I bambini del ’47

Adulti proiettati indietro nel tempo che immaginano il loro futuro (cioè il presente).
Immaginate di non essere bambini ma uomini adulti. Volete festeggiare il vostro vecchio Maestro e ne date notizia ad un giornale….

Spett/ le Redazione,
La presente per informarvi di un avvenimento che probabilmente non costituisce notizia ma che potrebbe essere oggetto di riflessione in quanto momento di vita a coronamento di cinquant’anni di esistenza sulla scia di ricordi d’insegnamenti ricevuti.

In un giorno dell’ottobre 1947, in un lungo stanzone di una casa di campagna dai colori sgargianti posta sulla statale 19 delle Calabrie, nella frazione Scalo di Montesano sulla Marcellana, venivano fatti sedere in banchi scolastici 63 bambini di ambo i sessi dai 5 ai 14 anni di età: era la prima classe della scuola elementare.
In fondo allo stanzone, dietro un massiccio tavolo, stava di fronte, in piedi, sopra una consunta pedana, un giovane molto alto e magro: era il Sig. Maestro Ciro Casaburi.

Di quei 63 scolari oltre quaranta fummo accompagnati fino alla quinta elementare da quell’Uomo meraviglioso dalle mani enormi, dal naso affilato, dalla voce tonante, ferma eppur suadente. Tutti (compresi quelli tra noi che per svariati motivi non lo ebbero come Maestro) nel corso degli anni lo abbiamo ricordato sempre con un grandissimo senso di gratitudine e di ammirazione. Per la sua serietà, la sua cultura, la sua signorilità, la sua onestà è stato per noi tutti un modello di vita da emulare.
Oggi, la maggior parte di quei 63 “bambini” del ’47 sono sparsi per il mondo: chi si trova nel Sud- Africa, chi in Canada, altri in Venezuela, Argentina, Germania e Svizzera; molti nell’ Italia settentrionale.
Nessuno di noi è divenuto un “grande” personaggio ma tutti siamo rimasti nell’ alveo della società civile portando dignitosamente il nostro contributo di uomini liberi ed operosi. Tutti possiamo camminare a fronte alta … e di ciò dobbiamo gran parte al nostro Sig. Maestro.

Oggi a cinquant’anni di distanza, quelli tra noi che siamo rimasti sul posto, intendiamo festeggiare quell’ Uomo di ottanta anni un po’ curvo, dalla falcata incerta ma dallo sguardo scrutatore sempre penetrante. Intendiamo dirgli “grazie” in maniera semplice ma, crediamo, gratificante donandogli una targa con questa scritta:

“Uomini liberi, che oggi percorrono le varie strade del mondo, a cinquant’anni da quando, ancor bambini, venivano presi per mano ed amorevolmente guidati alla scoperta della vita, dicono
a Ciro Casaburi
che mai l’hanno dimenticato e gli fanno giungere, sulle ali dei ricordi, un sommesso, affettuoso e sincero
grazie Sig. Maestro.
I Bambini del ‘47

Montesano Scalo 5 ottobre 1997

e tenendolo, insieme alla sua famiglia, con noi a pranzo.
Sarebbe bellissimo se potessimo riunirci tutti in quella circostanza… ma purtroppo ciò non è nelle nostre possibilità di realizzazione ma crediamo che i nostri compagni di scuola che si trovano lontano e che saremo riusciti a raggiungere entro il 5 ottobre p.v. si metteranno in contatto col nostro Sig. Maestro proprio quel giorno in cui lo festeggeremo.

Sarebbe bello (e ciò potrebbe essere possibile) se Voi faceste un breve servizio sulla vita del nostro Sig. Maestro. La cosa darebbe uno “spaccato” della vita infantile che si viveva in una frazione di campagna del Sud del Paese in anni immediatamente successivi ad un periodo difficile della storia.

Sarebbe bellissimo se potessimo ritrovarci e riassaporare
(seppure per un giorno) quel dolcissimo gusto di vita serena fatta di cose semplici. Sarebbe come rivedere un meraviglioso film in bianco e nero ove suoni e contrasti venivano dati da sentimenti, gesti e parole: ragazzi in pantaloni militari di taglia sempre troppo grande, muniti di toppe dietro e sulle ginocchia, arricciati in vita e quasi completamente sforniti di bottoni; giacconi enormi che sembravano camminassero da soli o giacchette troppo strette dalle maniche corte; ai piedi pesanti scarponi chiodati, legati con robuste stringhe di cuoio, ammorbiditi con grasso di animali o lucidati con “ cromatina Brill ”; ragazze con le treccine ben curate, con scialli di lana o lisi cappotti addosso.

Vedere in quel film gruppetti di ragazzi vocianti che si attardavano lungo i due chilometri di strada perché intenti a giocarsi gli ultimi bottoni che avevano potuto strapparsi dagl’indumenti o le monetine metalliche di due e quattro soldi o di mezza lira non più in corso legale. Rivedere quella strada diritta dal fondo ondulato macchiettato dai rattoppi di catrame, con le banchine ben curate interrotte da piazzole ove era ammucchiata la sabbia sistemata in forme geometriche perfette.

Rivedere quel vecchio treno a vapore che immancabilmente si fermava, sferragliando, al segnale sulla linea che correva parallela alla strada, i volti anneriti dei macchinisti, quelle nuvole di fumo acre spinte dal vento verso di noi, riudire quel fischio ritmato e discreto eppure così acuto, sentire ancora nelle narici l’odore del carbon fossile misto a quello del biancospino che cresceva copioso al di qua delle rotaie. Rivedere le ragazze giocare a “settimana” sull’asfalto tiepido al sole di maggio.

Rivedere quelle pozze d’acqua ghiacciata nei freddissimi mesi d’inverno e gli uccelli rifugiarsi nei fienili o tra i covoni di paglia mentre molti di noi avanzavano sulla neve gelata sorreggendo con cautela vecchi barattoli di latta, muniti di manici costruiti con filo di ferro, pieni di brace da portare a scuola ove veniva ammucchiata in un vecchio braciere perché rendesse quello stanzone meno freddo e per consentire, a turno, a ciascuno di noi, di riscaldarsi le mani intirizzite che non riuscivano a reggere il calamaio od a cambiare il pennino “ a Cavallotti” alla penna.

Rivedere il volto abbronzato e rugoso di “ mastro Giovanni “ Calvanese, il vecchio e bravissimo costruttore di carretti e birocci, che aveva la sua officina lungo la strada e che era luogo di quotidiana sosta di ciascuno di noi sia per ascoltare il seguito della precedente “puntata” di un racconto ( inventato di volta in volta da lui) che non finiva mai e sia per vedere la sua gazza ladra come ubbidiva ai comandi e quante ne faceva di tutti i colori.
Era bello ascoltare la voce profonda di quel vecchio soverchiata dai colpi ritmati dei martelli.
Era bello vedere come quel volto di vecchio s’illuminava quando ci sfidava a scrivere “chiechia puchiechia”(impresa, per noi,quasi impossibile) e come i suoi lunghi e bianchi baffi simili a lame scintillanti arrivavano alle orecchie in un largo sorriso quando rispondeva ad uno ad uno al saluto di ”buongiorno mastro Giovanni”.
Era bello vedere il ferro diventare sempre più rosso fino a confondersi coi carboni ardenti al soffio potente del mantice azionato a mano e poi le scintille che sprizzavano tutt’intorno.

