Racconti
L’esercito invincibile
Merichi era un uomo di mezza età, ex condottiero, forte fisicamente, resistente ad
ogni genere di fatica. Il suo corpo, pieno di cicatrici, era la rappresentazione delle
mille battaglie vinte insieme ai suoi uomini. Già, i suoi uomini. Erano tutti lì con lui,
prigionieri in quel bel paese. Alcuni stavano lavorando nei campi, altri stavano
svolgendo mansioni varie con gli animali di allevamento, ed altri invece, come lui,
erano seduti, con lo sguardo pensieroso e l’espressione quasi triste, o la si potrebbe
meglio definire, nostalgica. Sicuramente anche loro, come lui, stavano pensando ai
bei tempi andati, quando ogni giorno si combatteva una battaglia, e si vinceva
sempre. Quante città espugnarono insieme! Non c’erano mura, portoni, cancelli o
fossati, che resistevano a loro. Per quanto una città era protetta, per quanto forti
fossero i soldati che la difendevano, quando arrivavano loro erano sempre dolori. In
battaglia erano una furia: le loro spade non smettevano mai di roteare, le frecce
scagliate dagli arcieri nella retrovia colpivano sempre il bersaglio, le loro infernali
macchine d’assedio sgretolavano le difese del nemico… ed era una gioia immensa,
ogni volta, entrar nella città nemica come un sol uomo, spazzare via gli ultimi soldati
e poi cantar vittoria. Le battaglie erano molto simili tra loro, con le catapulte che
vomitavano massi sulle mura nemiche, gli arcieri che crivellavano di frecce i soldati
sui bastioni, e anche quelli che erano rifugiati nelle torri, gli arieti che battevano
periodicamente sul portone, le loro torrette mobili che si posizionavano davanti alle
mura avversarie, vi ancoravano una passerella, e permettevano ai soldati corazzati
di entrare nella città nemica… era sempre così, un meccanismo perfetto, ben oliato,
imparato a memoria. E finiva sempre allo stesso modo, con loro trionfanti al centro
della città appena espugnata. Tutti avevano imparato a conoscerli, tutti tremavano
al sol sentir il nome “Merichi”, e a sentir parlare dei suoi uomini. Li avevano
soprannominati “l’esercito invincibile”, perché contro di loro c’era poco da fare.
Quando il signorotto di una città fortificata se li trovava davanti, sapeva già che il
suo dominio era giunto al termine. Ma un giorno arrivò l’epilogo dei loro trionfi: si
trovarono di fronte ad un paese bellissimo. Lo osservarono dall’alto di una collina.
Era pieno di campi coltivati con ogni ben di Dio: cereali, vigna, frutteti vari, ortaggi.
Scrutarono anche numerose stalle, con molte mucche, pecore, cavalli, e altri
animali, tutti ben nutriti. La gente sembrava far baldoria, beveva vino e intonava
canti davanti ad un fuocherello, sul quale arrostiva della succulenta carne di ogni
tipo. Intorno ad esso c’era solo una staccionata di debole legno, con qualche
torretta rustica, sempre in legno, alta si e no un paio di metri. Non potevano lasciarsi
sfuggire un occasione del genere. E così Merichi ordinò ai suoi uomini di
impadronirsi di quel paese. Un grido acuto, e subito dopo gli uomini discesero dalla
collina ed andarono all’assalto. Questa volta non ci fu bisogno di ricorrere alle armi
d’assedio. Una parte delle mura fu bombardata da frecce incendiarie, l’altra parte fu
semplicemente buttata giù a calci o a colpi di spade e mazze ferrate. Stessa sorte
toccò alle torrette. Gli abitanti del villaggio tentarono una vana resistenza, con armi
rudimentali come forconi, accette, falci e seghe, ma fu tutto inutile: nel giro di pochi
secondi furono tutti sbaragliati dall’esercito invincibile. <<Fermiamoci qualche
giorno a riposare e a rifocillarci con quest’ottimo cibo, dopo di che riempiremo le
nostre borse con tutto ciò che riusciamo a prendere e partiremo per la prossima
battaglia!>> Urlò Merichi, ed i suoi uomini gli risposero con grida di approvazione,
alzando al cielo le loro armi in segno di vittoria. Ma ad un tratto sentirono una voce
tetra provenire dal sottosuolo: <<Sono lo spirito di questo bel paese. Vi è piaciuto
prenderne possesso? Bene, da questo momento siete i miei nuovi residenti, avete
appena instaurato un legame indissolubile con me, con questo paese. Potrete
raccogliere i suoi frutti, potrete allevare gli animali, ma non potrete più andare via
da qui! Resterete in questo paese per sempre!>> Merichi e i suoi uomini si
guardarono sbalorditi, come per chiedersi se non avessero sognato, poi andarono
verso l’esterno del paese. Ma giunti sulla linea del confine, dove prima c’era la
staccionata, un muro invisibile impediva loro di passare. Provarono in tutti i modi a
superare quella barriera, la colpirono con le loro armi, provarono a passarci da sopra
con delle scale, o da sotto scavando delle buche, ma fu tutto inutile. Presto si
dovettero rassegnare a dover vivere lì per sempre. E così passarono dieci anni.
