Il nido

Sono seduto nel cortile di casa guardando la gatta che sta giocando con qualcosa, mi avvicino per capire cosa aveva fra le zampe, era un uccellino morto.

Una zampata a destra e un’altra a sinistra, su e giù, lo stava tormentando nonostante fosse morto, non capivo il senso di quel macabro gioco. Perché tanta crudeltà? Lo aveva catturato per mangiarlo, allora perché lo tormenta?

Continuai a guardare quel poveraccio e quella violenza senza senso, o almeno lo era per me. La gatta continuava nella sua indifferenza verso la mia presenza e perplessità: una zampata a destra ed un’altra a sinistra. Lo gettava su, lo sbatteva giù.

Notai che ad ogni colpo l’uccellino perdeva qualche piuma, allora pensai: non sarà per caso il metodo che usano i felini per spennare i volatili? Non so perché mi sia venuta quella idea e non so se gli animali facessero così, ma probabilmente cercavo di dare un senso a quella atrocità, a quel gioco…

 

Abitavamo alla periferia di Betlemme, c’erano ancora poche case e c’era molta campagna. Avevo tredici o quattordici anni, non mi ricordo di preciso ma ricordo bene gli amici, tutti suppergiù della stessa età. Il nostro gioco preferito era andare in giro per la campagna.

La campagna per noi era quella terra ancora libera da case dove noi potevamo correre, lontano dalla strada e dalle poche macchine. Di tutto il tempo che passavano era quello che ci piaceva di più: era un grande orto, dove c’erano alberi di mandorle, limoni, uva e nespole. C’erano molti muretti di pietra di altezza varia, si andava da circa un metro ai due metri e mezzo circa, eravamo tutti armati di fionda: grandi cacciatori, ma per la verità abbiamo avuto sempre poca fortuna a caccia, e quelle poche volte che avevamo avuto fortuna nel cacciare qualcuno, era stato un trionfo indescrivibile. Lo tenevamo fra le mani quasi tutti insieme e tutti tremanti dalla gioia e forse dalla tristezza di quel uccellino indifeso e cosi bello.

Lo portavamo a casa del cacciatore che lo aveva abbattuto, tutti assieme come in una processione: «guardate cosa abbiamo preso! E’ stato Samir, ha preso la mira e boom!».  L’uccellino non ebbe scampo: lo ha aspettato sotto l’albero senza fare rumore, neanche un sospiro, per un attimo è rimasto senza respirare perché gli uccellini hanno un magnifico udito ma Samir era più furbo: boom e per lui non ci fu più scampo.

Eppure quando mi è capitato di uccidere un uccellino, quando miravo con la mia fionda con la pietrina dentro pronto a fare fuoco, ero in silenzio senza poter respirare dallo spavento di poterlo colpire.

Era una festa: quel uccellino doveva sfamarci, quel bocconcino di carne magra, sembrava dovesse sfamare una tribù.

Ma il nostro divertimento vero: era correre, mangiare, rubare qualche mandorla o qualche acino di uva, ma soprattutto saltare i muretti di pietra.

La sfida: saltare i muretti. Si iniziava dai più bassi a quelli più alti ,e spesso ci facevamo male, ma era fantastico: saltare sempre dai muretti più alti, e davanti agli amici nessuno poteva sottrarsi alla sfida, costi quel che costi!

Ma la nostra avventura non finiva lì: c’era ancora una sfida peggiore e più divertente: scappare dal guardiano.

Perché quell’ orto era custodito da un contadino, un signore di una certa età, credo che non avesse meno di sessanta anni, ma era forte ed agile. Quando ci vedeva, per fortuna veniva poco all’orto, cominciava ad insultarci e minacciarci: noi correvamo più veloci del vento.

Quello era il nostro gioco più bello.

Tutte le sere, o quasi, la stessa avventura.

Finché una sera… Avevamo appena terminato la nostra sfida nel saltare i muretti ed eravamo seduti a mangiare dell’uva fresca e succosa, quando ci è comparso all’improvviso il guardiano che cominciò a urlare e mandarci le sue maledizioni. Cominciammo a correre come il vento e forse di più e lui dietro urlando e bestemmiando, eravamo a cinque metri dal muretto che ci separava dalla strada, quando sentimmo il cinguettio di un uccellino sotto un albero. Ci guardammo spaventati e meravigliati: “sarà un uccello ferito?”. Abbiamo usato la fionda prima e magari avessimo colpito qualche uccellino senza renderci conto, come rinunciare a quel trofeo e al ricevimento da grandi eroi che avremmo avuto al nostro rientro a casa…

Il guardiano era poco distante da noi, meno di ottanta metri: “e se ci acchiappasse?” .