Restavamo affascinati dal sincronismo perfetto dei due fabbri che alternativamente battevano i pesanti martelli due volte sull’incudine ed una volta, con più forza, sul ferro rovente da modellare.
L’azione diventava spettacolo e musica che coinvolgeva ed attanagliava.

Chi di noi, poi, potrà mai dimenticare quella figura che ogni mattina avanzava con incedere pacato e sicuro lungo il bordo della strada, avente tutt’intorno una frotta di bambini trotterellanti?
Ognuno di noi ha ancora negli occhi quel giovane uomo che nei mesi invernali ci appariva ancora più alto e forte nel lungo cappotto, col capo scoperto e la lunga sciarpa che gli avvolgeva il collo. Sembrava indifferente al grande freddo e rimaneva imperterrito alle raffiche di vento: avanzava taciturno e sicuro reggendo con una mano la sua cartella di cuoio e con l’altra (che sembrava immensa) avviluppava la manina di quello tra noi più piccolo o gracile.
Egli ci appariva (e lo ricordiamo ancora oggi) come un Dio greco e quanto calore ci dava e quanta sicurezza e quante cose ci comunicava quella grande mano….
Mai è salito sulla “moto Guzzi” o sulla “Topolino” di colleghi che gli offrivano un “passaggio” … oggi comprendiamo perché.

Basta! Ci stiamo facendo prendere da ricordi per noi bellissimi ma che, probabilmente, a voi non dicono niente ed in tal caso servirebbero solo ad annoiarvi ed a farvi perdere tempo prezioso.
Ma voi siete anche informazione; siete occasione di analisi di sentimenti e di comportamenti che aiutano a crescere e noi siamo un pezzettino di umanità che vi affida questi semplici ricordi e normali sentimenti perché ne facciate l’uso che vorrete.

Purtroppo siamo mitragliati tutti i giorni da notizie che assillano, angosciano, rattristano, avviliscono; viviamo spesso fatti ed eventi che creano ansie e paure e sembra che non vi sia più spazio e tempo per rallentare la corsa ed assaporare il gusto semplice di una storia semplice di gente semplice. Gusto che diventa dolcissimo in questo “amaro” di tutti i giorni così come può apparire bellissima una semplice fotografia decente tra tantissime oscene e volgari che la circondano.

Se avete letto, Vi ringraziamo del tempo che ci avete dedicato ed ancor di più Vi ringraziamo se voleste fare qualcosa per donare più gioia al nostro vecchio, caro, magnifico Sig. Maestro.
Distinti saluti.

Montesano sulla Marcellana Stazione 05-10-1997

“ I bambini del ‘47”

LA FESTA.
La manifestazione fu straordinariamente bella in quanto partecipata da un grandissimo numero di persone appartenenti a varie generazioni; tutte, però, legate in qualche modo, al Sig. Maestro Ciro Casaburi: chi per avere avuto figli al suo ammaestramento chi per essere stato suo allievo. Tutti sentivano con commozione ogni passaggio del programma; tutti collaboravano a far sì che esso venisse attuato scrupolosamente.
Si precisa che l’edificio scolastico nel quale si svolse la prima parte della manifestazione è dotato di due ingressi: uno principale che dà su via Dante ed immette direttamente al salone su cui insistono le aule, il secondo porta allo stesso salone ma solo dopo aver percorso un largo corridoio ed avere svoltato ad angolo retto verso sinistra. Di conseguenza chi vi arriva attraverso tale ingresso, non ne ha la visione fin quando non abbia superato lo spigolo della parete che si ritrova lungo il percorso.
Tanto premesso, alle 9,20 del 7 ottobre 1997, i cittadini, le autorità ed i bambini della scuola elementare, avevano occupato gran parte di quel salone così come gli agenti di polizia municipale col gonfalone del comune di Montesano S/Marcellana. Nel centro del salone, una trentina di ex bambini della prima classe elementare dell’anno 1947 sedevano in banchi dell’epoca, di fianco ad una lavagna degli anni ’40 e di fronte ad un tavolo posto su una pedana. Ma tutto ciò non era visibile, per chi giungeva dal secondo ingresso, se non dopo che questi avesse superato la parete del corridoio.
Alle ore 9,45 un bambino ed una bambina, in grembiule, accompagnati da un’insegnante, andarono a “prelevare” il Sig. Maestro Casaburi. Giunti alla casa, l’accompagnatrice si tenne a distanza mentre i bambini bussavano alla porta. Il Sig. Maestro Casaburi, informato il giorno prima che ci sarebbe stato un semplice saluto da parte di un gruppetto di ex alunni, era stato tenuto bloccato in casa dalla moglie Sig.ra Carmelina Colella, “complice” anch’essa poco informata sulla reale portata della manifestazione, si ritrovò di fronte i due bambini e si lasciò prendere per mano e guidare verso la scuola. I due bambini, istruiti in precedenza, seguirono un percorso diverso da quello seguito dagli altri cittadini e dai familiari, che li obbligava a passare davanti alla chiesa e ad entrare nel vicino edificio scolastico attraverso il secondo ingresso. Era voluto, questo percorso, anche perché, nel passare davanti alla chiesa, i due bambini si sarebbero segnati col segno di croce “obbligando” tacitamente il loro “scortato” a fare la stessa cosa (costringendolo, nonostante fosse alquanto agnostico, a fare una riflessione su quella “lezione”). Giunti all’ingresso posteriore della Scuola, senza avere avuto sentore alcuno della presenza di tanta gente nell’edificio, il festeggiato venne ricevuto dal sindaco, dott. Dino Fiore e dal direttore didattico del circolo di competenza, dott. Angelo Sica.
All’interno incombeva un silenzio pieno di attesa ed all’esterno, grazie all’ottimo lavoro dei Vigili Urbani, non c’era persona alcuna. Dopo i soliti convenevoli, il primo cittadino andò ad occupare il suo posto accanto ai familiari del Sig. Maestro mentre solo i due bambini ed il Direttore Sica accompagnavano il Nostro lungo il corridoio.
Come in un commovente gioco di bimbi, tutti furono rispettosi delle istruzioni date in precedenza: nessuno doveva parlare ed avvicinarsi per salutare e quindi interrompere quel sereno procedere verso il tavolo posto sulla pedana. Le Hostess (meravigliose ragazze della Scuola Media, amiche di Atonia Capobianco, preziosa collaboratrice in tutta la manifestazione) svolsero egregiamente il loro compito, così com’erano state preparate in precedenza: vigili, attive, puntuali, premurose, tranquille, riservate.
Come una sentinella che vigila un passo strategico, io me ne stavo alla postazione microfonica da dove potevo vedere sia il Sig. Maestro che avanzava con passo disinvolto tra due bambini seguito dal Direttore Sica sia i miei compagni della prima classe sia il salone.