Impararono a fare i contadini e gli allevatori, e il loro compito fu molto facile, perché
quella terra non chiedeva altro che essere seminata e dare i suoi frutti, e gli animali
crescevano pasciuti e sani grazie alla verde erba e al foraggio che c’era lì.
Mangiavano sempre a sazietà, effettivamente non gli mancava niente. Già, cosa gli
mancava? Se lo chiedeva spesso Merichi, che come oggi, spesso passava ore ed ore
a vagar con la mente e porsi domande. Anche lui ne era consapevole: niente, non gli
mancava niente. Forse solo la voglia di combattere ancora, di sentirsi forte, libero
giovane… vivo. Di guardare negli occhi il nemico, sentire l’adrenalina scorrergli nelle
vene, godere nel vedere le mura sgretolarsi, e gli ultimi nemici cadere sotto la sua
possente spada, quella stessa spada che oggi era appesa ad un chiodo. Ma, a parte
questo, non gli mancava niente.
Nel treno di notte
Correva veloce il treno sul suo percorso già segnato. Corri treno, corri, fammi
raggiungere casa mia. Mezzo assonnato, guardo fuori dal finestrino. Vedo mille luci
lontane attaccate l’una all’altra, come tante lucciole che giocano insieme. Qual è la
città che sto guardando? Dove sono in questo momento? Ma tutto poi scorre veloce
all’indietro, e quelle luci diventano sempre più spente, fino a scomparire. Nel cielo
una bianca luna, che talvolta si nasconde nelle nubi, è l’unico punto di riferimento,
immutabile nel tempo, immune a quel generale scorrere all’indietro. Ora mi sembra
di vedere degli alberi, in lontananza, e chissà quali altre cose intorno, ma è troppo
buio per scorgerle. Intorno a me tutti stanno già dormendo profondamente. Forse è
meglio seguire il loro esempio, per far scorrere più veloce il tempo. Dai, ancora
poche ore e sono a casa. E chiudo gli occhi… mi sembra di veder e sentir immagine
confuse, come realtà che si fondono tra loro e… riapro gli occhi! Quanto tempo è
passato? Fuori è ancora buio, la solita luna, punto fisso nel cielo, e poi tutto il resto
che scorre all’indietro. Sento i rumori del treno che corre, il cigolio dell’acciaio che
rotola sull’acciaio. Corri treno, corri, vai avanti, non ti fermare, che voglio tornare a
casa mia. Dentro la cabina è tutto come l’avevo lasciato, la gente che dorme, le
valige appoggiate sugli scomparti superiori, le porte serrate… a guardare lì sembra
che il tempo si sia fermato. Riproviamo a dormire, almeno il tempo andrà avanti di
nuovo. Sposto la testa fino ad una posizione comoda, mi concentro sul rumore del
treno, sulla sua velocità, e mi immagino di essere su una nave, che allegra mi
conduce tra le braccia di Morfeo. E chiudo gli occhi, di nuovo. E di nuovo immagini e
suoni confusi… chi era quella, mia madre? Che razza di oggetto è quel coso strano?
Ma tutto ciò è paradossale! Cos’è questa voce che mi chiama, ce l’ha con me? E
vedo ancora oggetti strani, ma non riesco a concentrarmi più perché c’è ancora
quella voce, che mi chiama. Ma chi è? Che vuole? E poi capisco e mi sveglio. Era il
controllore, che mi chiedeva il biglietto. Quasi in dormiveglia, apro il borsello, lo
prendo e glielo mostro. Lui controlla la data e la corsa, poi lo schiaccia con quel coso
lì simile ad una spillatrice, me lo restituisce e se ne va. Ancora mezzo assonnato,
riguardo fuori dal finestrino. Questa volta non è più completamente buio. Non è
spuntato ancora il sole, ma la debole luce dell’aurora mi permette di vedere il
paesaggio circostante. Vedo un bel lago, immerso in un cespuglioso paesaggio. Il
tutto è reso più bello dalla debole luce dell’aurora, che gli dona un tono quasi
rossastro. Mi sembra quasi d’esser lì fuori, in piedi, a braccia aperte, ad ammirare
quel paesaggio, solleticato dalla brezza mattutina. Strano, la sento davvero una
leggera brezza che mi solletica, è così forte la mia immaginazione da farmela sentire
sul serio? Ah no, è solo l’aria condizionata del treno! E poi anche quel laghetto
scorre via all’indietro, ormai è solo un puntino lontano, presto invisibile ai miei
occhi. Dove sono? Quanta strada abbiam fatto mentre ho dormito? La cabina
intanto ha preso vita, e non solo essa, ma tutto il treno: gente sveglia, sorridente,
che passeggia nei corridoi o porta giù la sua roba perché presto deve scendere.