Al pensiero tremavamo ma eravamo tutti alla ricerca di quel trofeo.

«Eccolo! L’ho trovato! “. Era la voce dell’amico Salem.

Ci avvicinammo tutti: era un uccellino piccolissimo. Era caduto dal nido sull’albero. Cinguettava. Era spaventato quanto noi.

Ci siamo guardati e tutti concordavamo: bisognava rimetterlo nel suo nido, dalla sua mamma. Il guardiano era sempre più vicino, sentivamo il suo fiato sul collo.

Salem prese l’uccellino: «andiamo via, lo riporteremo domani».

Continuammo la nostra corsa fino a casa di Salem che era dall’altra parte della strada, vicino a casa mia. Stavamo ansimando, non per la corsa fatta ma per l’uccellino che continuava a cinguettare.

La madre di Salem disse: «ecco i grandi cacciatori, siete già rientrati?».

Salem rispose: «madre guarda», estese le sue braccia aprendo le mani e mostrando l’uccellino cinguettante.

«Che grande preda che avete preso!»

Ridendo continuò: «avremmo a cena il mansaf* stanotte» proseguendo nella sua risata, e dopo aggiunse con gran serietà: «ma non lo vedete poverino? Dovevate rimetterlo nel suo nido».

«Volevo tenerlo con me stasera e domani lo riporteremo al suo nido».

«Allora stanotte gli farai da mamma!  Sembra che abbia fame e sete: dai dagli da bere e da mangiare altrimenti domani non ci sarà più».

Noi nel sentire queste parole ci siamo affrettati nel salutare il nostro amico, pensando al ruolo che deve assumere… Fare da mamma all’uccellino?! Non ci tenevamo ad essere coinvolti. non avevamo esperienza di queste cose!

«Allora, metti un po’ d’ acqua nella tua bocca e metti il becco dell’uccellino dentro affinché così lui possa bere, e dopo prendi un pezzo di pane, masticalo bene e rifai la stessa cosa».

Salem rispose: «io devo fare questo? Ma come…?».

«Lo hai portato tu e allora occupatene fino a domani, adesso adagialo da qualche parte e vai a lavarti le mani che la cena è pronta “.

Le sorelline che si erano avvicinate per ammirare l’uccellino e il suo cinguettio, dopo qualche minuto si erano allontanate, visto che l’uccellino non camminava ne volava ma continuava a lamentarsi, lasciando Salem immerso nei suoi pensieri da mamma.

Durante la cena non c’era verso di calmare quel essere minuscolo, il suo cinguettio era diventato insopportabile, ma lui non voleva saperne e continuava a lamentarsi.

Salem: «ma perché non sta zitto?».

La madre rispose: «perché vuole la sua mamma, vorrebbe tornare dove era».

«Ma lo riporterò domani, perché non capisce?»

Lo teneva stretto a lui, gli parlava: «calmati, domani te lo prometto appena mi sveglio ti riporto al tuo albero».

Niente, continuava a cinguettare. Erano a letto, tutti nella stessa stanza, l’unica stanza che c’era.

«Fallo stare zitto, vogliamo dormire se no lo butto fuori io!» gridò il padre.

Salem che teneva nelle mani questo rompicapo si spostò fino alla porta di ingresso, e visto che quello continuava a cinguettare e tutti, compreso Salem, erano morti dal sonno, uscì fuori piano piano senza farsi sentire.

La luna era piena e le stelle brillavano rendendo la notte quasi giorno.

«Basta attraversare la strada, l’orto è dall’altra parte, ci vogliono al massimo cinque minuti, lo metto nel suo nido e nessuno se ne accorgerà!».

Il quartiere fu svegliato all’improvviso dal suono di una raffica di colpi di mitra e dalle urla di una donna.

La madre di Salem fu svegliata da quella raffica di colpi e dal grido di dolore di un ragazzo. Non trovando Salem sulla stuoia e non sentendo il cinguettio… cominciò a correre verso gli spari, il marito e la gente del quartiere erano armati di bastoni e pietre dietro di loro.