Forse fu un tiro mancino dovuto alla stanchezza che avevo accumulato nei giorni precedenti, o forse fu la visione dei miei compagni, ormai uomini e donne maturi, che sedevano in vecchi banchi come bambini emozionati nel primo giorno di scuola, o forse fu per l’incedere pacato di quel Signore ottantenne tenuto per mano da una bambina di prima elementare ed un bambino della quinta classe, che mi riportava ad un’altra giornata di sole e di profumi campestri ed infantili di cinquant’anni prima, fatto fu che un improvviso nodo alla gola m’impedì di parlare e quasi di respirare. Ricordo che non riuscivo a dominare il moto di pianto che mi assaliva e cercai rifugio nell’aula più vicina, alle mie spalle. Ho sempre pensato di saper mascherare bene le mie emozioni ma credo che Lillina Arnone, senza il cui aiuto (così come quello di estrema validità della figlia Atonia e della cugina Fifina non avrei potuto vivere e far vivere quella meravigliosa giornata montesanese) si fosse accorta del tumulto che avveniva in me e, con la scusa di prendere qualcosa inerente la manifestazione, si aggirò nell’aula senza guardarmi direttamente ma, nello stesso tempo, ricordandomi dettagli e dandomi indicazioni importanti. D’improvviso un’ovazione e lei uscì mentre io, non visto, in un turbinare di ricordi e di pensieri, mi lasciai andare ad un breve pianto liberatorio.
Ancora oggi non so se quel mio comportamento fosse da attribuire ad uno stato di debolezza o di forza. Cioè se fosse conseguenza della mia incapacità di dominare l’emozione oppure se fosse dipesa dall’intensità di sentire e quindi da una ricchezza interiore. Certo è che fui intenerito da quel “vecchio” “giovane” che cinquant’anni prima aveva impresso in me e nei miei compagni di classe, una propulsione che ci aveva spinto positivamente nella vita ed ancora allora, al momento della festa, come ora, quella forza era ed è viva (ed inestinguibile).
Lillina tornò trafelata ma assunse un atteggiamento di serena calma e, come non si fosse accorta di nulla che riguardasse il mio stato d’animo, m’invitò ad uscire ed a dare inizio alla festa….Cara Lillina, sapessi quanto ti sono stato grato , allora ed ancora oggi, per la sensibilità che hai mostrato nel non esserti comportata in maniera diversa. Ti sentii amica solidale ma piena di rispetto della mia condizione; non avrei fatto una bella figura e la festa sarebbe andata in un altro modo se il tuo atteggiamento fosse stato diverso.
Al momento del mio ritorno al microfono tutti i presenti erano ancora in piedi. Mentre il Sig. Maestro e il Direttore Sica prendevano posto sulla cattedra, mi avvicinai e un’altra ovazione mi avvolse come limpida onda in un tonificante massaggio. Fui stretto in un caldo abbraccio da quella persona stupenda. In me erano tutti i suoi vecchi alunni e lui li abbracciava tutti!
Era palpabile, nell’aria, una commozione generale e sembrava che anche le cose si animassero e gioissero del momento. A terra, davanti alla pedana, era posato un vecchio braciere; sul tavolo erano sistemati un antico tampone con carta assorbente, un calamaio dell’epoca post-bellica, due penne dello stesso periodo munite di pennino a Cavallotti, alcuni quaderni con la copertina “telata” nera, un “sussidiario” del 1948 ed il libro di letture “CUORE” (particolarmente caro al nostro Sig. Maestro); alle pareti degli stupendi disegni ed una carta geografica; di lato, una vecchia lavagna con sopra scritto, “BUONI” – “CATTIVI” e, nella metà dei buoni una sola parola: TUTTI mentre nella metà dei “cattivi” vi era scritto: NISCIUNO. Era la verità! Una verità confermata dalla vita perché oggi, a distanza di cinquant’anni, possiamo affermare con orgoglio che nessuno ha deviato dalla strada maestra; tutti, tranne Quelli che sono scomparsi prematuramente da quella via, noi superstiti continuiamo a percorrerla con dignità anche se non sempre essa si presenta agevole (e priva di ostacoli).
Sull’altra faccia della lavagna era raffigurata una scena molto significativa che l’Artista, con lodevole perizia aveva reso viva e bella. Vi compariva una strada diritta e lunga, soleggiata, lungo la quale camminava un uomo molto alto che conduceva per mano un bambino. La figura di quell’uomo e quella del bambino creavano un evidente contrasto per le rispettive stature ma ambedue s’inserivano felicemente nell’imponenza del paesaggio raffigurato.
I due erano visti di spalle e quella semplice rappresentazione era molto chiara ed immediata nel messaggio che conteneva: simbolicamente il Sig. Maestro aveva da percorrere ancora tanta strada, nella luce e da dare ancora tanti insegnamenti.
Il piano della lavagna fu girato subito dopo il suo intervento e fu, anche questo, un momento magico per il successo della manifestazione.
Era, nelle mie intenzioni, dare l’impostazione di una normale giornata scolastica che seguisse quella interrotta idealmente qualche giorno prima per cui, dopo che il Sig. Maestro ebbe ripreso posto dietro il tavolo, entrai nel ruolo del capoclasse ed “intimai” ai compagni di alzarsi per il saluto giornaliero. Dopo l’inevitabile vocio dei presenti, al ristabilimento del silenzio, tutti noi ex “bambini del ‘47”, in piedi dicemmo in coro” Buongiorno Sig. Maestro”. Una volta che i miei compagni si furono seduti, procedetti all’appello ed ogni interpellato, dopo aver risposto “presente”, lasciava il suo posto e si recava al tavolo a salutare il festeggiato. Questo rituale valeva per i residenti mentre quelli venuti da altre regioni d’Italia si tenevano nascosti in un’aula e qualcuno, dai banchi rispondeva “assente! Sta a Cuneo, a Pistoia, a Varese” e così via ma alla terza chiamata l’interpellato rispondeva “presente” e, tra gli applausi, avanzava per salutare il Sig. Maestro.
Era un modo semplice e, forse, infantile di procedere e stabilire un contatto ravvicinato col sig. Maestro Casaburi ma era pieno di suggestione e costituiva una via che arrivava direttamente al cuore e rapiva e catapultava tutti nel passato.
Dopo l’appello lessi l’ipotetico tema che ci era stato assegnato e che ho riportato precedentemente.
Il silenzio era assoluto e l’attenzione totale e la commozione fu generale quando, alla fine, il Sig. Maestro (quasi fosse nella veste ufficiale) volle dare il voto a quell’elaborato: “soltanto dieci senza il “più””disse “perché il “più” ti appiattirebbe e non ti stimolerebbe a cercare di fare meglio..!” (Un’altra lezione di vita….).
Quant’era gratificante vedere che la parte più bella di ognuno veniva fuori in quella mattinata e si manifestava nella maniera più naturale: occhi umidi di pianto, gesti impacciati, parole balbettate.
A quel punto, anche per rompere l’emozione, feci impersonare il ruolo di “pettegola” della classe a Rosa Vassallo, moglie di D’Alvano Cono (ambedue ex “bambini del ‘47”). L’appartenenza alla stessa classe ed il matrimonio intercorso mi suggerirono di far riferire da Rosa un aneddoto riguardante un fatto accaduto che mi procurò un rimprovero solenne da parte del Sig. Maestro e rimasto sempre vivo nella mia memoria. Ad un mio segnale Rosa si alzò e, con fare civettuolo e cattivello, disse: “Sig. Maestro, Senatore ha fatto arrabbiare la mamma perché non ha voluto dare la mano alla sorellina per accompagnarla a scuola !” Io, a mia volta, la minacciai di riferire al fratello Pinuccio che si scambiava i bigliettini con Cono D’Alvano…
Ristabilito l’ordine, invitai i compagni ad alzarsi e ad intonare la canzoncina che, come fosse un rito, intonavamo ogni mattina e che, solo in apparenza, faceva arrabbiare la nostra compagna Concetta La Rocca: “Concettina affacciata in finestra….”. Era, quello, un momento di allegria che stemperava il clima di oneroso impegno scolastico e creava uno stato di gaiezza che faceva affrontare con spirito più aperto e disponibile la mattinata di studio. Concettina si rabbuiava in volto ma abbassava il capo per non tradirsi con il luccichio degli occhi ed il sorriso forbito. Faceva l’offesa ma era contenta di sentirsi al centro dell’affettuosa attenzione di tutti, Sig. Maestro compreso. Finita la canzoncina, i compagni si sedettero ed io raccattai una vecchia cartella di cartone pressato con un fianco consunto a causa dello strofinio continuo contro l’anca, dagli orli ammorbiditi e slabbrati, che aveva una cordicella al posto della cinghia per essere portata a tracolla, una figurina del campione di calcio Parola, un’altra di Piola e la terza, appena riconoscibile, del campione di ciclismo Gino Bartali.
Quanti sogni sprigionavano quei campioni e come la fantasia infantile ci faceva immedesimare in loro così bravi, forti, generosi, amati. Allora più di oggi noi bambini venivamo letteralmente galvanizzati dai campioni del calcio e del ciclismo sia perché era molto sentito l’amor di patria, sia perché questi atleti portavano alto il nome dell’Italia nel mondo e anche perché in quel tempo non erano molti gli sbocchi per il nostro “tifo”: non esistevano poli di attrazione della nostra fantasia e del nostro interesse, considerato anche che non esisteva la televisione e non si viveva nell’era del consumismo.

