Nei chiodi e nel legno

Nei chiodi e nel legno
la tua gloria
di uomo a metà.
Una corona
pesante da portare.
Un Amore
rifiutato e deriso.
I fratelli
che ti hanno tradito
per paura.
Solo un sorriso
dolce
di donne
sotto la Tua Croce.


Lalle

Era uno di quei vecchi-non vecchi di cui sono pieni i piccoli paesi di campagna : sembrava un uomo anziano, per il suo passo lento e vacillante, l’occhio spento, per tutta la figura nel suo insieme e per tanti piccoli particolari.
Gli avresti dato una settantina d’anni e, invece, parlando con lui, quando si poteva farlo nei rari momenti di lucidità, ti diceva che, poi, tanto vecchio non era, anche se i cinquanta li aveva ormai passati da un pezzo.
Non era sposato. Nessuno sapeva perché; e nessuno, del resto, se ne stupiva perché era difficile immaginare Lalle nelle vesti di un giovane innamorato; tutti, ormai, lo conoscevano così, con la barba grigia incolta e mal rasata, il cappellaccio messo in sbieco sulla testa, i pantaloni di velluto, che portava d’estate e d’inverno, larghi sugli scarponi sudici e consumati; ed ognuno affermava convinto di averlo sempre conosciuto in quel modo, senza età, quasi fosse nato vecchio, vissuto vecchio e destinato a rimanere così per l’eternità.
Anche il suo vero nome nessuno, ormai, se lo ricordava più, per tutti era Lalle, un nomignolo la cui origine si perdeva anch’essa nel ricordo.
Abituato da sempre ad essere solo, si era organizzato nei lavori domestici riuscendo ad accudire egregiamente a se stesso e, finché era vissuto, all’unico essere vivente cui, a detta di tutti, fosse veramente affezionato : Parigi, un bastardino a quattro zampe, un incrocio tra un cocker e un “non si sa bene cosa”, con il pelo arruffato, magro ma sempre pulito, che seguiva il suo padrone dappertutto, trotterellandogli dietro con la lingua penzoloni e gli orecchi bassi.
Formavano una strana coppia, il vecchio e il cane : entrambi malmessi, con quell’apatica rassegnazione negli occhi che li rendeva uguali e un modo particolarissimo di dialogare fatto di bestemmie e di ululati.
Quando Parigi morì, qualcuno disse che Lalle aveva pianto, ma nessuno ci credette, e chi aveva provato un po’ di pena per lui, non appena lo vide passare per la strada del paese fischiettando, con quel suo cappellaccio messo di traverso e con la balla che conteneva il cane buttata su una spalla, affermò che la pietà era inutile per chi non provava dolore.
Dopo, tutto fu come prima nella vita di Lalle, solo una cosa cambiò : la padrona di casa lo sfrattò e lui andò ad abitare in due stanzette all’ultimo piano, quasi una soffitta, che il prete gli dette per carità.
E cominciò ad ubriacarsi.
La cosa, all’inizio, non dette nell’occhio. Che Lalle la sera “alzasse un po’ il gomito” nell’unico bar del paese, lo sapevano tutti. Ma, da un determinato giorno, ci si accorse che era ubriaco anche di pomeriggio. Poco tempo passò e lo si vide traballare la mattina. Infine, diventò normale vederlo ubriaco fradicio tutto il giorno. Ma la sua era un’ubriachezza lucida che gli permetteva di fare piccoli lavori, tenere la casa, fare la spesa, insomma, vivere , anche se la gente, quasi senza accorgersene, parlando con lui, assumeva un tono di ironico disprezzo.
E il tempo continuava a passare.
Qualche viso acquistava nuove rughe, molte teste diventarono più bianche, i giovani cominciarono a lasciare il paese per trovare lavoro altrove e vendettero le loro case ai turisti; al paese rimasero i più anziani.
Tutto cambiava, solo Lalle restava uguale con le sue scarpe informi, i suoi pantaloni unti, le sbornie, la barba sempre più grigia, più arruffata e più lunga. Per lui ogni giorno era uguale all’altro; ormai aveva fatto l’abitudine alle carognate del suo prossimo e si mostrava indifferente a tutto. O almeno sembrava…