«Alt! Alt! Non vi avvicinate, se no spariamo! ».

I rinforzi non arrivavano e i soldati cominciavano ad avere paura.

La madre avanzava senza prestare alcuna attenzione a quelle parole e alla gente dietro di lei.

I soldati scapparono come conigli sotto i colpi dei sassi e le urla della gente inferocita.

Il corpo di Salem era accanto al muretto, sotto l’albero dove posava prima l’uccellino.

Era tutto una macchia di sangue.

Lo avevano ucciso.

Lo accusarono di essere un terrorista in procinto di attaccarli.

Aveva ancora l’uccellino in una mano che cinguettava ancora…

La mamma lo strinse forte a se…cercava di svegliarlo, gli parlava: «alzati, andiamo a dormire a casa… Perché sei venuto qui? Non potevi aspettare domani… “.

Vidi quella piccola creatura nella mano del figlio, come se fosse in un altro mondo, in un altro mondo… lontano dagli sguardi della folla.

C’era solo lei.

Prese il passerotto e cercò di rimetterlo nel suo nido ma questo non c’era più, era tutto sparpagliato sotto l’albero e accanto al figlio. Era caduto sotto i colpi di mitra.

Abu Salem prese fra le sue braccia il corpo del figlio fra i lamenti delle donne e le grida di martirio dei ragazzi, anche lui con le lacrime di dolore che gli coprivano la vita, anche lui mi sembrava in un altro mondo, anche io lo vedevo annebbiato.

Um Salem adagiò l’uccellino cinguettante ancora al suo petto come fosse un neonato, e come per magia questo si quietò e smise di cinguettare. Sembrava stesse dormendo, e beati sogni facendo.

 

Sono ancora seduto nel cortile di casa mia, e sento l’eco del lamento disperato di una madre e il cinguettio di un uccellino che vorrebbe dormire nel suo nido.

 

*mansaf è una pietanza araba a base di carne cotta nello yogurt, accompagnata da riso cosparso di mandorle e pinoli tostati.


Un matto di nome Abu Hassan

Oggi non riesco a togliermi dalla testa Abu Hassan.

E’ più forte di me.

Una tempesta che mi sbatte da una parte all’altra, una pioggia che mi sta bagnando, annegandomi; un ricordo che mi brucia il cuore, l’anima e il cervello.

Abu Hassan vuole che vi parli di lui, insiste…lo desidera, Abu Hassan, ed io oggi voglio accontentarlo, gli faccio un regalo: vi parlo di lui.

 

Abu Hassan era un pazzo. Sì, un matto rinchiuso nel manicomio di Betlemme, quel manicomio dove andavamo a divertirci – eravamo ragazzini di 14-15 anni – quando eravamo annoiati. Il pallone di plastica che usavamo per giocare a calcio era rotto, allora c’era il manicomio; sì era bello vedere i matti perdere la ragione.

E noi eravamo bravi a farli diventare pazzi, ma pazzi veramente, a seconda della giornata e spesso dall’umore e da quale pazzo c’era!

La prima parte della struttura nosocomiale si affacciava sulla strada principale, dalla quale era divisa da un muretto alto circa un metro, che circondava un bel giardino e una villetta di tre piani, mi sembra. C’era qualche albero di pino, dove ogni tanto cercavamo di cacciare con la fionda gli uccelli, soprattutto le colombe selvatiche che osavano posarsi lì. Quella per noi era la casa del medico, separata dal resto della struttura nosocomiale vera e propria da un muretto alto qualche metro.

Chi teneva in ordine quel giardino? Erano i pazzi, che zappavano, pulivano, annaffiavano, insomma: era tutto sulle loro spalle (naturalmente gratis, per tenerli in forma!). Erano i pazzi buoni, non pericolosi, ma a renderli tali, ci pensavamo noi. Ci mettevamo sul muretto e cominciavamo a infastidirli:

«Oh matti…scemi…imbecilli!…».