Da quella vecchia cartella tirai fuori un libro di letture ricco di affascinanti figure ed illustrazioni a colori: la figura dell’Italia, una pineta, una chioccia coi pulcini, un passerotto infreddolito su un prato coperto di neve, il sole che tramonta ed il contadino che riporta i buoi alla stalla, una mamma che cuce al capezzale del suo piccolo mentre si addormenta, un bambino che, al mattino, prega per sé, per i genitori, per l’Italia, per il mondo. Ogni pagina andrebbe segnalata per il pregnante significato e lo stimolo alla riflessione: grande è il messaggio di ciascuna. Figure ed illustrazioni bellissime (e non soltanto perché appartengono ad un lontano passato) che ci hanno accompagnato nella nostra formazione…
Estrassi, ancora, il libro “CUORE” al quale tutti noi eravamo particolarmente affezionati. Non vi era uno tra noi che non fosse felice di leggerne un brano e non fosse ansioso di ascoltare la lettura da parte del nostro Maestro, di un racconto mensile. Quanta ammirazione suscitavano il “Piccolo Patriota Padovano”, Garrone, “La Piccola Vedetta Lombarda”, “Il Muratorino”, “Il Piccolo Scrivano Fiorentino”, Coretti, “Il Tamburino Sardo”, “L’Infermiere di Tata”, il personaggio principale del racconto “Dagli Appennini alle Ande”, il piccolo Marco e così via. I nostri piccoli cuori palpitavano per loro e qualche volta non hanno resistito ed hanno lasciato che gli occhi versassero lacrime. Piccoli cuori che, grazie anche a quel libro, son diventati grandi cuori di persone oneste e generose!
Mentre io presentavo a grandi linee il programma della giornata e davo appuntamento al ristorante “Hotel Venezuela” per il pranzo, vidi che il Sig. Maestro sfogliava con mani leggermente tremanti quei vecchi libri e “accarezzava” i quaderni soffermandosi sugli elaborati corretti, valutati e firmati cinquant’anni prima da lui.
I bambini della locale Scuola Elementare, ordinati ed eleganti nella semplicità dei loro grembiulini, si disposero per i canti. Essi costituirono una perla preziosa bene incastonata nel quadro generale della giornata. Vanno lodati, per questo, loro, i genitori ed i rispettivi Insegnanti ma il merito più grande fu della vulcanica Fifina Pascale, Maestra sensibile ed instancabile che li aveva messi insieme, li aveva preparati ed assistiti nelle bellissime esibizioni canore in onore del festeggiato. Le canzoncine che la cara Fifina aveva insegnato ai bambini erano le stesse che il nostro Sig. Maestro ci faceva cantare nel corso dell’anno scolastico : “Quel mazzolin di fiori”, “E le stellette” “E la bandiera dei tre colori”, “Sul cappello”, “Dammi, o bella, il tuo fazzolettino”, “Lassù sulla montagna (La montanara)”, “El capitan de la Compagnia”, “Quando passano per via”. Fu un’esibizione perfetta in sintonia con l’atmosfera che si era creata. Grazie, ancora, bambini; grazie Fifina!
Il Sig. Maestro , che fino a quel momento aveva controllato bene i suoi sentimenti, non riuscì più a dominarsi e volle prendere la parola per esprimere il suo stato d’animo. Commosse tutti col suo parlare e si vedeva chiaramente che era felice di trovarsi là e di parlarci a “braccio” ed avrebbe continuato con entusiasmo travolgente se il figlio Gildo non gli avesse fatto, più volte, cenno di “tagliare”. Noi tutti saremmo stati felici di ascoltarlo tutto il giorno tanto era chiara, profonda, carezzevole la sua voce ed interessante e toccante il contenuto del suo dire!
Bianco Antonio era un bambino intelligente ed, ancor più, volenteroso e diligente nel lavoro scolastico. Per questo fu scelto dal Sig. Maestro quale capoclasse. Egli abitava quasi di fronte alla scuola ma al di là della ferrovia. Era il primo a giungere a scuola e non perdeva mai tempo in giochi e scherzi. Preciso e serio nelle incombenze affidategli si faceva stimare da tutti. Dopo la Scuola Elementare si trasferì con la famiglia nel Nord e noi non avemmo più modo di vederci. Per la circostanza della festa avevo scritto a lui come avevo fatto con gli altri compagni lontani. Mi fece la graditissima sorpresa di telefonare per comunicarmi che sarebbe stato presente e così, il pomeriggio del giorno prima di quello fissato per i festeggiamenti ci siamo riabbracciati dopo oltre quarant’anni. Aveva assunto l’aspetto di un signore ben messo, soddisfatto e sereno. Infatti, come mi disse, si era bene affermato nel campo artistico della moda: era diventato scultore modellista.
Tranne i parenti più prossimi, nessuno sapeva della sua presenza sul posto ed io lo pregai di tenere nascosta la cosa fino al giorno dopo e concordammo che nel corso della manifestazione si sarebbe confuso tra la gente e solo quando io lo avrei nominato per la seconda volta, avrebbe fatto la sua comparsa avanzando verso il Sig. Maestro e poi verso la postazione microfonica.
Russo Pio è un altro compagno di scuola che, contrariamente a Bianco Antonio, non ha mai amato troppo i libri ma si è mantenuto sempre nella media. Di carattere buono e socievole, si è inserito nel mondo del lavoro come tecnico del servizio acquedotto del Comune di Montesano. Ha la tendenza alla risata ed è contagioso in tale caratteristica. A cinquant’anni e più non aveva, ovviamente, la vista di un ventenne e, farlo leggere, diventava quasi un’impresa. Ma tant’è: gli affidai, non a caso, il compito di leggere, nel corso della fittizia mattinata di lezione, una delle più belle pagine del libro “CUORE” che costituiva la lettura preferita del nostro Maestro: “L’Italia”.
La limitata dimestichezza alla lettura e la vista non più buona creavano problemi al nostro compagno Russo Pio che incespicava, farfugliava e sudava le cosiddette sette camicie nel proseguire nella lettura del brano assegnato (per la verità tale comportamento esagerato era anche voluto). Allora io, affranto, feci rilevare che il suo modo di leggere svuotava di ogni significato quella bella pagina di De Amicis e che solo Bianco Antonio avrebbe saputo ridarle il fulgore che meritava…. Ma purtroppo egli si trovava in Toscana ….
Pio ricominciò daccapo con risultati ancora più disastrosi provocando l’affettuosa ilarità dei presenti. Io, allora, fingendomi esasperato, inveii contro la mala sorte che ci privava della presenza in loco del nostro compagno e quasi ne implorai un suo magico intervento!

