Lettera dal Marocco

Caro Michele,

oggi è il mio decimo giorno in Marocco ed il mio terzo giorno a Tangeri e da lì ti scrivo.

In ogni angolo del Marocco ti ho portato con me, dentro di me.

Ieri ho vagato instancabilmente nella Medina, mi sono volutamente persa nei meandri della città bianca e come Matisse ho ubriacato i miei sensi in questo sapido e appetitoso angolo di mondo.

Sto scrivendo sulla carta che ha avvolto la forma piatta di pane arabo tempestata di sesamo e semi di papavero che ho comperato nel souk. 

Simpatico lo scambio di battute con il mercante!

Perché avvolgere il pane nella carta?

E perché dirgli che non mi ci vedevo proprio a portare il pane sotto l’ascella? 

La carta mi serviva per scrivere una lettera!

Inshallah!¹ Mi ha dato quattro fogli di carta e mi ha regalato una penna: quella che sto usando ora.

Il pane ha invaso la mia bocca di tiepida fragranza.

Avrei potuto fare colazione nella Riad, ma volevo mischiarmi in mezzo a questa gente che incede con passo trasognato nell’intricato dedalo di viuzze anguste. Tutto trasuda fatalismo e magia.

Sono entrata in un caffè dove di donne nemmeno l’ombra e mi sono deliziata del bollente rito del tè alla menta con pinoli. I mille occhi che mi sono sentita addosso hanno risvegliato il mio malsano quanto sprezzante del rischio istinto di provocazione.

Dal mio zaino colorato ho pescato lo zenzero candito acquistato “Au Petit Bazar du Bon Accueil”.

Ho cominciato a centellinare nella mia bocca il godimento dei sapori contrastanti: il dolce e il piccante. Mentre lo facevo sospiravo, gonfiavo sensualmente i miei seni e chiudevo gli occhi, per poi riaprirli e puntarli in maniera insistente su alcuni uomini, chiaramente quelli più giovani….

Basta, troppo piccante – mi sono detta – al terzo pezzo di zenzero.

Un giovane uomo con inquietanti occhi d’ambra mi si è avvicinato trapassandomi con il suo sguardo carico di pensieri scarsamente contemplativi.

- Habibti, viens avec moi je veux te protéger des regards de ces hommes.²

Muta, mi sono alzata dalla sedia e ho cercato di mettere distanza tra me e l’uomo pantera in procinto di ghermirmi. La sua stretta sul mio braccio, le urla concitate e impregnate di suoni gutturali dell’uomo che serviva ai tavoli del caffè e che stava osservando con fastidio la scena, la presa della pantera che perdeva solidità, il mio scatto improvviso verso l’uscita: tutto in un attimo!

Appena ho potuto, certa di non avere nessuno alle mie spalle, ho smesso di correre e ho ripreso a vagare.

Sono entrata nella strade dei souk dell’oro, dove tante voci si mischiavano al ritmo ipnotico di musiche insolite e vibranti.

Alcune donne mi hanno fatto cenno di avvicinarmi a loro. Erano sedute sugli scalini all’entrata della loro casa. Ho capito che mi stavano invitando a condividere il loro cous-cous.

Le mie papille gustative non erano ancora riuscite a dimenticarsi dello zenzero, che già l’aroma di coriandolo aveva cominciato a sedurmi, anzi a stregarmi senza via di scampo.

Zittita la schizzinosa voce da grillo parlante che mi ammoniva a maggiore sensatezza, ho deciso di essere una di loro e ho imitato i loro gesti.

Ho annegato una scodella nel pentolone in terracotta fino a farla straripare di quei chicchi gialli. Ho mangiato con le mani, aiutandomi con il pane.

Una delizia di ceci, cipolla, zucca, carote, carne che indovino essere stata di agnello. 

Lo zafferano, il coriandolo ed il peperoncino si sono mescolati, invadendoli, ai granelli gonfi del cous cous. Sazia, ho guardato le mie mani imbrattate e le donne mi hanno portato un’essenza di petali di rosa e ne hanno imbevuto un lembo delle loro tuniche per nettare via l’unto dalle mie dita.

Per ringraziare quelle donne generose, ho regalato loro il mio orologio.

Ebbra di tutto, ho deciso di alleggerirmi con una passeggiata in riva al mare.

C’era il vento che asciugava il sudore delle troppe emozioni ingerite ed il sole che riportava vigore ai pensieri confusi dal baillame della città vecchia.

Questi sono i tasselli più succulenti del mosaico dell’avventura di ieri.

Ora che ho finito di scriverti, il mio filo conduttore a te non si recide.

Decido di andare nella Città Nuova ad assaporare i limoni in salamoia ed a aspirare il tabacco all’anice con il narghilè, ma questo te lo racconterò domani…

¹ parola araba che significa se Dio vuole


² Habibti: amore mio nella lingua araba. Il resto della frase è in francese e significa: vieni con me, voglio proteggerti

dagli sguardi di questi uomini


 

Lettera ad Ohran

Dear Orhan,

ho lasciato ieri Izmir¹ e già il vuoto mi inghiotte. Vorrei scappare!