Passa anche il carrello della colazione, con l’uomo che suona a ritmo una campanella
e alternativamente grida: <<Caffè, cappuccino, cornetti!>>. Scambio due parole con
qualcuno, poi esco fuori e cammino un po’. E intanto stiamo per arrivare ad una
stazione, guardo cosa c’è scritto sul cartello e… caspita! Sono quasi arrivato,
mancano poche fermate alla mia. La luce si fa di un celeste sempre più intenso, i
primi raggi del sole sono già spuntati da un pezzo dietro l’orizzonte. Tutto scorre
indietro veloce come sempre, e ci lasciamo alle spalle pure le altre stazioni, dove
numerose persone scendono dal treno e altre vi salgono. Dai manca poco, fra un po’
sarò a casa mia. Mi preparo, scenderò a breve, questione di minuti… ed infine il
treno frenò, e si aprirono le porte alla mia fermata. Contento d’esser arrivato,
scendo e scruto intorno alla ricerca di volti familiari.
Il cardellino esce dalla gabbia
Era una bella giornata di primavera. Fuori gli alberi erano tutti in fiore, ed il sole
ormai cominciava a farsi sentire. Io ero al computer, quando ad un tratto sentii un
dolce cinguettio alle mie spalle. Era il mio cardellino, chiuso in gabbia, che mi
guardava con occhi dolci ed espressione quasi sorridente, per quanto avere un
becco ti potesse dare la possibilità di sorridere. Cip Cip, fece ancora. Oh tenero
cardellino, che crudeltà tenerti in gabbia in una così bella giornata di primavera. E
così aprii la gabbia e lo presi tra le mai, tenero come non mai. Poi aprii la finestra, e
lo lasciai libero di volare. Prima di andare si voltò, sorridente, quasi per ringraziarmi.
Cip Cip, fece di nuovo, e poi volò via. Non perdere tempo, caro cardellino, vola! Vola
lontano, sopra le nubi, sopra un aeroplano. Guarda il mondo da lassù, nel suo
complesso, così piccolo e strano. Visita luoghi che mai hai sperato di vedere,
sfrecciando lassù come un lampo. Incontra le varie genti e gli altri animali, cibati dei
frutti più buoni che qui da noi non ci sono. Vola, vola lontano, oh tenero cardellino…
Ma il clima cambiò di colpo. D’un tratto spuntaron dal nulla nuvoloni neri, e il vento
si alzò, forte come non mai. Poi un lampo lontano, e qualche secondo dopo, secco, il
rombo del tuono, un rumore di morte. Poi si aprì il cielo, e giù acqua a non finire.
Goccioloni grandi come chicchi d’uva trasformarono presto quel paesaggio
primaverile in uno di autunno inoltrato, se non fosse stato per gli alberi in fiore non
ci sarebbe stata differenza. I lampi continuarono ancora, e con essi gli immancabili
tuoni, sempre più cupi, sempre più vicini, ed al loro rumore era alternato il
fischiettar tetro del vento, come una dolorosa litania, mentre le strade pian piano
trasformarono in fiumiciattoli. E pensai a qual cardellino, che io avevo fatto uscire,
da qui, dov’era al sicuro; prigioniero, sì, ma al sicuro. Come stava ora, lì fuori, in
mezzo ai lampi, al vento e a questa pioggia infinita? Durò qualche ora, quell’inatteso
diluvio, poi tornò il sole, che illuminò ed asciugò il paesaggio. Ma io ero in pena per il
cardellino, e uscii per cercarlo. Non che fossi molto speranzoso, perché chissà
dov’era ormai finito, ma contro le aspettative non dovetti cercare molto. Infatti era
solo a pochi isolati da casa mia, a terra, morto stecchito…
A volte è meglio lasciar le cose come sono!