Finché un giorno qualcosa cambiò. Nella sua vita vuota di uomo solo, senza legami né affetti, capitò un giradischi. Un vecchio giradischi con il piatto rotante, su cui porre i dischi in vinile, il braccio e la puntina di lettura.
Le cose andarono così. Di solito, per campare, faceva dei lavoretti un po’ qua e un po’ là, e un giorno d’estate fu chiamato da una famiglia che veniva in paese a trascorrervi le vacanze, per dare un’imbiancata ad una stanza. In quell’occasione fu incaricato di disfarsi di un po’ di cose vecchie, tra le quali trovò l’apparecchio, ormai rotto e inservibile.
Lalle buttò tutto ma il giradischi no, lo guardò bene, ci pensò su e se lo portò a casa.
La sera lo mise sul tavolo di cucina e per un po’ stette ad osservarlo; poi lo ripose da una parte, dopo averci passato sopra più volte lo strofinaccio.
Così per diverse sere.
Alla fine si decise : prese l’apparecchio, lo collocò nel mezzo del tavolo, tirò fuori un cacciavite e cominciò a lavorarci.
Per tutto l’inverno il giradischi fu il suo passatempo e la sua compagnia. La sera, dopo cena, quando il tempo era così inclemente da non permettergli di uscire, Lalle vi si affaccendava intorno e, alla fine, dopo tanto lavoro, il giradischi funzionò.
Allora, il vecchio andò a riesumare due vecchi dischi che possedeva da sempre e cominciò ad ascoltarli, in silenzio e, mentre la musica fluiva nella casa, un torrente di gioia lo inondava.
Ritornò l’estate e, con le finestre aperte, il suono di quei due unici dischi si propagò anche fuori. Il vicinato cominciò a brontolare. Magari fosse stato un altro si sarebbe potuto chiudere un occhio, in questo caso gli orecchi, ma lui era Lalle, scorbutico e brontolone, e non si voleva. Inutilmente, i vicini, avevano tentato di farlo smettere, almeno in alcune ore, invocando il diritto alla pennichella, parlando del riposo di vecchi e di bambini; lui mica ci faceva caso! Senza darsi neppure la pena di chiudere la finestra, ascoltava fino alla nausea quelle quattro uniche canzoni. A volte si nascondeva dietro gli scuri e guardava soddisfatto gli effetti di quella sua testardaggine.
Alla fine, dopo vari conciliaboli, si decise di intervenire.
Una finestra della sua casa si affacciava, all’altezza di un paio di metri da terra, su un vicolo buio e senza sfondo, dal quale nessuno passava. Un giorno che Lalle non c’era, due robusti giovanotti entrarono dalla finestra che aveva le ante accostate ma non chiuse (Lalle non le chiudeva mai, a modo suo si fidava della gente) e con un martello sfasciarono tutto, dischi compresi. Poi, sempre dalla finestra, uscirono.
A sera il vecchio tornò a casa e vide…
Cominciò a borbottare parole incomprensibili, poi urlò la sua rabbia e il suo dolore, ma quando si accorse che, dalla terrazza di fronte, qualcuno spiava la sua reazione, chiuse le imposte. E così, al buio, guardando lo scempio e toccando i rottami, sentì un gran vuoto dentro e, mentre imprecava e bestemmiava, pianse.
Ma, poco dopo, col cappellaccio grigio di feltro calato sugli occhi, il solito passo traballante, la sua barba grigia, e un sacco sulle spalle, uscì di casa.
Al ritorno fischiettava.


da “Storie del Bosco”: La regina Zelinda

C’era una volta una tela di ragno che la pioggia aveva disseminato di gocce luminose come brillanti.
Il piccolo ragnosarto la cuciva senza sosta; erano giorni e giorni e giorni che lavorava freneticamente: con un filo di seta attaccava alla tela le perle d’acqua; rifilava l’orlo con i lumi delle lucciole, cospargeva il manto con i puntini neri delle coccinelle.

