Inattesi

La solitudine dei figli inattesi
Arrivati per caso, per sbaglio
Accolti e riposti su un comodino
Smaniosi di un bacio, una carezza
una parola affettuosa
Osservatori tristi e nascosti di gesti affettuosi
di un padre a un figlio, di un figlio a un padre

E gli occhi si arrossano
la mascella si serra, lo stomaco in tensione
nel tentativo di non lasciarsi andare al pianto
Perché i figli inattesi non piangono
i figli inattesi si induriscono, giorno dopo giorno

Inadeguati, forse, all’amore


 

L’incubazione dell’amore

Ci sono giorni di incubazione
e giorni di osservazione
E poi, arriva quell’alba
in cui ti svegli consapevole e stranamente leggera

E nulla è scontato
non sempre la consapevolezza porta leggiadria
A volte è un sasso legato al cuore e che a stento poggia sullo stomaco
Ma a volte è un colibrì nella testa
Che con le piccole ali brune solletica il resto

In pochi giorni ho incubato amore
consapevolezza sull’amore
Una manciata di giorni per quella conferma che fa paura

L’amore esiste
E quello che esiste non lo scacci chiudendo gli occhi
Non sei più un bambino
E non ci sono più quelle scatola di cartone in cui bastava nascondere la testa
per diventare invisibili

Rimani dove sei e devi farci i conti
Lottare o imparare a conviverci se non riesci a vincere
Ma nei giochi di cuore è assai difficile uscire vincitori


 

(…) Si chiamava Betula, con una L.

Betula come l’albero, dall’aspetto delicato ma resistente alle intemperie, al gelo più gelo ma anche al caldo più caldo. Così diceva e diceva tante altre cose, quasi sempre senza permesso, perché non c’era una volta che non ci azzeccava e che non ti rimetteva in piedi. In fondo la Betula è una specie “consolidatrice” dei terreni franosi. Nulla è un caso.
Ti dava una mezza occhiata, si accendeva una sigaretta e si sedeva accanto a te. Poi non ti guardava più, o almeno e a te che sembrava fosse così.

Non era per tutti la sua attenzione; era riservata a chi, con un gesto, una parola, una non parola, un sospiro, attirava la sua curiosità. E di lei, seduta al bar, occhi grandi e sorridenti ma arrossati al contempo, l’avevano attirata la scarpe. Aperte. E il fatto che non fosse più tempo e che piovesse. “Ti fotte il pensiero di quello che poteva essere – disse Betula, sfumacchiando verso l’alto – . Il pensiero che non lo sarà. Che non saprai mai se poteva essere e come sarebbe stato. E c’hai il cuore preso a morsi ma senza rimorsi e gli occhi carichi di pianto ma senza alcun rimpianto” (…)