Fu molto bello quando, dal fondo del salone, una persona distinta ed atletica, si fece spazio tra la gente ed avanzò fino al tavolo presentandosi, appunto, come Bianco Antonio! Dopo il saluto al vecchio Sig. Maestro, a noi compagni e lo spontaneo applauso dei presenti, ci dilettò della buona lettura che procurò parecchia commozione in tutti quanti.
Simone Beniamino e Vittorio sono fratelli ma, a vederli, a parte la somiglianza dei tratti somatici del viso, dell’espressione degli occhi e del taglio della bocca, per il resto non sembrano tali. Il primo è molto alto ed il secondo è basso. Al tempo della scuola elementare Beniamino era molto riservato e sornione mentre Vittorio era espansivo e scaltro. La loro casa si trovava in una zona isolata e lontana ed ogni mattina arrivavano con qualche minuto di ritardo. Beniamino andava trafelato al suo posto che, a causa della sua statura, era sempre l’ultimo in fondo alla classe mentre Vittorio, piccoletto, col capo tondo come un mellone coperto da una grossa “coppola” , con due occhietti volpini, intabarrato in un pesante cappotto militare che gli arrivava alle caviglie, lo zaino, anch’esso militare, pieno di libri e pane e formaggio, come se dovesse rispettare un rituale, entrava in classe, si scopriva il capo, salutava tutti e poi, serio e composto andava al suo banco posto in prima fila, si liberava di zaino e cappottone e, con la sua immutevole espressione furbesca, si avvicinava alla cattedra, allungava il braccio e stringeva la mano al Sig. Maestro dandogli il “buongiorno compare Maestro” (ne era il figlioccio). Dopodiché se ne tornava impettito al suo banco e poneva diligentemente ogni cosa al suo posto, per niente imbarazzato di avere creato un’interruzione.
Dunque Beniamino, per la sua mole, anche la mattina del 7 ottobre 1997 occupava l’ultimo banco.
Quando chiamai a conferire in Geografia l’ex “Bambina del’47” Emilia Pascale e le chiesi di mostrare sul cartellone raffigurante l’emisfero orientale ove si trovava l’Africa, Beniamino si alzò in tutta la sua statura e, con voce stentorea da antico guerriero dell’Iliade, disse che nel Sud di quel continente si trovava il nostro compagno D’Alessio Carmine che là era emigrato per motivi di lavoro, che si era creato la famiglia e si era sistemato bene da parecchi anni. Io, fingendomi irritato per l’interruzione, lo rimproverai per l’invadenza e conclusi che D’Alessio stava bene dove si trovava e, se avesse avuto buonsenso e sensibilità, avrebbe almeno telefonato per un saluto.
Fu grande ed inaspettata la sorpresa quando, invece, da un’aula dove lo avevo fatto nascondere , venne fuori il nostro caro compagno di scuola e di giochi. Nessuno si aspettava di vederlo perché nessuno sapeva che era giunto in nottata , apposta per la festa, da Città del Capo e fu molto bello quando comparve e disse che non poteva mancare ad un incontro di quel genere che assumeva l’aspetto di un evento. Il Sig. Maestro, visibilmente commosso, si alzò e gli andò incontro per abbracciarlo. Così come fece con Russo Pierina e Perretti Filomena che erano arrivate in mattinata dalle loro città di residenza nel Nord del Paese.
Russo Antonio, maestro lui stesso, non sapendo che era nel programma di parlare in chiesa di un altro gigante della didattica nella Scuola Elementare, il Sig. Maestro Emilio Bosco, ebbe parole di commemorazione e di spirituale saluto.
Allietò ulteriormente in maniera imprevista ed imprevedibile la già bella mattinata, un ragazzo di quindici anni che suonò divinamente la fisarmonica e si dimostrò una vera rivelazione non smentendo minimamente le lodi che di lui aveva fatto il Prof. Ciro Capobianco al quale va il merito di averlo “scoperto” e proposto.
Un merito ancora più grande è dovuto al Prof. Capobianco per l’elegante capacità che ebbe nel raggiungere, con la sua delicata sensibilità, il nostro stato d’animo. Egli ci fece una bella improvvisata che ci intenerì e che ancora oggi mi procura commozione. Ci lesse una sua parodia di una delle più belle pagine de “I Ragazzi della via Paal” e che era in perfetta sintonia con la circostanza.
Trascrivo integralmente, tanto è fatta bene!
Montesano Scalo 21-3-1948
“All’una meno un quarto, sopra la cattedra dell’aula della 1° elementare, quasi a premio dell’ansiosa attesa del giovane Signor Maestro Ciro Casaburi, l’aula si accese di una bellissima fosforescenza verde-smeraldo: Ormai era certo, anche in quell’anno esisteva la riprova che alcuni bambini erano entrati, dopo aver per mesi disseminato di aste quaderni dalla copertina nera, nel mondo incantato della lettura. Ripeto all’una meno un quarto, precisa.
E proprio in quell’attimo magico, si alzò dal cortile della casa contigua il suono di un organetto che ebbe così il potere di frantumare di colpo la serietà degli scolari.
Nella quasi calda giornata di marzo, la finestra era spalancata e la musica, portata sulle ali della dolce brezza, primaverile, invase l’aula in men che non si dica.
Tutta la scolaresca fu presa da una gran voglia di ridere, e anzi qualche ragazzo aveva dato inizio all’allegria. Mentre gli scolari del 1° banco gioivano ancora per la recente scoperta, gli altri guardavano fuori dalla finestra i tetti delle case vicine. Ormai l’irrequietezza era in tutta la classe. Non c’era più chi stesse fermo. Alcuni ragazzi rovistavano tra l’unico libro ed il quaderno nelle borse di tela militare, altri, più ordinati pulivano i pennini delle penne.
Giovanna chiuse il calamaio tascabile che con un meccanismo ingegnoso non perdeva mai una goccia d’inchiostro,
Salvatore riunì le pagine staccate che sostituivano il libro: perché Salvatore era un elegantone e non intendeva portare la borsa sotto il braccio come gli altri;
Vincenzo nell’ultimo banco sbadigliò spalancando le mascelle;
Pio si rovesciò le saccocce, spargendo sul “lastrico” tutte le briciole del pezzo di pane che aveva sbocconcellato dalle dieci all’una senza levarselo di tasca;
Antonio prese a stropicciare i piedi come chi non ne può più d’alzarsi, mentre
Gallo, dopo aver steso sulle ginocchia sotto il banco la tela cerata per riporvi il libro e il quaderno, adesso tirava la cinghia. E la tirò con tale violenza che il banco fece uno scriccolìo ed egli stesso diventò rosso.
In conclusione anche Concetta, Emilia, Filomena, Giuseppina, Antonietta, Pierina e Rosa stavano preparandosi ad uscire. Solo il Signor Maestro visibilmente soddisfatto per i progressi mostrati dai ragazzi nella lettura, sembrava non accorgersi affatto che ormai mancavano cinque minuti solo al termine delle lezioni.
Ciò è tanto vero che, a un tratto, girando lo sguardo mite ma severo sulle teste di quei ragazzi, disse:
“Che cosa c’è?”
Sopravvenne un gran silenzio. Un silenzio di tomba. Gallo lasciò andare la cinghia; Bianco si spicciò a tirare indietro le gambe; Pio rimise a posto le tasche; Salvatore la finì di riordinare i fogli; Giovanna si mise nella tasca del grembiule nero il calamaio, tanto in fretta, tuttavia, da avvertire lo scolare d’una goccia dell’inchiostro turchino.
“Che cosa c’è?” ripeté il Signor Maestro. Ma ormai tutti, anche Cono, Russo Antonio e Beniamino erano immobili ai loro posti.
Allora il Signor Maestro guardò verso la finestra dalla quale continuava ad entrare il suono di un’armonica e disse:
“Vittorio, chiudi la finestra!”
Vittorio, il piccolo Vittorio, si alzò subito e, mostrando un visetto serio, si avviò per eseguire l’ordine del Signor Maestro. In un battibaleno tutti gli scolari escono dall’aula e si precipitano fuori con una corsa sfrenata che si cambia in andatura soltanto lesta tutte le volte che appare l’alta figura del Signor Maestro: torna il silenzio ma dura pochissimo perché non appena il Signor Maestro scompare i ragazzi ricominciano ad andare come il vento…..”
P.S.
Con immutata stima al suo Fiduciario Sig. Maestro Ciro Casaburi
da C. C. (Ciro Capobianco – nota dell’A.).

