate dalla quotidianità, tirate avanti per
inerzia, d’improvviso, I’incontenibile bisogno di essere ancora “on the
road”.
Quarant’anni. Un numero cosi perfetto tra suono e significato rimanda
alla scoperta della imperfezione come lento strumento di riscatto della
consapevolezza del “se”.
Sono un individuo, sono una donna, ho progetti e mete da raggiungere,
ma, le ravvedo solo adesso.
A discapito di quella perfezione fino ad ora ricercata con quell’equilibrio
ossessivo che adesso mi toglie il respiro e mi da la nausea.
Quarant’ anni e se mi guardo indietro quella patina d’oro con cui ho
ricoperto ogni aspetto della mia vita, mi da l’amara certezza di aver
speso tante, troppe energie a render bella ogni cosa e di aver lasciato
indietro me stessa
Oggi m’imbarco. In viaggio in quel mare liquido e in movimento che
sono i luoghi del mio sentire.
Nella valigia , i miei quarant’anni, le mie idee e questa nuova e
ingombrante voglia di andare.
I francesi la chiamano : “Reverie”.
La capacità per alcuni individui di vivere una sorta di vita altra e parallela,
nella quale costruirsi una realtà propria e soddisfacente. Uno spazio
singolarmente privato, intimo, segreto, in cui alcune trame dei nostri
desideri trovano soddisfacimento e compensazione.
Alcuni individui . Me compresa.
Sono dove voglio solo pensandolo. Con ciò che sento costruisco paesaggi
e luoghi della mia personale “reverìe”. Con i miei pensieri costruisco il mio
centro benessere privato. Con le sensazioni fabbrico luoghi di vacanza.
Un angolo del paradiso, il mio giardino segreto dove poter coltivare erbe
e spezie magiche e ricreare emozioni dello spirito e del corpo. Uno spazio
intimo, dove restare nudi con se stessi, prendere la carica e proseguire.
Queste confessioni del sentire sono i miei viaggi in solitario. Nella mia vita
altra, percorro, senza rifare, sentieri e strade per saziare la mia indole di
curioso esploratore.
Questa vita altra e’ un viaggio dello spirito attraverso la materia. Le
cose intorno a me, le persone, gli spazi che percorro ogni giorno sono la
materia attraverso cui il mio spirito si misura in infiniti e sempre nuovi
percorsi del sentire. Uso la mia mente come un veliero. Uso persone
gesti, volti e parole intorno a me come porti in cui soffermarmi e da cui
ripartire con la cambusa piena. Ciò che vedo , non e’ ciò che vedo, ma ciò
che sento. Tutto e’ in me. Tutto ciò che vedo è in me. Tutti i luoghi del
mondo esistono, se sono in me. E se creo pensando, posso anche scrivere
ciò che col pensiero creo.
Penso , ergo scrivo.
Così ho cominciato a scrivere. Perché scrivendo abbasso la febbre del
sentire. Srotolo la matassa ingarbugliata che sono. Sciolgo nodi di me
stessa. Parlo in corrispondenza diretta con i moti dell’animo. Mi ascolto e
spiego le vele al vento inquieto che mi agita.
La penna come continuità del flusso dei miei pensieri.
Se avessi tutto il tempo per me, riuscirei forse a trascrivere questo
inarrestabile fiume in piena che mi esonda dentro perché scrivendo
mi sento libera. Sgombro testa e cuore da questo sovraffollamento di
parole e pensieri. Ma per quanto faccia ormai parte di me , tutto questo
comincia a prendere le sembianze di un monologo impazzito.
AI termine dei miei viaggi, la inquieta consapevolezza di essere rimasta
dove sono e di essere nuII’ altro che me e altra insieme.
E ritorna l’amarezza della solitudine. Talvolta ho bisogno di essere in
corrispondenza con altro che me.
Devo far qualcosa.
Ora parto… mi dico… preparo più armi che bagagli, awiso tutti e poi
resto qui. I piedi troppo piantati in terra che non seguono i miei slanci.
Inquietudine. Di chi deve, ma non ci sa stare. Irrequietudine. Di chi parte
ma solo con la testa. II corpo soddisfatto e irriverente a fargli da zavorra.
Eccomi. Sono ancora qui, nonostante mille partenze, mille approdi senza
ritorno ormai.
Viaggi lungo la proiezione della mia mente. Domani nel rimbalzo dalla
realtà, partirò ancora da questa casa vintage che è la mia vita, da questa
collezione di vecchi pezzi a inseguire la luce di un nuovo viaggio , iniziato e
finito con la penna in mano.
La bitta
Giace inerte e rugginosa
la bitta sulla banchina.
Mesto testimone
di un porto ormai disabitato,
di barche costruite dai padri
che i figli non han voluto.
Da questa inane sponda,
partono sbiadite cartoline e
anziani pescatori arsi dal sale
e da improbabili promesse.
Sulla linea dell’orizzonte
si disperde la certezza
di quell’antico solco sulla bitta,
inutile ruga sul volto tuo di marinaio.
E a te, sbandato viandante
che, ignaro, giungerai sin qui,
non resterà che l’eco sordo
del tuo passo sul dannoso asfalto
e lo stridere di gabbiani sfaccendati
sulle vuote reti tirate in secco.
In questo incantesimo
tra mare e cielo,
il tuo sguardo straniero
indugia laddove fate morgane
disegnano apparenti rifrazioni
e del tramonto di questo porto
celebrano l’ ultimo scatto.