Morti bianche

Lieve, odoroso
degli incensi della chiesa,
si posa
il mio pensiero assente
sulla brace cocente.
Fiamme vive e zampillanti
come sorgenti scintillanti
infestano le immagini
della mia mente stanca.
Tra le dita unte di petrolio
e scarnificate dal vento,
stringo un bicchiere
di vino rosso.
L’impronta della mia mano
disegna un fantasma strano.
I miei occhi ardono
di una febbre insolita
e le mie labbra bramose
segnano di rosso
l’orlo del bicchiere.
Di domenica non ho nulla
perché non ho il mio lavoro!
E per me è sempre domenica
perché io sono morto.
Non conosco più il conforto
del calore sulla pelle
ma ho idea dello strazio
che si sente
quando si toglie
alla pelle la pelle:
la mia bambina
ha quattro anni,
mia moglie fa
turni massacranti.
Mio figlio primogenito
ha un problema serio:
non mi ascolta, non può farlo,
sogno solo di gridarglielo
ogni istante in cui mi manca
e di quella stupida paga,
non ci ho mai campato.
Era lui la mia aria,
tutto il mio sostegno
di quei giorni in piattaforma
tra un barile e uno sporco assegno.
Della mia vita
rendo conto solo
alla mia famiglia,
non ad una stupida piattaforma
costruita senza voglia.
Che è stata la mia tomba:
non conosco più
il sorriso di mio figlio,
le mie dita
non sfiorano più
il seno di mia moglie,
non odo più
la voce di mia figlia …
Ho pagato con la mia vita,
la mia vita. Al meglio
ho ucciso il mio tempo,
con il mio tempo.


Il mio maestro

Nella sanguinea venatura dell’alba moribonda
dissanguata dal primo fascio di luce dorata
riconobbi in quell’astro nascente
l’atteggiamento conciso e prudente
del mio maestro
e come il trionfo aspergente dal suo petto
quella vivida e ancora così timida sfera di vita!
Vidi depositarsi ai miei piedi un tappeto di foglie
lunari trafuganti l’argento più prezioso
della silente e solitaria dama della notte:
le più lontane ardevano avare del fuoco del cielo
e scricchiolavano tra le mie nude dita
reclamando forse l’autunno lontano!
Danzando tra di esse e squarciando i veli del tempo
ascesi al pallido volto
che sempre aveva illuminato
il mio corpo dall’interno,
consumando le pareti del mio cuore.
Aprendo bocca senza pronunciare suono alcuno
proferii tali parole:
“Maestro, tu che mi hai insegnato l’amore
sigillandomi il cuore con un bacio,
ora a te rendo questo alito di vita…
tu che hai fatto della pietra grezza del mio essere
rimodellandola con la tua esperienza
e così plasmandomi
uno splendido e prezioso diamante,
a te la mia essenza!
Sciogli i miei occhi
nel sogno di averti sempre con me;
permettimi di stringere
tra le pieghe della mia ferita anima
la consolazione del tuo fragile sguardo.
Tu mi hai insegnato a guardarmi dentro
e a cullare la colpa dell’esilio
del perdono di me stessa
e a trasformare il vuoto
inesorabile che è in me
in ciò che non immaginerò mai …
grazie
perché mi hai amata!”


Dalla tua pelle non trovo riparo

Dalla tua pelle non trovo riparo:
la stessa che si unge
delle mie lacrime avare
che hanno il sapore
di un vaporoso bacio;
dai tuoi occhi
non trovo riparo
e quel tuo sguardo
sottile e chiaro,
mi punge di infinita calma:
intanto naufrago
nel tuo tacito
assortimento
e nel mio cuore
ti costruisco
un castello;
dalle tue mani
non trovo riparo,
in cui mi stringi
in silenzio
come fossi un piccolo fiore
o un delicato fringuello;
dalla tua voce
non trovo riparo
che, come un asciugamano,
mi avvolge e mi dice
non sono lontano;
da passi vibranti e caldi
non trovo riparo:
se almeno non fossero
a me familiari,
io potrei, forse,
comprimere il tempo
in una manciata
di istanti
e fare in modo
che fossero eterni;
e sempre vivrei
quei minuti
infiniti
piuttosto
che una vita
intera!
No! Nessun inganno!
Nessun sotterfugio!
Fiumi di lettere
non servono a nulla!
Dalle tue labbra
rapisco un sorriso
e so che
se l’avessi
con te condiviso
tu mi avresti detto
così, d’improvviso,
che i mondi son tanti
e infiniti i discorsi
ma che uno solo
è il firmamento:
ed è quando io
ti guardo, splendendo …