In ogni angolo della terra, tutti i bambini del mondo costituiscono magici scrigni che custodiscono quell’impagabile tesoro fatto d’ingenuità maliziosa, di spontaneità, di sincerità.
“I Ragazzi della Via Paal” sembrano prendere corpo e spirito ne “I Bambini del ‘47”.
Grazie, Ciro, che hai colto quest’affinità che porta ad un felice
accostamento.

Eravamo in ritardo sulla “tabella di marcia” e la seconda parte del programma si doveva svolgere in chiesa. Là don Domenico Tropiano, parroco, aveva celebrato la Santa Messa domenicale e tratteneva i fedeli in attesa del nostro arrivo. Per ben due volte mandò “emissari” a sollecitarci e quando arrivammo era alquanto rabbuiato in volto, preoccupato immotivatamente di non avere altri argomenti da trattare per intrattenere i fedeli. Dopo un solo minuto ridiventò radioso in volto: la chiesa si era affollata di adulti e bambini ed in prima fila vedeva, attento e rapito, il Sig. Maestro con tutta la famiglia e le Autorità.
Nonostante avesse parlato a lungo prima del nostro arrivo in chiesa, don Mimì ebbe espressioni belle e profonde che catturavano l’attenzione di tutti e costringevano ad un’attenta riflessione. Fu particolarmente felice allorché fece l’accostamento del Maestro terreno e del Maestro divino e notai che il nostro Sig. Ciro Casaburi assentiva quasi impercettibilmente ma ripetutamente.
E’ vero che le strade del Signore sono infinite e forse tutti noi che festeggiavamo quella persona costituivamo quella che portava il Sig. Maestro Ciro Casaburi all’altare…!
Dopo la benedizione di don Mimì io chiesi di rivolgere un pensiero ed una preghiera per i nostri compagni tornati alla Casa del Padre: Vassallo Nicola, Russo Andrea, Rubino Antonio e per l’altra grande figura di Docente che, seppur scomparso, sempre vivo nei cuori della gente montesanese: il Sig. Maestro Emilio Bosco. Avvertii anche nei miei vecchi compagni di scuola lo stesso dolore che mi pesava nel cuore mentre li nominavo perché parlandone riprendevano vita momenti vissuti insieme, spensierate risate e giochi condivisi, corse pazze in bicicletta attraverso campagne assolate o viali boscosi coperti di rosse foglie nelle luminose giornate autunnali, progetti di vita, grandi quanto i sogni di ragazzi al risveglio di un dì di festa.
Io sentivo la loro presenza aleggiare in quella chiesa e pregai tanto per loro ed affidai ai parenti di ciascuno un fascio di fiori da deporre sulle loro tombe a nome dei “Bambini del ‘47”.
(Dopo qualche giorno mi giunse un cartoncino da parte della Signora Agnese Riccio, vedova di Rubino Antonio che diceva: “La famiglia Rubino sentitamente ringrazia e prega di scusarla se possibile. I fiori sono stati portati lo stesso giorno sulla tomba del ragazzo del ’39 Antonio Rubino assente giustificato all’appello. Di nuovo grazie di cuore”. Ogni commento sarebbe inadeguato!).
Seguì la consegna al Sig. Maestro di una pergamena d’argento a nome di tutti i suoi ex della prima classe del ’47 e poi il sindaco di Montesano sulla Marcellana, Dott. Dino Fiore, gli consegnò una bellissima medaglia d’oro a nome e per conto dell’Amministrazione Civica. Il dott. Fiore ebbe parole di gratitudine per quanto aveva fatto per i bambini appartenenti a varie generazioni ed in particolare per i figli di Montesano ed auspicava un lungo ed intenso rapporto futuro con i giovani e la gente della zona perché si arricchissero della sua saggezza, esperienza e carisma. La medaglia d’oro raffigurava in maniera quanto mai opportuna, un seminatore che spargeva a piene mani le sementi che cadevano in buon terreno perché germogliassero rigogliose.
Io lessi i messaggi di saluto e di felicitazioni, riportati in altra parte del libro, del Ministro della Pubblica Istruzione, on.le Luigi Berlinguer e del Presidente del Consiglio Provinciale dott. Alfonso Andria.
In un’atmosfera di gioia generale, ci salutammo dandoci appuntamento al ristorante “Hotel Venezuela”.
Al ristorante fummo moltissimi a fare corona intorno al tavolo del festeggiato. A parte la presenza de “I Bambini del ‘47” altri ex alunni, parenti, amici, o semplici conoscenti si fermarono a pranzo per godere di quell’atmosfera gaia e familiare.
Il pranzo, ricco di portate, fu di una raffinatezza e squisitezza di altissimo livello così come inappuntabile fu il servizio.
A tavola, per tutta la durata del pranzo, nessuno rispettò il posto che aveva occupato all’inizio. Ci fu uno scambio continuo nell’intento di ognuno d’intrattenersi il più possibile con tutti gli altri. In ciascuno era vivo il desiderio di riprendere i contatti coi vecchi compagni e rivivere nei ricordi momenti indimenticabili della vita infantile.
Ritornò alla memoria la tragedia sfiorata una mattina di primavera quando, proprio davanti all’ingresso della casa che ospitava la Suola, il nostro compagno D’Alvano Cono fu investito da splendente FIAT 500 verde modello “Topolino” che si adagiò su un fianco dopo una brusca frenata. Io mi trovavo alla lavagna e fui il primo, dietro il Sig. Maestro, a correre fuori al rumore dell’urto violento. A terra giaceva il nostro compagno ed il nostro Maestro corse verso di lui, lo prese in braccio e lo portò di corsa verso la casa attorniato da altri Maestri e qualche ragazzo che era uscito. Io mi precipitai verso l’auto le cui ruote laterali che stavano in alto, giravano ancora. All’interno vi era un signore ben vestito di mezza età dal volto cadaverico in cui gli occhi rivelavano un terrore incontenibile. Era adagiato su su un fianco tra lo sterzo ed il sediolino di guida. La sua immobilità, però, non era dovuta a danni fisici subiti ma all’incapacità di reagire in qualunque modo. Mi arrampicai sulla fiancata dell’auto e tirai la leva che azionava il congegno di apertura dello sportello, lo sollevai e sollecitai quel signore ad uscire. Egli era semi-paralizzato in fondo a quello che mi sembrava un pozzo e mi chiedeva solo e ripetutamente: “E’ vivo…? E’ vivo…?”. Vassallo Nicola e Simone Beniamino mi aiutarono a fare uscire quello sventurato dallo sportello destro dell’auto che si trovava in alto. Presto apprendemmo che il nostro compagno Cono era incolume e si stava riprendendo rapidamente. Fu grande la gioia di tutti. Gioia che aumentò quando sapemmo che quel giorno, pur rimanendo in classe, non avremmo fatto lezione.
Belfiore Vincenzo ci fece ricordare di quella volta che gli abitanti delle zone pianeggianti della campagna circostante vissero nella grande paura di inondazione a causa della imminente rottura degli argini del fiume Tanagro che, in quei giorni era in piena crescente. Fu, quello, un inverno particolarmente piovoso e, a pochi metri dall’argine destro del fiume, esattamente laddove il suo corso creava una curva a gomito, vi era una casetta a piano terra abitata da una famiglia molto povera.
L’argine era stato corroso quasi interamente e se ne temeva da un momento all’altro lo sfondamento dell’ultimo diaframma con tutte le conseguenze devastanti dell’enorme massa d’acqua e fango che sarebbe precipitata a valle. I lavori di sbarramento delle acque fervevano e si lottava contro il tempo per deviarne il corso. La sola speranza era il miglioramento delle condizioni meteorologiche.
Il capo di quella famiglia, un uomo buono e dignitoso ma in uno stato di salute precario, forse anche a causa dello stress di quei terribili giorni, dell’ansia sopportata, della paura subita, ebbe un attacco e il suo cuore cessò di battere e la moglie ed i numerosi figli, tutti in tenerissima età, si ritrovarono in una indigenza ancora più grande. Allora il nostro Sig. Maestro propose a tutta la classe di far loro visita e di donare liberamente ciò che avremmo voluto.
Aveva smesso di piovere ed i lavori di sbarramento e della deviazione del fiume avevano avuto finalmente la meglio anche grazie alla piena calante e così, un bel mattino gli alunni di tutte le classi, incolonnate, ci avviammo alla volta di quella casetta ove regnavano la tristezza e la solitudine. Ognuno di noi portava qualcosa: pasta, zucchero, formaggio, marmellata, biscotti, uova, salami, soldi, indumenti, giocattoli, scarpe. Qualcuno portò anche una gallina e delle pollastre. Belfiore Vincenzo mi ricordava di come la diffidenza scostante di quei bambini s’era trasformata, nel corso della giornata, in stupefatti sorrisi e poi in serena allegria che ci aveva ripagato abbondantemente della faticosa camminata lungo la fangosa stradina che si snodava tra acquitrini e macchioni per vari chilometri.