Finalmente il lavoro fu finito.
La sera stessa la regina Zelinda doveva indossare l’abito per il grande corteo del primo giorno di primavera.
Venne l’ora tanto attesa da tutti i piccoli animali del bosco.
Per prima sfilò la banda: grilli, pettirossi, rane, guidati con la lunga coda da un topolino bianco, creavano un’allegra sinfonia con i loro strumenti diversi.
Poi passarono, impettite, le piccole bisce di bosco, ancora tanto giovani e un po’ emozionate perché era la loro prima sfilata, seguite dai ragni davanti ai quali, al posto d’onore, c’era il sarto personale della regina.
Dietro venivano le formiche, in schiere ordinate, segnando il tempo, e sorvolate a bassa quota dalla squadriglia acrobatica delle mosche.

Finalmente apparve il cocchio reale. Lo scarabeo dai riflessi blu aveva leggermente aperto le sue ali d’oro a formare una coppa nella quale, sulla piuma della gola di un’oca rosata, era adagiata la Regina.
Era molto bella la Regina. Aveva margherite gialle sui capelli, lavati con il miele delle api, il viso candido come la pelle dell’orso; la cavalletta le aveva prestato un’ala perché la usasse come ventaglio.
Il manto la copriva dalla testa alle numerose zampette, alle estremità delle quali portava minuscole scarpe fatte di alga di mare. In testa, tra le margherite gialle, aveva la corona di madreperla. Ogni tanto muoveva piano il suo ventaglio.

Tutti applaudivano, pure la cavalletta anche se, per il momento, aveva un’ala sola.
Dietro, allegri ma composti, seguivano gli animali del bosco, in ordine di grado e di anzianità: gli scarafaggi neri come la fuliggine, i vermicelli candidi, le lucertole, le api che, con pennelli e secchi di miele, scrivevano dappertutto frasi festose.
Per ultima veniva la squadra che, nel pomeriggio di quello stesso giorno, aveva sconfitto gli avversari, diventando campione del bosco in primavera: le cicale che, in attesa della loro attività estiva, si divertivano partecipando ai vari tornei del bosco e che, quella stessa sera, avrebbero ricevuto l’ambito premio, il pinolo d’oro, dalle mani della Regina Zelinda.

Arrivato al palazzo reale, tra due ali di folla, il corteo si fermò; la Regina scese dal cocchio, salutando graziosamente i suoi sudditi, ed entrò nella sala dei ricevimenti.
Dietro di lei entrò il suo popolo.
La festa continuò per tutta la notte…..

….il mattino seguente ognuno riprese la propria attività: si riaprirono le botteghe dei sarti dove laboriosi ragni preparavano le tele che poi avrebbero venduto alle graziose dame del bosco; si riaprirono i forni nei quali le abili cavallette trituravano il grano, i vermicelli lavoravano la farina mentre le formiche sistemavano i prodotti in grandi dispense e le api preparavano dolcetti di tutti i tipi, famosi tra gli abitanti della zona.

Tutte le mosche erano rientrate nei loro alloggiamenti presso i vari aeroporti di provenienza, dove avevano già ripreso gli allenamenti quotidiani.
Gli scarabei, nelle autorimesse cittadine, lustravano ali e carrozzerie, in attesa dei clienti che li noleggiassero.
Ma la sera la festa si ripeté, con la banda e il corteo, e fu così per tutte le notti di primavera…..
….Anche oggi, in questo periodo, se andiamo nel bosco di notte, vediamo risplendere, qua e là, i fuochi accesi dai sudditi della Regina Zelinda, vediamo brillare le lucciole del suo manto, sentiamo la musica della banda dei grilli e, avvicinandoci un po’ di più al fungo reale, possiamo udire il clamore della festa e vedere i sontuosi abiti delle dame.
Ogni notte…in primavera…quando il vento soffia leggero, carico di canti e di profumo….