Aspettavamo la reazione, godendo impauriti ma decisi: qualcuno ci faceva un segno di minaccia, qualcuno qualche ghigno, qualcun altro ci lanciava una pietra senza tanta convinzione. Questo ci incoraggiava a passare alla seconda fase: lanciare le pietre e preparasi alla fuga, a seconda del pazzo che c’era. Li conoscevamo, sapevamo chi era veloce, chi era bravo nel tirare le pietre, insomma sapevamo cosa ci aspettava e studiavamo il piano di fuga. La zona era poco abitata, c’era poca campagna, con alberi ma anche piante spinose, vie chiuse con recinti; ma con l’esperienza conoscevamo bene la zona, anzi conoscevamo ogni sasso, roccia, perfino il numero delle spine che potevano pungerci…Era bello correre, vederli perdere la testa e seguirci come matti; scappavamo, correvamo come gazzelle, saltavamo da un recinto all’altro, eravamo veramente veloci e diventavamo ancora più veloci quando ci sfiorava il pensiero di poter cadere nelle mani di quei pazzi che ci inseguivano! Per fortuna ci andava sempre bene o quasi; qualche sassata l’avevamo presa e anche qualche calcio.

Abu Hassan invece stava dalla parte opposta del manicomio, dove c’era un muro più alto e un cancello di ferro alto e arrugginito. Raramente i matti potevano avvicinarsi a quel cancello, in quanto era loro impedito dal personale, ma qualche volta si avvicinavano per chiedere una sigaretta a chi passava per la strada o si avvicinava al cancello a curiosare. Chiedevano sempre sigarette; non ho mai capito perché i matti chiedono sempre sigarette, e quanto fumano!

A quel cancello abbiamo conosciuto Abu Hassan; era rinchiuso nel manicomio perché era pazzo, sapevamo solo questo e per il resto non ci fregava niente di lui; volevamo divertirci e lui ci faceva divertire: era il nostro professore di Storia! Bastava dargli un pezzo di giornale, rivista, qualsiasi pezzo di carta sul quale fosse scritto qualcosa sulla bellezza, sui fiori, sulle creme…qualsiasi cosa per lui era storia, diventava una lezione di storia accompagnata da un tono da guerriero che metteva in noi tanto coraggio ed orgoglio, anche se non capivamo; o meglio, non sapevamo di cosa stesse parlando! Ad esempio, gli offrivamo un foglio su cui era scritto qualcosa sugli uccelli; lui lo prendeva avidamente, con la bava che cominciava a colargli dalla bocca e gli occhi gli si infiammavano, di colore rosso-arancione come il fuoco. Noi eravamo attratti come da una calamita e lui cominciava: «L’altro giorno, per l’esattezza il 09/04/48, quei figli di cane dei sionisti hanno attaccato Deir Yassin: un nuovo massacro contro il popolo palestinese. Hanno ammazzato innocenti che dormivano in pace, hanno decapitato bambini, vecchi, hanno squarciato la pancia delle donne ed estratto feti, hanno portato le teste decapitate come trofeo, dicono che hanno bevuto il nostro sangue fino all’ebbrezza, questi sionisti assassini. In nome di Dio hanno commesso il loro delitto, e noi non siamo figli di Dio?! E…e…e…»

Smetteva quando la faccia era una maschera di lacrime, quando non riusciva a vedere quello che stava leggendo.

E noi eravamo lì a maledire i sionisti e a ridere della pazzia di Abu Hassan, ma ci tornavamo spesso con altri fogli e lui leggeva:

«Oggi hanno occupato la Cisgiordania e Gaza, i nostri fratelli vigliacchi sono scappati e c’è una nuova ondata di profughi, di bambini profughi senza genitori, di vecchi scappati come tori sanguinanti feriti ed umiliati. Gli arabi promettono guerra ed Israele invita a scappare perché stanno per radere al suolo città e villaggi, stanno massacrando i nostri figli…».

Abu Hassan, mi manchi oggi.

A scuola non ci hanno insegnato la storia, ma a chi leggeva insegnavano quanto era fiera questa nazione araba e quanti cavalieri hanno riempito la nostra storia passata! E quanti “RE” amano Gerusalemme e stanno per liberarla, ma ci chiedono di aver pazienza e, possibilmente, di non far arrabbiare Israele, perché così facendo è come se cercassimo il suicidio.

Tutto questo, non è contro la religione?

Se fossi qui, Abu Hassan, a sentire i dibattiti politici in televisione e vedere cosa scrivono i giornali, gli storici e i giornalisti, così fedeli alla verità..

Sono sicuro che avrebbe detto: «Ma questi sono matti…matti da legare, anzi da processare…è un crimine contro l’umanità!».

Ma loro ti avrebbero rinchiuso di nuovo.

Perché il matto sei tu!