Russo Antonietta mi riportò alla memoria lo scambio di “colazioni” che era avvenuto tra noi durante quell’”avventura” che fu la visita alla Certosa di S. Lorenzo di Padula. Lei mi diede pane e frittata ed io ricambiai con pane e marmellata. Ancora oggi, nel ripensarci, sento il profumo della farina fatta lievitare con cura nella madia e poi, impastata a mano e trasformata in panelle, fatta cuocere nel forno di casa ben preparato da mani esperte, nelle prime ore del mattino, fino a farla diventare pane dalla morbida mollica e dalla crosta ruvida e croccante che emanavano un lieve profumo di fascine. Profumo di fascine, di forno e di farina che inondava la casa ed accoglieva come nuvola divina i membri della famiglia al mattiniero risveglio.
E la frittata, dorata ed odorosa di scoppiettante fuoco, che inzuppava il pane di olio… quanto amore e perizia vi era nella preparazione di quella “colazione” e quando la si sbocconcellava per gustarla più a lungo o la si divorava incapaci di resistere a quel forte desiderio di assaggiare immediatamente, sembrava di assaporare il sorriso di una mamma che la confezionava.
Ho definito “avventura” quella visita guidata alla Certosa di Padula perché tale ci apparve:
un mattino, di buon’ora, le classi 3e, 4e e 5e fummo schierate su due file e fummo avviate a piedi alla volta della Certosa che distava oltre sei chilometri. Poco dopo la partenza lasciammo la strada asfaltata e c’inoltrammo sulle polverose e profumate vie che si snodavano, deserte, nella lussureggiante campagna punteggiata di secolari querce. Man mano che avanzavamo ci sembrava di percepire sempre più chiaramente un’amorevole chiamata. La giornata era splendida ed il morale alto. La strada era lunga ma tutto sembrava cantasse intorno a noi e dentro di noi. Camminavamo allegramente aprendo e chiudendo continuamente i nostri zainetti militari o le borse a retina per sbocconcellare o scambiare le cose buone da mangiare che le nostre mamme avevano peparato. Eravamo freschi e motivati e non accusavamo la stanchezza. Dopo qualche ora di cammino, improvvisamente ci ritrovammo al cospetto delle mura di cinta del cenobio e poi del suo ingresso. Come ci apparve enorme quel monumento mezzo sepolto nella parte anteriore e con un cortile immenso su cui si affacciava una serie di locali occupati da maiali e pecore. Maiali e pecore ruzzavano nel cortile e negli spazi limitrofi. Ricordo che restai amareggiato da quello spettacolo e mi sembrò quasi di percepire, prestando bene l’orecchio dello spirito, un lamento di sofferenza come quello di un gigante ferito, custode di storia, di arte, di fede, di costume, di cultura che, per quanto umiliato, giaceva maestoso nella sua lenta e dignitosa agonia.
(Come ho potuto e saputo, nel corso degli anni successivi, non sordo a quella domanda di aiuto, mi sono prodigato affinché quel “gigante” pulsasse nuovamente di vita per continuare, con rinnovato vigore, ad accogliere e custodire, ascoltare ed ispirare, illuminare ed orientare…. Fortunatamente persone valide hanno fatto grandi cose ed oggi quel “gigante” non emette lamento e non giace più prostrato!).
Visitammo il grande chiostro, la famosa scala a chiocciola studiata da architetti di tutto il mondo, la sala del tesoro trafugato da Napoleone Bonaparte, la grande biblioteca pericolante con il suo scalone, la cucina, le celle dei monaci. Tutto ci sovrastava e ci affascinava. Ricordo che rimasi rapito da quelle pietre scolpite che, sembrava, mi parlassero e mi raccontassero fatti ed episodi vicini e lontani nel tempo: dal viavai di principi e sovrani all’imboscata ai “Trecento” di Carlo Pisacane. Tra me e loro si stabilì un tacito patto di amicizia che non trascuro di onorare (così come fanno loro) ogni qualvolta se ne presenta l’occasione.
Corremmo e scorrazzammo per tutta la mattinata sotto l’occhio vigile dei nostri Maestri e quando, nel primo pomeriggio riprendemmo la via del ritorno, eravamo molto stanchi. La vera “avventura” iniziò allora perché ad ogni cento metri si levavano proteste e lamenti: chi doveva soddisfare bisogni fisiologici, chi aveva le scarpe che gli procuravano sofferenza, chi aveva sete….
Spesso ci fermavamo per riposare e tutti accoglievamo con gioia tale decisione ma quant’era duro, poi, riprendere il cammino! Ricordo che i nostri Maestri ci sollecitavano e ci motivavano. Io, per orgoglio non mi lamentavo ma accusavo una grandissima stanchezza e stringevo i denti per non cedere ma non riuscivo sopportare la sete e, stremato, quasi mi buttai col capo in un secchio di legno pieno d’acqua attinta da un pozzo davanti ad una casa colonica dove avevamo chiesto soccorso. *(9) Com’era bella, fresca, pura, rigeneratrice, dissetante, santa, quell’acqua…. Allora imparai ad apprezzarla ed a rispettarla e, sono convinto, anche ad altri capitò la stessa cosa. Ricordai che quella sete era causata forse dalla frittata che avevo mangiato ed ancor di più, sicuramente, dal pane e ventresca di maiale che avevo preso da D’Alessio Carmine. In quella situazione, il fatto fu uno sbaglio ma oggi lo rifarei nuovamente e non lo dico solo perché la cosa mi ricorda un momento lieto della primavera della vita….
La giornata fu ricca di scoperte e di esperienze e, non ultima, quella di poter chiedere sempre qualcos’altro a noi stessi, anche quando pensiamo di non avere più niente da dare: Quindi non arrendersi mai!
Nel corso del pranzo, così come avevo suggerito di fare ai compagni lontani, arrivarono telefonate per il Si. Maestro da varie città dell’Italia del Nord e tutte portarono una nota di maggiore gioia e colmavano di felicità il festeggiato. Arrivarono telefonate anche dalla Germania, dall’Australia, dal Canada, dal Venezuela ma quella che più commosse tutti fu la telefonata chilometrica che giunse da Buenos Aires da parte di Libretti Giuseppe. Era, questo ex “Bambino del ‘47”, mio vicino di casa, nato quattro giorni dopo di me e battezzati nello stesso giorno. Fraterno amico mio e di D’Alessio Carmine. Emigrò con la famiglia in Argentina negli anni ’50 ed io non l’ho più visto ma fino a quel giorno non l’avevo neppure sentito. In occasione della festa ci siamo parlati ma fu più il tempo che pianse a dirotto che quello durante il quale parlò. La nostra conversazione fu un misto di risate, singhiozzi, battute, ricordi, progetti, promesse, alla quale partecipavano molti dei presenti. Sulla stessa linea fu l’incontro col Sig. Maestro che, alla fine, rimase molto commosso come un padre che festeggia il suo compleanno e si ritrova attorniato da tutti i figli.
Altri ex alunni di corsi successivi: il dott. Fiorentino Vassallo, il geometra Giuseppe Straticò, la maestra Fifina Pascale ed altri i cui nomi mi sfuggono così come amici quali Felice Vassallo, Rocco Vassallo, Carmine Novellino, Ildebrando Sanseviero, la prof.ssa Fortellino, il sig. Luisi ed altri ancora vollero condividere quella giornata di festa.
In serata consegnai ad ogni ex “Bambino del ‘47” che aveva preso parte alla festa, una bella pergamena con su riportati in forma artistica i nomi di ciascuno di noi e firmata dal nostro Sig. Maestro. Successivamente tutti lasciammo scritto un breve pensiero o solo la firma su uno stendardo di cuoio che avevo preparato in precedenza su cui avevo inciso a fuoco la parola “GRAZIE” ; ricordo che io scrissi “Sono stanco ma tanto felice!”. In questo clima di gioia ci salutammo ripromettendoci di non far trascorrere altri cinquant’anni prima di rivederci su questa terra.
E’ vero che solo nel sogno l’anima si spazia ma quella giornata fu così bella che sembrò quasi un sogno in cui la mia felicità, quella dei miei compagni della Scuola Elementare, quella di tutti i partecipanti alla festa e soprattutto la gioia del nostro caro Sig. Maestro Ciro Casaburi, della moglie Signora Carmelina Colella e dei figli Rosanna, Gildo e Giovanni si dilatarono oltre lo spazio ed il tempo ed in queste dimensioni vivono ancora e, mi auguro, vivano per sempre.
A sera inoltrata si scioglieva e si divideva solo fisicamente un pezzo di umanità che con quella manifestazione aveva saputo ritrovare la sua vera dimensione.