Vago come un automa tra le strade di Venezia: sento che sono circondata da passi e voci, da canzoni stonate di gondolieri alticci, ma niente mi riguarda, niente mi sfiora.

La sola cosa che sa toccare la mia anima, il mio corpo e la mia mente è il ricordo di te.

Sei l’essenza del bisogno del niente, il ricordo di una casa baracca e di notti insonni persi l’uno nella braccia dell’altro, l’espressione di un viso che vaga in pensieri a me inaccessibili e le promesse bugiarde di ieri notte proiettate nell’incertezza del futuro.

Ti rivedo a trascinarmi al festival del sufismo di Haci Bektas per assistere alle danze dei dervisci rotanti², tanto quanto a coinvolgermi in un’improbabile danza del ventre all’Halikarnas³ di Bodrum.

Tu che mi chiedi di stirare le tue camice grottesche di fiori e improbabili ghirigori e vuoi sapere perché me la rido mentre mi imbatto in pieghe indisciplinate e irriverenti – certo facile esserlo con un ferro da stiro della preistoria che non conosce ombra di vapor acqueo!

Tu a farmi la lista dei libri di autori turchi che dovrò leggere prima del nostro prossimo viaggio alla scoperta del tuo meraviglioso e contrastato Paese: «La storia di Akabi» di Vartan Pasa, praticamente l’intera opera dell’esiliato Hikmet e «Il libro nero» di Orhan Pamuk.

Tu, vulcano inarrestabile, tu e la tua Reflex, inseparabili, a catturare ogni dove.

Come puoi essere tutte queste cose insieme?

E via a correre sulla tua moto sgangherata, ad imprecare contro una vespa che si scontra con la tua corsa e ti punge ripetutamente. Ti chiedo se senti male e tu, armeggiando con le chiavi della moto per far uscire il veleno, mi rispondi che ti irrita enormemente sprecare il nostro tempo così.

Non so nemmeno dove mi stai portando, ma che importa?

Arriviamo in un paesino della costa di cui non mi ricordo il nome e mi porti in un minuscolo hotel dall’aspetto da postribolo romantico – se mai possa esistere un postribolo romantico – ma io lo vedo così: letto in un’alcova di pietra ornata da drappeggi in tulle rossi, tende sanguigne e portacandele a lanterna che disegnano sagome assurde sui muri e nei nostri occhi divertiti e che tu paragoni al teatro delle ombre dell’impero ottomano.

Dopo una notte turbolenta di tremori inconsulti di candele impazzite e di farfalle che svolazzano sui nostri corpi sudati, il mattino giunge troppo frettoloso.

Il fugace riposo viene interrotto dalla tua voce nel mio orecchio restio:

-Darling, hurry up: we have to go!4

E si riparte fino alla fine del viaggio…….

Ti invio questa lettera con l’intento di farti avere una delle più belle pagine del mio diario: come tu odi perdere tempo e lo rincorri facendo a gara con lui, io odio perdere i frammenti del mio, del nostro tempo. Ti invito, in risposta a questa mia, a scrivermi tutto quello che posso aver dimenticato, ad aggiungere le tue note e le tue postille.

Dove ti rivedrò? Nelle mie memorie a volte allucinate, a volte lucide o a Istanbul? Quando potrò di nuovo toccare la coda dei tuoi lunghi capelli corvini?

Vorrei ritornare in quella dimensione che mi hai regalato ma so che i sogni rimangono sospesi lì in un punto di non ritorno e cercare di riacciuffarli sarebbe come forzare il corso degli eventi.

I rumori di Venezia mi riportano al presente, ma mi basta accarezzare il piccolo pugnale di madreperla appeso al mio collo che mi hai dato ieri per vedere risorgere dall’oblio l’entità delle nostre emozioni che trapassano ogni dove e ogni quando, così come Aladino ha bisogno di sfregare la sua lampada per vedere i suoi desideri materializzarsi.

Siamo due spiriti liberi che vivono in bilico tra cielo e terra, fuoco e acqua, uniti e divisi nel loro bisogno di vivere a mille, ma esistiamo fortemente e non ci perderemo.

¹ Turchia

² Asceti, discepoli di alcune confraternite islamiche, che vivono in mistica povertà, simili ai frati mendicanti cristiani

³ Night-club di fama mondiale fin dal 1979

4 Amore sbrigati: dobbiamo andare

 


LETTERA ALL’AMORE DA UN’ISOLA SPERDUTA 11/06/2012 

Amore,

lontano lontano esiste uno spiraglio d’inebriante felicità.

In un’isola sperduta dal nome ignoto e dal profumo di estate tropicale

l’alba presta fa dischiudere gli occhi alla vita nuova,

il sole accecante del giorno dona vigore alla speranza più ardita,

il tramonto traboccante di colori ci fa osare

nel prendere e dispensare carezze giocose e delicate,

la notte mormora poesie di sentimenti eterni attraverso il canto dei grilli

e una moltitudine di stelle osserva il profilo dei nostri volti appoggiati sullo stesso guanciale.

Dopo che hai letto questo, dove ti guidano i tuoi passi, dove guardano i tuoi occhi?

Non vuoi raggiungermi, AMORE?