P.S.
Ormai ognuno era tornato alla propria casa quando mi sovvenni che avevo omesso di offrire ad ogni compagna di scuola un bouquet di fiori conservati in una stanza all’insaputa di tutti. Prima di rientrare a Salerno provvidi a lasciarli davanti alle porte od ai cancelli delle loro case rischiando qualche … morso di cane. Pensai anche di lasciare un bigliettino di chiarimento a…. scanso di equivoci!
Fu un’ulteriore, piacevole sorpresa che, a detta delle Signore, non suscitò stupore visto che erano fermamente (e, scusandomi della “modestia”, aggiungo giustamente) convinte che “I Bambini del ‘47” erano e sono i migliori del mondo e sanno essere anche “Cavalieri”.


Maledetti Proci

17-06-2013

Maledetti Proci,
spolpate ogni cosa
e spettro rendete
l’amata mia terra.

A torrenti ridenti,
freschi e cangianti,
fiotti di nobile sangue
versate.
Pianto si scioglie
e di lacrime si ingrossano i fiumi,
i mari a intristire.

Maledetti Proci,
bestie voraci,
false e gentili,
ogni cosa insozzate,
ogni cosa ingozzate,
tutto afferrate
con artigli affilati
e l’uomo spogliate
di dignità e di onore.

Maledetti Proci…
Vili sciacalli,
sbiancati e tremanti,
sordi al pianto
di bimbi e di mamme,
ciechi al Fato
che intorno aleggia
e già prepara
il dì che viene
con voragine
a coglier gli urli
dei vostri corpi morenti…

Putridi anzitempo.

Mario Senatore
Tratta dal libro di poesie “Realtà del Sogno”
dello stesso Autore.


Ai Caduti della 1.a guerra mondiale

(07-09-2013)

Viveva nel fango,
quell’uomo,
chiuso nella sua pelle,
tremante sotto il mantello,
al soffocato pianto
del ferito morente.

Ombra vagante
di bestia vorace,
si acquattava,
si scagliava,
strisciava,
sbranava
nel buio del senno,
al fragore di bombe,
all’urlo tagliente,
ultimo segno di vita,
dell’amico fratello.

Sulla purpurea neve
posava il suo corpo,
quell’uomo,
e, stremato,
spingeva il guardo alle stelle
e,
nel suo solingo pensare,
lasciava che l’onda
di mare funesto,
lo cullasse tra i vivi,
lo spingesse al camino
di casa lontana,
al calore del vergineo talamo,
al sapore salato
del sudore colato,
al richiamo sferzante
di dolcissima madre,
ai canti d’amore
sotto la luna.

Improvviso s’illumina,
il cielo,
sotto le stelle:
scoppi,
grida,
comandi,
lamenti,
con satanico ghigno,
dicon di follia,
di morte,
di guerra ….

Non tronco bruciato
a divenire brace
e innocua cenere calpestata…
Prole, Egli era, dell’italica Terra,
erto gigante ad affrontare il Fato…
Egli era un Uomo…
E non più tremava sotto il mantello,
Non più sognava all’occhieggiar di stelle…

Si ergeva fiero,
fiammante d’italico valore
e scudo faceva
col suo corpo gramo
all’assalto furente
del nemico arrogante.

Sulle pietre taglienti,
sulla neve accogliente,
scriveva,
poi,
col suo sangue bollente,
frasi d’amore,
di dolore,
di valore…

Ora,
noi virgulti di quercia sì grande,
figli grati nel torrente del tempo,
le leggiamo nel vento,
le rosse parole di sangue,
e sui monti,
e nei frali cuori
che restano scrigni eterni
a custodire perle
d’imperituro valore.

Mario Senatore